lunedì 8 gennaio 2018

Legge Fornero, canone Rai e tasse universitarie: fact-checking alle promesse dei partiti. - Marzio Bartoloni, Andrea Biondi, Davide Colombo.



Cancellare la riforma Fornero sulle pensioni, abolire il canone Rai, azzerare le tasse universitarie. Queste, rispettivamente da centro-destra, Pd e Liberi e uguali, le ultime proposte lanciate nei giorni scorsi in vista delle elezioni del 4 marzo. Tre promesse che tuttavia devono fare i conti con l’impatto sul bilancio pubblico. Il Sole 24 Ore è andato a vedere quanto costerebbero queste promesse elettorali, cominciando con quella più onerosa, cioè l’abolizione della riforma Fornero.

1) La riforma Fornero vale ancora 20 miliardi di risparmi l’anno.Nei primi anni di piena applicazione, tra il 2013 e il 2016, la Riforma Fornero avrebbe garantito una minore spesa pensionistica per circa un punto di Pil l'anno (15-16 miliardi). Sono numeri della vecchia relazione tecnica al decreto Salva Italia (201/2011) che andrebbero alleggeriti dal costo delle salvaguardie esodati che si sono succedute in quegli anni e nei successivi fino all'ottava e ultima (11 miliardi circa di maggiore spese cumulata) varata con l'ultima legge di Bilancio 2017, quella che ha introdotto anche le nuove forme di flessibilità, le nuove 14esime, l'Ape e il cui costo è stato stimato in 7 miliardi nei primi tre anni di applicazione e 26 nei primi dieci, sempre stando ai dati della relazione tecnica della penultima legge di bilancio confermate dalle stime della Ragioneria generale dello Stato.

Al netto di queste misure di maggiore spesa previdenziale, le regole della riforma 2011 dovrebbero garantire comunque risparmi attorno ai 20 miliardi annui tra il 2019 e il 2020, con una proiezione di 200 miliardi nei prossimi dieci anni. Questo numero comprende anche la piena applicazione degli stabilizzatori automatici che modificano i requisiti di pensionamento all'aspettativa di vita (altro strumento che molti vorrebbero depotenziare) e che fa scattare a 67 anni la vecchiaia dal 2019.   

Superare la Fornero significa confrontarsi con questi numeri che, naturalmente, possono essere anche solo in parte aggrediti se quello che in campagna elettorale viene venduto come “dopo-Fornero” si limitasse a misure più ridotte. Un altro set di numeri di partenza che bisogna tenere in mente è invece legato alla spesa per pensioni a legislazione vigente.

Se non si cambia nessuna regole si passa dai 264,6 miliardi dell'anno scorso ai 286,7 del 2020 (22 miliardi in più; +8% secondo la Nota di aggiornamento al Def dello scorso settembre). Siamo attorno al 15% del Pil, un livello stabilizzato dalle ultime riforme, non solo dalla Fornero, secondo tutti i principali organicismi internazionali di valutazione (dall'ocre al Fmi).

Ma quel dato è esposto a un elevato rischio di rialzo: con l'attuale tasso di natalità nei prossimi 20 anni è altamente probabile che l'Italia perderà 3 milioni e mezzo di individui in età lavorativa (15-69 anni), proprio negli stessi anni in cui le assai popolose coorti dei baby boomers andrà in pensione. Tra il 2040 e il '45 salirebbe al 95-100% il numero di pensioni in rapporto al numero di occupati, oltre dieci punti al di sopra il livello di questi anni. La spesa per pensioni in rapporto al Pil salirebbe di oltre due punti, verso il 18%. 

Si dirà che la campagna elettorale si gioca nelle prossime 7 settimane, ma quando si toccano le pensioni è bene guardare agli impatti sui conti nei prossimi 30, 50, 70 anni.

