giovedì 27 giugno 2019

Castelmezzano, Basilicata, italia

L'immagine può contenere: albero, pianta, spazio all'aperto e natura

L'immagine può contenere: montagna, cielo, nuvola, spazio all'aperto e natura

L'immagine può contenere: montagna, cielo, spazio all'aperto e natura

L'immagine può contenere: cielo e spazio all'aperto

L'immagine può contenere: cielo, montagna, spazio all'aperto e natura

Scacco matto a Virginia Raggi, la regina di Roma..

L'immagine può contenere: 1 persona, in piedi


Quella che si sta combattendo a Roma da ormai 3 anni attorno al mega business dei rifiuti è una guerra studiata a tavolino e condotta senza esclusione di colpi: bersaglio grosso fiaccare la resistenza di una Sindaca determinata a spezzare una volta per tutte il modello old style, fatto di discariche e inceneritori, grazie al quale, da decenni, a Roma banchettavano indisturbati comitati d'affari composti da monopolisti, ecomafie e politici con le mani in pasta. 
Roba che pesa miliardi. 

Quando alla bestia gli sottrai l'osso o solo tenti di sottrarglielo, si incazza, è la dura legge della natura. 
Virginia Raggi, sola pur in mezzo a tanta gente, sta pagando per questo. 
Una guerra sotterranea fatta di studiati ritardi, incidenti di percorso creati ad arte e veri e propri atti criminali, stanno mettendo in ginocchio Roma, oggi oggettivamente sopraffatta dai rifiuti, e la sua Sindaca. 

Il tutto a spese dei contribuenti romani sia in termini di pecunia (paghiamo una Ta.Ri. fra le più alte d'italia anche perché sempre più spesso chiamati a sopportare lo scotto del conferimento fuori regione), che di salute. 
Sono gli stessi romani che oggi, col cassonetto pieno sotto casa, lungi dal comprenderne le cause, si fanno sobillare dalle menzogne di una stampa locale che ha ingaggiato una campagna feroce contro la Sindaca, che se poi quella stampa ha un patron che si chiama Caltagirone, il palazzinaro romano con quote in Acea amante degli inceneritori, è un caso. Come è un caso che proprio la Raggi al Caltagirone lo ha escluso dalla costruzione del nuovo Stadio. 
E non poteva mancare, nel plotone d'esecuzione della Raggi Salvini, la prima donna del momento che, con le sue esternazioni quotidiane al vetriolo, ne vorrebbe la testa per piazzare i suoi fedeli, i figli di Alberto da Giussano, al Campidoglio. Roba che solo a pensarci mi vengono i brividi. 

Purtroppo la gente ha la memoria corta o, semplicemente, non è consapevole che questo stato di cose parte da lontano. 
Gravi responsabilità sono da addossare alle Giunte capitoline degli ultimi 30 anni, almeno. 
Se solo mettiamo insieme tutti gli ingredienti del recente passato, ne esce fuori una miscela esplosiva:

A partire dalla chiusura, nel 2003, della discarica di Malagrotta, la "buca" più grande d'Europa, chiusura imposta dalla UE in forza di un direttiva che fa divieto di smaltimento dei rifiuti non preliminarmente trattati, a Roma è stato tutto un ricercare soluzioni tampone e non strutturali, tutta roba neanche lontanamente parente di un sistema ecosostenibile e rispettoso dell'ambiente che amministrazioni responsabili avrebbero sentito l'obbligo di ricercare . 

Per circa 40 anni Roma se l'era cavata a buon mercato sversando i suoi rifiuti "tali e quali" dentro una buca, trasformandola in una vera e propria bomba ecologica, che però metteva tutti d'accordo, a partire dagli stessi romani (in ossequio al detto "occhio non vede cuore non duole"), passando per la politica (quella con la p minuscola, da destra a sinistra), fino al monopolista Manlio Cerroni, "l'ottavo re di Roma", avvezzo a concludere i suoi affari con la controllata comunale AMA con una semplice stretta di mano, lo scopri' nel 2016 la Raggi appena insediata, quando incredula non si trovò nei cassetti neanche uno straccio di contratto. 