2) L’abolizione del canone costerebbe 1,7 miliardi.
Un miliardo e 700 milioni. Stando a documenti ufficiali e bilanci intervenire sul canone vuol dire prevedere in sostanza compensazioni di questo tipo per la Rai. Del resto, nel momento stesso in cui l'indiscrezione è diventata di dominio pubblico è stato evidenziato come ci fosse la consapevolezza di richiedere allo Stato un miliardo e mezzo-due miliardi nella fase transitoria. Utile per capire le dimensioni economiche della questione rifarsi all'audizione in Commissione di Vigilanza Rai, lo scorso 6 settembre, del viceministro per l'Economia Enrico Morando secondo cui “per il 2018 le risorse da stanziare per la Rai, nel bilancio dello Stato, vengono calcolate in riferimento alle entrate derivate dal canone, stimate dal dipartimento delle Finanze in 1,881 miliardi.

La stima “si basa su un canone unitario di 90 euro (cosa ancora non certa allora, ma poi diventata certa con la legge di bilancio, ndr.) e l'importo, rapportato alla stima definitiva di entrata del 2016, pari a 1,681 miliardi, genera un plus di circa 200 milioni di euro da destinare per il 50 per cento alla Rai”. Per l'azienda, ha aggiunto Morando, è previsto uno stanziamento “di 1,7 miliardi di euro, una somma già al netto della quota del 5 per cento trattenuta dallo stato ai sensi delle manovre di finanza pubblica in vigore”. Va comunque tenuto in considerazione che l'inserimento del canone in bolletta ha prodotto un recupero dell'evasione fra 400 e 500 milioni. Dal 2019 questo introito, ora qualificato come extragettito andrà totalmente alla Rai. Una parte importante dell'idea di abolire il canone è legata all'eliminazione dei tetti pubblicitari per la Rai più stringenti rispetto a quelli della tv commerciale (12% orario e 4% settimanale contro un “tetto” orario del 18% di spot e del 15% giornaliero. Certo, con il varo del nuovo contratto di servizio quinquennale, con cui si declinano i vari impegni della Rai, il quadro diventa sicuramente più complesso.

3) Togliere le tasse a 1 milione e mezzo di studenti costa 1,6 miliardi. 
L'università a zero tasse per gli studenti, proposta dal presidente del Senato Pietro Grasso e leader di Liberi e Uguali, costa oltre un miliardo e mezzo e potrebbe garantire l’esenzione dalla tasse universitarie - in media 1200 euro l’anno con costi più alti al Nord rispetto al Centro Sud - a oltre un milione di studenti . Visto che sono circa 500-600mila gli studenti che dovrebbero già rientrare nell’esenzione (la no tax area) che scatta in questo anno accademico. Stime queste che potrebbe, però, essere riviste al rialzo visto che la gratuità potrebbe avere un effetto rimbalzo provocando una corsa alle immatricolazioni.

La proposta del leader di Leu quella cioè di «avere un’università gratuita, come avviene già in Germania e tanti altri Paesi europei» tocca in effetti un punto molto sensibile. Oggi l’Italia detiene il record negativo assoluto - superata solo dal Messico - per il numero di laureati tra i Paesi più sviluppati: solo il 18%, contro il 37% della media Ocse. Una vera emergenza a cui il Governo attuale ha cercato di dare una prima risposta introducendo da questo anno accademico una no tax area (zero tasse appunto) per chi ha un Isee sotto i 13mila euro e tasse calmierate per chi non supera la soglia dei 30mila euro. Una novità di cui dovrebbero beneficiare circa 350mila famiglie, ma che secondo un’indagine del Sole 24 Ore sale a 500-600 mila nuclei visto che molti atenei hanno stabilito limiti di esenzione a 15mila, se non addirittura a 23mila euro. A questa prima platea con la proposta di Grasso - se mai fosse attuata - si aggiungerebbe oltre un milione di studenti che oggi invece pagano le tasse. In tutto gli iscritti alle università statali sono infatti oltre un milione e mezzo.

Ma quanto si paga oggi per frequentare l’università? Secondo gli ultimi dati raccolti dagli studenti dell’Udu (l’Unione degli universitari) nell’ultimo decennio sulla base dei numeri ufficiali dell’anagrafe del Miur la media in Italia nel 2015/2016 del contributo pagato dagli studenti si è attestata a 1248 euro. Per una raccolta di gettito da parte delle università che in quell’anno è stata di 1,612 miliardi e l’anno successivo - avverte il Miur - è salita a 1,8 miliardi. Le tasse tra l’altro sono aumentate sensibilmente negli ultimi anni (+473 euro, il 61% in 10 anni sempre secondo l’Udu). E con differenze importanti tra le aree del Paese. In particolare nel 2015/2016 le tasse medie al Nord ammontavano a 1501 euro, mentre al Centro valgono 1196 euro, fino al Sud dove il contributo medio pagato dagli studenti non supera i mille euro (963 euro per l’esattezza).

Dal 2018 il Governo ha messo sul piatto 105 milioni all’anno per finanziare la nuova no tax area, cifra che gli atenei considerano però troppa bassa per coprire il mancato gettito del contributo degli studenti. E così molte università con i regolamenti sulle tasse universitarie per coprire i costi in più hanno aumentato le tasse per i redditi più alti e per gli studenti fuori corso. Nei prossimi mesi comunque - quando si avrà il conto esatto delle nuove iscrizioni - si conoscerà meglio l’impatto economico di questa nuova riforma. 
Ma cosa accade nel resto d’Europa? In Germania l’università è pressoché gratuita a eccezione di alcuni Lander. Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia non applicano tasse agli studenti Ue. In Austria, niente tasse per gli europei, circa 700 euro a semestre per gli altri. In Francia la laurea triennale costa 189 euro l'anno, la magistrale 260, ma ci vogliono altri 213 euro per le coperture previdenziali. Più robusta la tassazione in Spagna: da 700 fino a 2.000 euro l'anno per la triennale (più o meno come in Portogallo), fino a quasi 4.000 per la magistrale. Quasi 2.000 euro anche nei Paesi Bassi.

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-01-08/la-riforma-fornero-vale-ancora-20-miliardi-risparmi-l-anno-124229.shtml?uuid=AEFFmldD

venerdì 5 gennaio 2018

Sacchetti a pagamento: diktat del Governo (non di Bruxelles) per arricchire l'amica di Renzi.

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In materia di fake news la vecchia politica è sempre sulla cresta dell'onda. La loro punta di diamante parlando di notizie false è la capacità di crearle ad hoc, di nuove e originali, per ogni occasione. Ultima quella che sta imperversando in questi giorni nei media: "sacchetti di frutta a pagamento sono stati imposti dall'UE all'Italia". Mettiamo l'assunto appositamente tra le virgolette in quanto riporta il concetto che il PD sta cercando di diffondere tramite i suoi canali ufficiali al grido di: "ce lo chiede l'Europa". Ebbene, Bruxelles non ha mai chiesto al Bel Paese di far pagare ai suoi cittadini i sacchetti di plastica biodegradibili e compostabili.
La direttiva a cui il Partito Democratico vorrebbe fare riferimento è la 2015/720, che come si evince dal sito del Parlamento europeo su cui è riportata, non impone prezzi, ma obiettivi. La direttiva dice che le misure adottate dagli Stati membri devono assicurare che il livello di utilizzo annuale non superi 90 borse di plastica di materiale leggero pro capite entro il 31 dicembre 2019 e 40 borse di plastica di materiale leggero pro capite entro il 31 dicembre 2025 o obiettivi equivalenti in peso. Addirittura, le borse di plastica in materiale ultraleggero possono essere escluse dagli obiettivi di utilizzo nazionali.
Dunque, ricapitolando, è stato il Governo marionetta di Paolo Gentiloni ad aver infilato un emendamento la scorsa estate nel decreto legge Mezzogiorno, imponendo l'obbligatorietà. È anche precisata la possibilità di escludere i sacchetti ultraleggeri utilizzati per la frutta e la verdura; la direttiva riguarda principalmente le borse di plastica per fare la spesa, già al bando nel nostro Paese dal 2012.
Ma perché tanto accanimento? Forse perché Catia Bastioli - che guida l'azienda italiana leader del comparto (la piemontese Novamont che detiene l'80% del mercato) - è stata prima nominata da Matteo Renzi presidente della partecipata pubblica Terna, appena due mesi dopo il suo insediamento. Poi, a giugno 2017, Sergio Mattarella la nomina cavaliere del lavoro, appena prima che il segretario del PD tornasse a raggiungerla nel suo tour in treno a porte chiuse.
È sacrosanto che la plastica sia sostituita dalle bioplastiche, ma è come sempre la modalità a essere sbagliata e sospetta. Ad esempio, cosa si sta facendo per la riduzione degli imballaggi? E perché non prevedere il riutilizzo dei bioshopper? Insomma, la classica triste storia della vecchia politica italiana, fatti di amici degli amici che dettano regole e arricchiscono i pochi. Mandiamoli a casa.