Ed è così che quando la Raggi è subentrata in Campidoglio si è trovata a gestire, tramite la controllata comunale AMA, il cui gruppo dirigente era più attento a mantenere i suoi privilegi che alla qualità del servizio reso, 4.600 tonnellate di rifiuti al giorno di cui appena 2.000 di differenziata e ben 2.600 tonnellate di indifferenziata il cui trattamento era stato affidato alla cura di soli 4 impianti (TMB), costretti a lavorare h24 al limite della capienza e di cui 2 di proprietà AMA e 2 di proprietà del solito, immarcescibile, Manlio Cerroni, nel frattempo costretto ad operare sotto tutela di un commissario prefettizio perchè la sua Co.La.Ri. era stata raggiunta da interdittiva Antimafia, procedimento sfociato in un processo che per 4 anni lo avrebbe visto sul banco degli imputati e poi prosciolto in primo grado. 

In questa situazione di estrema fragilità strutturale, tenendo fede al programma per il quale i romani l'avevano votata, appena insediata Virginia Raggi ha licenziato un piano rifiuti che punta tutto sulla raccolta differenziata, che i rifiuti li valorizza prevedendo la costruzione di impianti di compostaggio e recupero, e che porta con sé il progetto di riconversione degli impianti esistenti al recupero di materia, un progetto di medio periodo che avrebbe relegato nel passato parole come discarica e inceneritore. 
Ed è da lì che sono cominciati i guai per Virginia. Come in un piano ben studiato tutti gli attori hanno giocato la loro parte in commedia. 

A cominciare dalla Regione Lazio a trazione Pd dove un Zingaretti, latitante dal 2012 dal licenziare un nuovo piano rifiuti per l'individuazione di nuovi impianti regionali, pur di mettere in difficoltà la Raggi ha continuato a fare melina fino a beccarsi ben 2 sentenze del TAR, la prima del 2016 e la seconda nel 2018 che di fatto lo commissariava. 
Fino a che nel gennaio di quest'anno lo ha prodotto il piano mister Zingaretti, ma cercando di imporre alla Sindaca la realizzazione di un'altra discarica, quella di Pian dell'Olmo, rispolverando un vecchio progetto di Cerroni già bocciato anni addietro e ben sapendo che la Raggi non ne avrebbe mai accettato la realizzazione e che sta provocando in queste ore la reazione sdegnata degli abitanti della zona e dei quartieri limitrofi. 

E che dire degli stessi dipartimenti comunali che, insieme alla sovrintendenza archeologica, a maggio scorso hanno silurato la realizzazione dei 2 impianti di compostaggio previsti nel piano Raggi a Cesano e Casal Selce? Due stabilimenti che avrebbero consentito di trasformare, sull'area metropolitana di Roma, l'umido in compost, un fertilizzante naturale per l'agricoltura. 
Vien quasi da ridere, se non ci fosse da piangere, a pensare che un manipolo di dirigenti comunali, che per decenni hanno tollerato che i rifiuti romani si sversassero tali e quali in una cloaca massima, indifferenti al fatto che si appestavano intere generazioni di romani, oggi sacrifica l'inizio di una riconversione ecologica della filiera dei rifiuti di Roma sull'altare del piano regolatore e supposte criticità paesaggistiche e archeologiche. 

L' era Raggi, fra l'altro, verrà ricordata anche per gli incendi seriali dei cassonetti (700 circa, un danno di mezzo milione di lire che i romani pagheranno di loro tasca). 
Tutte casualità? 
Così come: sarà una casualità che per ben tre volte nel 2018 un bando AMA di 225 milioni per l'esportazione dei rifiuti prodotti dai TMB è andato deserto? 
Ma il colpo più basso alla Raggi, quello che la sta mettendo KO, scaturisce da una sequela di eventi incredibili che si sono succeduti negli ultimi mesi e che sembrano essere stati pensati da chi conosce bene la fragile macchina impiantistica su cui poggia la filiera dei rifiuti indifferenziati romani. 

A dicembre 2018 il TMB Salario di proprietà AMA, quello che da solo trattava 750 tonnellate di rifiuti al giorno, viene completamente distrutto dalle fiamme e non riaprirà mai più. 
A marzo di questo anno tocca all'altro impianto Ama di andare a fuoco, quello di Rocca Cencia. Dopo essere stato a lungo sotto sequestro, ha riaperto a singhiozzo per poi guastarsi a fine maggio per il sovraccarico di lavoro. 
E in questa situazione drammatica, dulcis in fundo, è arrivata, a sorpresa, la mossa di Cerroni, che con una tempistica perfetta da aprile ha chiuso parzialmente per manutenzione i 2 TMB del suo Consorzio Colari e riaprirà solo dopo l'estate. 

Come in una partita a scacchi, il sistema mafiopolitico romano ha dato scacco matto a Virginia Raggi, la regina di Roma.

‘Ndrangheta in Emilia, il caporalato del clan: operai inviati a Bruxelles. “Paghe da fame e un terzo dei soldi finiva ai boss” - Paolo Bonacini

‘Ndrangheta in Emilia, il caporalato del clan: operai inviati a Bruxelles. “Paghe da fame e un terzo dei soldi finiva ai boss”

L'ultima inchiesta contro i Grande Aracri ricostruisce le vicende legate all’intermediazione di manodopera. Sono la fotocopia di quanto emerso in Aemilia sulle attività di ricostruzione post terremoto nel 2012. Per i cantieri del Belgio, dove operavano società di costruzione albanesi, partivano decine di lavoratori disoccupati e bisognosi, reclutati in Emilia Romagna nel 2017 e formalmente assunti da una impresa di Firenze che in realtà era solo un paravento.