giovedì 4 gennaio 2018

The Tesla Scooter



La complessità delle forme di vita di 3,5 miliardi di anni fa. - Dario Iori



Analisi effettuate tramite spettrometria di massa a ioni secondari (SIMS) confermerebbero l’origine biologica di alcuni resti fossili rinvenuti in Australia occidentale e risalenti a 3,5 mld di anni fa. Tali forme di vita erano già ampiamente diversificate, suggerendo che la vita sulla Terra possa essere comparsa ancora prima.

Alcuni resti fossili scoperti n Australia Occidentale apparterrebbero a microorganismi risalenti a 3,5 miliardi di anni fa, e costituirebbero pertanto una delle più antiche forma di vita conosciute. Sulla base delle loro complesse caratteristiche, non è da escludere che la vita abbia avuto origine 500 milioni di anni prima. E’ quanto afferma uno studio pubblicato su PNAS e realizzato da alcuni ricercatori provenienti dalla University of California di Los Angeles (UCLA) e dalla University of Wisconsin di Madison.

Non è la prima volta che la regione di Pilbara, in Australia occidentale, è luogo di ritrovamenti di resti fossili che permetterebbero, almeno ipoteticamente, di spostare indietro le lancette dell’origine della vita o di fare supposizioni a tal riguardo
(Pikaia ne ha già parlato qui). I reperti considerati in questo recente studio furono rinvenuti nel 1983 da William Schopf, professore di paleobiologia alla UCLA nonché primo autore dello studio.

Schopf, servendosi solamente dell’aiuto di un microscopio, riferì che i fossili erano appartenenti a microorganismi, e li identificò sulla base della loro morfologia (cilindrica o filamentosa), descrivendoli su Science; tale identificazione, però, in seguito venne messa in dubbio poiché, stando ai detrattori,
le forme osservate da Schopf avrebbero potuto originarsi anche a causa di processi geologici, e non biologici come si era pensato.


Il recente lavoro pubblicato su PNAS, oltre che confermare l’origine biologica dei microorganismi (dopo che ulteriori prove in tal senso erano state fornite anche nel 2002 su Nature) e datarli in maniera più precisa, ha permesso anche di descrivere approfonditamente le forme di vita presenti all’interno dei fossili, rivelandone una sorprendente complessità.

Per l’analisi di 11 di questi microfossili, Schopf ed i suoi collaboratori, tra cui John Valley dell’Università del Wisconsin, hanno utilizzato la Spettrometria di massa a ioni secondari (SIMS): tale tecnologia analitica permette di determinare la composizione chimica dei campioni analizzati, separandone gli isotopi del carbonio (C-12 e C-13) e calcolandone i rapporti. Gli esseri viventi hanno un rapporto isotopico differente da quello che si osserva nelle rocce, e, in più, organismi differenti presentano rapporti differenti.