L’inchiesta Grimilde è come una dependance di Aemilia, il maxi processo alla ndrangheta in Nord Italia. Una succursale che aveva sede a Brescello, chiusa dagli arresti ottenuti dalla pm di Bologna, Beatrice Ronchi. Settantasei gli indagati (13 nella sola Brescello), 16 custodie cautelari, 13 persone accusate di 416 bis, appartenenza ad associazione criminale di stampo mafioso. Una famiglia sotto accusa, quella di Francesco Grande Aracri, della moglie Santina Pucci, dei figli Paolo, Rosita e Salvatore, detto Calamaro e vero reggente delle attività esterne dopo che la nomea del padre era stata compromessa dalla condanna in Edilpiovra. L’uomo che già secondo Aemilia era il vero proprietario dei due locali più “in” di Reggio Emilia, qualche tempo fa, sul fronte discoteche giovanili: il Los Angeles a Quattro Castella e l’Italghisa in città. Anche Carmelina, moglie di Salvatore e con lui residente a Brescello, è indagata, e assieme a lei altri quattro membri della famiglia Passafaro che abita a Viadana.
Erano loro, con illustri compagni di avventura, a mandare avanti le attività di ‘ndrangheta dalla dependance di Brescello dopo il gennaio 2015, con il consueto corredo di intestazioni fittizie, minacce e intimidazioni, falsi e truffe, estorsioni e recupero crediti, furti e sfruttamento dei lavoratori. Carpentieri e muratori in particolare, reclutati dal capofamiglia Francesco Grande Aracri che insegnava al figlio Salvatore come si utilizza al meglio il caporalato e andava personalmente a Bruxelles per gestire le attività che varcavano i confini nazionali.
Le vicende legate all’intermediazione di manodopera sono la fotocopia di quanto emerso in Aemilia sulle attività di ricostruzione post terremoto nel 2012. Per i canteri del Belgio, dove operavano società di costruzione albanesi, partivano decine di lavoratori disoccupati e bisognosi, reclutati in Emilia Romagna nel 2017 e formalmente assunti da una impresa di Firenze che in realtà era solo un paravento. I collegamenti con il Belgio erano garantiti da Mario Timpano, indagato residente a Dilbeek nel paese del nord, mentre ad attendere la manovalanza a Bruxelles e a smistarla nei cantieri era Davide Gaspari, nato in Germania e residente a Viadana di Mantova, finito ora agli arresti domiciliari.
Un terzo del compenso per il lavoro prestato finiva nelle tasche della ‘ndrangheta, mentre i carpentieri e i muratori ottenevano pagamenti da fame. Un caso per tutti: l’operaio Francesco Sciano che ha lavorato per 100 ore ricevendo 675 euro in contanti (6,75 euro l’ora) senza busta paga, senza indennità, senza contributi, pagandosi da solo il vitto nelle settimane dal 25 marzo al 13 aprile 2017. Peggio degli emigranti italiani nelle miniere del Belgio settant’anni fa. 
L’insieme dei reati di Grimilde è stato commesso tra il 2004 e il 2018, con particolare intensità d’azione negli ultimi quattro anni, quando gli uomini liberi della cosca coprivano anche i vuoti lasciato da quelli in galera. Quando in molti a Reggio Emilia si illudevano che tutto fosse finito. Il caso più eclatante è quello riguardante Giuseppe Caruso, dipendente dell’Ufficio delle Dogane di Piacenza, accusato del 416 bis assieme al fratello Albino e capace (a proprio dire) di muovere mari e monti per gli interessi della cosca. Giuseppe Caruso è anche presidente del Consiglio comunale di Piacenza, in quota a Fratelli d’Italia: Giorgia Meloni ne ha annunciato ieri l’espulsione dal partito del presidente arrestato.
Anche l’ex presidente del Consiglio Comunale di Parma Giovanni Paolo Bernini (Forza Italia) fu accusato in Aemilia di concorso esterno all’associazione mafiosa, ma il reato venne riqualificato ed estinto per avvenuta prescrizione. Anche il capogruppo di Forza Italia in Consiglio Comunale a Reggio Emilia, Giuseppe Pagliani, è ancora sotto processo in Aemilia, dopo l’assoluzione di primo grado, la condanna in appello e la decisione della Cassazione di rinviarlo ad un nuovo appello. E infine l’11 luglio prossimo, tra pochi giorni, il Gup di Bologna si pronuncerà sulla richiesta di rinvio a giudizio presentata dalla procura nei confronti di 11 persone, tra cui funzionari pubblici dello Stato, accusati di violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario, con l’aggravante del metodo mafioso, in concorso con l’allora senatore Pdl Carlo Giovanardi, ex componente della commissione parlamentare antimafia. Il tutto all’indomani del terremoto, per ottenere la riammissione nella white list della Bianchini Costruzioni srl. La stimata impresa che – per l’accusa – utilizzava manodopera fornita dalla ‘ndrangheta.
Un’altra società che casca nelle mani dei Grande Aracri di Brescello, con un ruolo in questo caso giocato anche dal capo dei capi Nicolino, è la azienda Vigna Dogarina srl di Treviso, alla quale i Grande Aracri portano via tonnellate di vino per centinaia di migliaia di euro che non verranno mai pagati, mostrando credenziali false di false o vere società. In un caso presentano alla Dogarina una fideiussione per tre milioni di euro apparentemente emesso dalla Banca Barclays nel 2013 e si portano via un milione di bottiglie di prosecco. Peccato che la fideiussione fosse falsa.

mercoledì 26 giugno 2019

Siri, l’intercettazione di Arata: “Ci lavora un secondo per guadagnare 30mila euro. Armando è un carissimo amico”.