Tutti i campioni analizzati avevano una composizione chimica differente da quella della roccia nella quale erano stati rinvenuti; in più, fossili dalla stessa forma avevano i medesimi rapporti isotopici (RI). Tali informazioni hanno permesso ai ricercatori di confermare l’origine biologica degli organismi presi in esame, ed anche di determinarne la fisiologia ed eventuali correlazioni con esseri viventi più moderni.

Gli 11 microfossili appartenevano a 5 grandi taxa: due di essi avevano lo stesso RI dei moderni batteri ed erano fotosintetici, pur non producendo ossigeno; altri due avevano lo stesso RI dei microbi definiti Archea, che dipendono dal metano come fonte energetica e che utilizzano come materia prima per la composizione della propria parete cellulare; un altro microfossile produceva metano.

In accordo con i ricercatori, il fatto che i rapporti isotopici riscontrati siano così diversi, costituisce una ulteriore prova a sostegno del fatto che debba trattarsi di veri fossili, poiché processi geologici avrebbero dato origine a rapporti molto più omogenei tra gli isotopi; nonostante ciò però, alcuni scienziati pensano ancora che i resti siano di origine geologica. La complessità di queste primitive forme di vita inoltre, lascerebbe supporre che la vita possa essere iniziata decisamente prima, e che non abbia avuto particolari difficoltà nell’evolversi in forme più complesse e diversificate.


http://pikaia.eu/la-complessita-delle-forme-di-vita-di-35-miliardi-di-anni-fa/

Il mio angelo custode.

L'immagine può contenere: una o più persone, meme e sMS

Gesù diventa 'Perù' in una canzone di Natale per rispetto dei bambini islamici. E scoppia la polemica. - Greta Di Maria

Gesù diventa 'Perù' in una canzone di Natale per rispetto dei bambini islamici. E scoppia la polemica

Se ne sono accorti i familiari di alcuni bimbi che l’avevano intonata a casa. La preside dell'istituto: "Non ero a conoscenza del fatto". A Trieste una "raccolta di giochi usati per i bambini italiani meno fortunati". Il post dell'assessore comunale Lorenzo Giorgi scatena l'ira degli internauti 

TRIESTE -  Lingue, ideologie, civiltà diverse: la convivenza tra i popoli non è sempre facile, nemmeno a Natale. Soprattutto in Friuli-Venezia Giulia. Così due iniziative, prese una da un'insegnante della scuola Beato Odorico da Pordenone di Zoppola e una dell'assessore triestino Lorenzo Giorgi hanno scatenato la bufera in Rete.

Nella classe terza alla scuola primaria Beato Odorico da Pordenone di Zoppola la maestra ha deciso che la parola Gesù fosse sostituita con Perù per non urtare la sensibilità dei bambini stranieri. Si tratta di una canzone dal titolo "Minuetto di Natale", dove in un passaggio c'è il nome del bambinello. L'insegnante, pensando che in questo modo si potesse turbare la sensibilità di chi non appartiene alla religione cristiana, ha sostituito il nome Gesù con uno che non avrebbe messo in difficoltà nessuno.


La vicenda è stata scoperta dai familiari di due fratellini che durante il pranzo di Natale hanno intonato a casa la canzoncina imparata a scuola. I genitori hanno allora chiesto spiegazioni. La notizia si è diffusa in poco tempo e sui social sono state postate tante critiche nei confronti della maestra e della scuola. La dirigente dell'istituto scolastico si è dichiarata estranea alla vicenda: "Non sapevo nulla dell'iniziativa della maestra". "Roba da matti: ormai il politicamente corretto ha superato ogni limite di decenza ed è diventato grottesco e ridicolo", è stato il commento su Facebook della presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni. 

Ma non si tratta dell'unico episodio a far discutere in città. A Trieste la Befana arriva per i bambini meno fortunati, ma - secondo l'interpretazione di un amministratore pubblico - solo per quelli italiani. È questo il messaggio lanciato sui social mercoledì 27 dicembre dall'assessore comunale al Commercio e agli eventi correlati di Trieste, Lorenzo Giorgi. 

"Ritorna la Befana!! In piazza Ponterosso (dal 29 docembre al 7 gennaio) il mercatino (promosso assieme ai commercianti stanziali) che sposa solidarietà, commercio ed educazione stradale. Raccolta di giochi usati per i bambini ITALIANI meno fortunati": scrive l'assessore Giorgi su Facebook. Parole che sono passate tutt'altro che inosservate, facendo scatenare una vera bufera mediatica sul web e suscitando fiumi di polemiche che nel giro di poche ore sono rimbalzate in tutta Italia, assumendo proporzioni nazionali. Tant'è che alla fine l'assessore Giorgi è stato costretto a rimuovere il post contestato.
 

Ma dopo poche ore è tornato a difendersi: "Da politico dico che l'Italia è l'unico Stato al mondo in cui, affermare che aiutare i propri connazionali prima degli altri, ti fa essere tacciato di razzismo". Secondo Giorgi, infatti, "in Italia si strumentalizza ogni iniziativa".
 
"Lo dico a chi il 4 marzo andrà in Parlamento: c'è uno stato sociale in difficoltà e dobbiamo garantire ai nostri connazionali per primi il modo di sopravvivere dignitosamente. Dopo aver sistemato i nostri, pensiamo agli altri". L'assessore ha inoltre evidenziato: "Nelle mie innumerevoli deleghe ricevo e ascolto tutti, collaborando con tutte le associazioni di qualsiasi orientamento e senza fare distinzioni su chi siano i destinatari finali, purché leciti e bisognosi di aiuto. Qui non si è deciso di non destinare qualcosa a qualcuno, ma di destinare qualcosa a qualcun altro". Per Giorgi, "c'è chi fa la raccolta per i cani e i gatti, chi fa la raccolta ugualmente importante per i bambini siriani: hanno tutti la stessa dignità. Questa associazione ha deciso di dare settimanalmente ai residenti di Trieste e quindi ai nostri cittadini in stato di bisogno. Non ci vedo nulla di male".
 
L'assessore rassicura comunque che "se arrivasse in piazza qualche bambino non italiano a chiedere un giocattolo vorrei vedere chi avrà il coraggio di non darglielo. Ho una lista di insulti e minacce - conclude Giorgi - lunga così: se questi sono i democratici... Si presentassero tutti sotto casa mia: sarò disponibile a confrontarmi con tutti dal vivo per ribadire che la ragione sta dalla mia parte".


Se si smettesse di insegnare religione nelle scuole, migliorerebbe la qualità della vita. Bisognerebbe insegnare che essere umani non è sinonimo di fede, ma il normale comportamento che dovrebbe adottare l'essere vivente nei confronti dei suoi simili.
Le religioni sono come i partiti politici, ognuno segue quella in cui crede, nessuno dovrebbe essere obbligato a seguirne una. Anche chi non crede in nessuna religione merita rispetto se porta rispetto nei confronti degli altri.
Bandiamo questi dogmi, queste ipocrisie, nessuno di noi è in grado di affermare che la propria religione è quella vera, sono tutte vere e, al contempo, tutte false, quindi non imponiamole nelle scuole.
Le nostre divinità, le uniche e vere, sono la terra sulla quale viviamo e che stiamo distruggendo, l'aria che respiriamo e che stiamo appestando, l'acqua che beviamo e che stiamo inquinando.
Tutto il resto è il nulla.

Miliardi di computer e smartphone esposti ai cybercriminali. Ecco cosa sta succedendo. - Biagio Simonetta


Intel, alcuni processori sono fallati. Bene, ora capite a che serve la cybersecurity?