Siri, l’intercettazione di Arata: “Ci lavora un secondo per guadagnare 30mila euro. Armando è un carissimo amico”

L'ex sottosegretario è indagato da parte della procura di Roma perché si sarebbe fatto corrompere dallo stesso ex deputato di Forza Italia. "Guarda che l' emendamento passa", diceva Arata il 10 settembre dell' anno scorso, mentre il suo telefonino - trasformato in trojan dalla Dia di Trapani - registrava ogni parola. Il riferimento era per una norma al decreto "rinnovabili" che avrebbe portato milioni di finanziamenti al mini eolico.

Siri ci lavora un secondo per guadagnare trentamila euro“. Parola di Francesco Arata, l’ex deputato di Forza Italia, ora detenuto nel carcere di Regina Coeli. Accusato di essere in affari con Vito Nicastri, il re dell’eolico considerato un finanziatore della latitanza di Matteo Messina Denaro, Arata è l’uomo che fa finire nei guai l’ex sottosegretario della Lega. Siri è indagato da parte della procura di Roma perché si sarebbe fatto corrompere da Arata con una mazzetta da trentamila euro. “Guarda che l’ emendamento passa“, dice Arata il 10 settembre dell’ anno scorso, mentre il suo telefonino – trasformato in trojan dalla Dia di Trapani – registrava ogni parola. Il riferimento era per una norma al decreto “rinnovabili” che avrebbe portato milioni di finanziamenti al mini eolico. “L’emendamento è importante. Sono milioni per noi l’emendamento, che cazzo”, dice Arata. Quell’emendamento non passerà mai”.
L’intercettazione, riportata da Repubblica, è agli atti dell’ ordinanza che il 12 giugno ha portato in carcere Arata e i Nicastri. Ma non si tratta dell’intercettazione integrale: i dialoghi, infatti, sono ancora coperti da parecchi omissis e oggetto di valutazione da parte della procura di Roma. È l’allegato I–44 del rapporto Dia di Trapani con numero di protocollo 2567 del 26 aprile del 2019. Secondo il giornalista Salvo Palazzolo, dietro quell’omissis, è celata anche la frase di Arata, riferita a Siri, “Io gli do 30 mila euro“. È a causa di quel dialogo che il procuratore aggiunto Paolo Guido ha inviato ai colleghi della Capitale la parte dell’inchiesta che riguarda Siri. I riferimenti di quell’intercettazione sono importanti, visto che in fase d’indagini, il quotidiano La Verità aveva ipotizzato l’inesistenza di quel dialogo. 
L’inchiesta per corruzione, però, aveva portato alla revoca delle deleghe di sottosegretario per Siri. “Siri è un carissimo amico, ma proprio caro“, diceva sempre Arata. “Armando – continuava – è uno che ama la Sicilia”. Sempre l’ex deputato di Forza Italia raccontava quando Siri gli aveva fatto un altro favore: “Il biometano l’ho fatto inserire anche nel programma tra Lega e Cinque Stelle, proprio da Armando Siri”. In quel periodo Arata stava lavorando proprio per creare un impianto di biometano in provincia di Trapani: “A Gallitello, la cosa si è fermata perché i Cinque Stelle ci contestano. Non ci possono contestare, perché io l’ ho fatto inserire, li ho fottuti, l’ho fatto inserire nell’ accordo di governo”. Anche ai vertici della Regione siciliana Arata vantava entrature di primissimo livello, come ha raccontato il dirigente Salvatore D’Urso: “Arata si presentava come ex deputato nazionale e referente nazionale per il centrodestra delle problematiche energetiche. Mi parlava dei suoi rapporti con esponenti di vertice della Lega, come Siri e Giorgetti, con i quali sosteneva di essere in familiarità al punto che qualche giorno dopo sarebbero stati ospiti a casa sua”. 
Leggi anche:

Città dello Sport Tor Vergata.

Come doveva essere.



La Città dello sport è una struttura architettonica progettata come complesso sportivo polifunzionale dall'architetto spagnolo, Santiago Calatrava, nell'area dell'Università degli Studi di Roma "Tor Vergata". Del progetto è stata realizzata la struttura di uno stadio del nuoto con l'intelaiatura della copertura che costituisce una caratteristica "vela a pinna di squalo" visibile da grande distanza e la struttura di base dell'altro palazzetto per il basket e la pallavolo.
Climater è incaricata dell'installazione dei canali e delle tubazioni all’interno degli archi strutturali e della realizzazione del sistema di condizionamento.

Com'è.

Immagine correlata



CIO' CHE RIMANE DA EXPO MILANO.

Le Linguiadi - Marco Travaglio

L'immagine può contenere: 3 persone, persone che sorridono, cappello

Ma le avete viste le facce dei cosiddetti vincitori delle Olimpiadi nella foto di gruppo? E le fauci già spalancate dei Malagò, Montezemolo, Carraro, Pescante e Sala? Fauci già sperimentate sugli stadi di Italia 90 (spese lievitate dell’85%, ultima rata dicembre 2015), le Olimpiadi invernali di Torino 2006 (3,1 miliardi di debito, il 225% delle entrate, cattedrali nel deserto e trampolini nella neve), i Mondiali di nuoto 2009 (700 milioni di euro per il palazzo di Calatrava con le vele a pinna a Tor Vergata, mai finito; piscine sequestrate e/o di dimensioni sballate; scheletri in cemento armato abbandonati ai tossici e alle sterpaglie), l’Expo di Milano 2015 (retate di tangentisti e ’ndranghetisti, 1,5 miliardi di buco, mega-aree abbandonate). Magari ci sbagliamo e gli stessi personaggi, che hanno sempre fallito, al seguito di Giorgetti e Zaia si trasformeranno in tanti Quintino Sella e faranno tutto per bene, per tempo e al risparmio. Ma, nell’attesa, solo un pazzo smemorato può unirsi all’esultanza di lorsignori per avere “vinto” un evento che negli ultimi 50 anni – dati dell’Università di Oxford – ha regolarmente sforato i preventivi per una media del 257% (796% Montréal, 417 per Barcellona, 321 Lake Placid, 287 Londra, 277 Lillehammer, 201 Grenoble, 173 Sarajevo, 147 Atlanta, 135 Albertville, 90 Sydney, 82 Torino, 51 Rio). Lasciando ai Paesi e alle città ospitanti un conto salatissimo da pagare, che ha portato al default Atene e Rio, al debito-record Torino e le altre all’aumento vertiginoso delle imposte locali. Anche al netto delle eventuali tangenti. Infatti le città più avvedute – Sion, Calgary, Innsbruck e Graz – si sono ritirate, terrorizzate da quella che Oxford chiama la “maledizione del vincitore” (le Olimpiadi le vince chi le perde e le perde chi le vince: l’unico che ci guadagna è il Cio).
Il Giornale Unico degli Affari suona le grancasse e le trombette a reti ed edicole unificate, come se l’Italia avesse vinto la guerra mondiale e non un “evento” che dura 15 giorni. Ma è tutta propaganda per pompare Lega&Pd che si sono spartiti queste strane Olimpiadi invernali in una città senza montagne, Milano, e in un’altra che rischia di tracollare sotto il peso dei visitatori, Cortina, distante 409 km. L’alternativa era Torino che, oltre al dettaglio delle Alpi, aveva il pregio di costare poco grazie alle strutture del 2006. Ma tutti raccontano la fake news della sindaca M5S Chiara Appendino che avrebbe detto “no”. Balle: si era candidata, ma era stata respinta dal duo Giorgetti-Malagò che voleva relegare Torino al rango di ruota di scorta di Milano-Cortina, con un paio di gare secondarie tutte da ridere.