Un'apocalisse informatica. La madre di ogni vulnerabilità è stata scovata nelle ultime ore e riguarda più o meno ogni personal computer e ogni device prodotto negli ultimi dieci anni. La falla, stavolta, non riguarda un software ma il componente hardware cardine di ogni dispositivo: il processore. I chip di Intel e AMD, nonché i microprocessori basati su architettura ARM e costruiti da case come Qualcomm e Samsung, sono esposti a due vulnerabilità che rendono ogni macchina attaccabile. In parole più semplici: è molto probabile che anche il dispositivo che state usando per leggere questo articolo sia interessato alle falle scovate. 
Il risultato è che tutte le password e i dati sensibili contenute su miliardi di Pc, smartphone e tablet sono alla mercé dei cybercriminali. E a peggiorare un quadro già di per sé drammatico, si aggiunge un dettaglio pesantissimo: al momento non esiste soluzione.



Meltdown e Spectre. 
Le due vulnerabilità, scovate da Jann Horn (ricercatore interno al progetto Google Project Zero) sono state ribattezzate Meltdown e Spectre. Lo studio, che successivamente ha trovato la collaborazione di altri centri di ricerca, ha dimostrato come un utente esterno possa accedere alla CPU di un dispositivo, sottraendo dati sensibili e password, attraverso una “speculative execution”, un'azione che serve per ottimizzare le prestazioni dei processori stessi. Ma non è tutto. Sempre attraverso le vulnerabilità dei processori è possibile accedere alla memoria fisica delle macchine. 
Quali computer sono a rischio. Quello che inizialmente sembrava un caso relativo solo alle macchine con processori Intel, col passare delle ore è diventato un problema globale. Le vulnerabilità affliggono in modo trasversale tutti i sistemi operativi. Tutte le CPU prodotte da intel dal 1995 ad oggi (ad eccezione dei modelli Intel Itanium e Intel Atom precedenti al 2013) sono soggette alla vulnerabilità Meltdown. Mentre la vulnerabilità chiamata Spectre – che per difficoltà di soluzione preoccupa maggiormente i produttori – appartiene a tutti i processori prodotti da Intel, ARM e AMD. 
Un problema senza precedenti. 
Per gli esperti siamo davanti a un problema senza precedenti. La gravità assoluta è dovuta al fatto che le vulnerabilità non riguardano il lato software dei sistemi, ma quello hardware. E non è un problema di fornitore, ma di come tutte le CPU sono state pensate e prodotte. «Se Intel, AMD e ARM sono influenzati, stiamo fondamentalmente parlando di tutto ciò che funziona in un sistema informatico in qualsiasi parte del mondo che ha meno di 10 anni», ha detto Beau Woods, esperto di sicurezza informatica al Consiglio Atlantico. Da Intel hanno confermato che «il “difetto” potrebbe consentire agli hacker di vedere informazioni altamente sensibili come password e chiavi di crittografia contenute nel computer, che potrebbero essere utilizzate per accedere alle comunicazioni crittografate degli utenti».
Come si risolve. 
Per risolvere il problema sarà necessaria una combinazione di modifiche da apportare al software e all'hardware, il che richiederà uno sforzo inusuale a livello industriale che coinvolgerà un po' tutta l'industria informatica. Dai produttori di software a quelli di chip e hardware. Va detto che la vulnerabilità Meltdown può essere arginata con un aggiornamento lato software (in tal senso Microsoftha già prodotto una patch per i sistemi Windows che può essere installato da Windows Update sul proprio computer). Mentre quella denominata Spectre – che consente a un programma in esecuzione su un chip di accedere ai dati in un programma separato, senza bisogno di chiamare il sistema operativo – non esistono ancora soluzioni.
Per quanto riguarda i device Android, Google ha reso noto che il problema interessa anche il suo sistema operativo, ma ha aggiunto che è comunque una falla difficile da sfruttare. Da Mountain View hanno annunciato, inoltre, che sono già al lavoro per rilasciare un aggiornamento di sistema. Al momento, invece, Apple non ha preso una posizione ufficiale, anche se alcuni rumors parlano di una nuova versione di macOS in arrivo. È bene, dunque, tenere sotto controllo gli aggiornamenti.