Non contenti, i trombettieri tirano in ballo pure Virginia Raggi per il no alle Olimpiadi 2024, che non c’entrano nulla con quelle invernali (costano il quintuplo). Senza contare che Milano, Cortina, Lombardia e Veneto sono ricchi, mentre Roma ha un buco di 13 miliardi dal 2008. Infatti nessuno lo ricorda, ma Roma ha rinunciato pure ai Giochi del 2020. E per mano di Mario Monti, non proprio un grillino nemico del Pil. Il 13 febbraio 2012 Monti revocò la candidatura lanciata dal duo B.-Alemanno perché “non sarebbe responsabile prendere un impegno finanziario che potrebbe gravare in misura imprevedibile sull’Italia per i prossimi anni”. Anziché vomitargli addosso anatemi e improperi, come accadde quattro anni dopo alla Raggi, e inneggiare alle Olimpiadi che portano sviluppo, lavoro e letizia, come fanno oggi, tutti beatificarono Monti come il nuovo Cavour. Applausi scroscianti dal Pd (Rosato, Bonaccini, Melandri, Bersani, Gentiloni, Sassoli e Letta) e dai giornaloni al seguito.
Oggi Repubblica titola “Miracolo a Milano (e a Cortina)”. Ma il 14.2.2012 plaudiva al ritiro della candidatura olimpica addirittura in tre articoli. Francesco Bei flautava: “Le ‘cricche’ d’affari romane, lo spettro del default greco, la vaghezza del piano, il rischio di una guerra diplomatica al termine dalla quale, alla fine, l’Italia sarebbe finita distrutta come un vaso di coccio. Sono molte le ragioni che hanno spinto Monti a pronunciare il suo no”. 
Gli faceva eco Tito Boeri: “La tragedia greca era iniziata proprio lì, con la candidatura ad ospitare le Olimpiadi. I sovracosti incorsi nella preparazione di Atene 2004 hanno contribuito a quella spirale di deficit pubblici crescenti, mascherati in vario modo per non pregiudicare l’ingresso nell’unione monetaria, che hanno portato alla crisi del debito”. Seguiva un’impietosa analisi finanziaria di Walter Galbiati: “Non esiste una formula matematica certa che possa valutare il ritorno economico che giustifichi lo spendere 5, 10 o 15 miliardi per realizzare i Giochi. Il ritorno di immagine e gli introiti aggiuntivi, che si trasformano in Pil, sono frutto di stime difficilmente ponderabili. I costi invece sono certi”.
Oggi il Corriere esalta “La vittoria di Milano e Cortina”, “immagine di un Paese giovane che sa sorridere” (le fauci della Banda dei Quattro). Sette anni fa tripudiava per lo scampato pericolo: “Tra il 2014 e il 2018 lo Stato avrebbe dovuto trovare una copertura di 800 milioni l’anno. Con buona pace di chi aveva parlato di Olimpiadi a costo zero”. E Sergio Rizzo irrideva ai “musi lunghi delle nostre alte gerarchie sportive” (i soliti Malagò, Montezemolo, Carraro e Pescante): “Si è arrivati a sostenere che sarebbe stata un’operazione ‘a costo zero’ con le spese coperte da introiti fiscali e incassi dei biglietti. Spese astronomiche già in partenza. Otto miliardi? Dieci? Quanti davvero? Il partito dei Giochi avrebbe dovuto ricordare che da troppi anni sbagliamo, e per difetto, ogni preventivo. Di soldi e di tempi”. E giù botte alle solite cricche: “Un impasto mostruoso di burocrazia, interessi politici e lobbistici che spesso alimenta la corruzione e ci fa pagare un chilometro di strada il triplo che nel resto d’Europa. E in due decenni non è cambiato proprio nulla. Anzi. Per rifare gli stadi di Italia 90 abbiamo speso l’equivalente di un miliardo e 160 milioni di euro, l’84% più di quanto era previsto? Nel 2009 ci siamo superati, arrivando ai Mondiali di nuoto senza le piscine, ma con una bella dose di inchieste”. Quattro anni dopo, Rizzo passò a Repubblica e massacrò la Raggi per aver ribadito il no montiano per il 2024. E ora magnifica “l’occasione per Milano per fare un altro salto nella graduatoria delle metropoli europee. E scavare ancora più in profondità l’abisso che già la separa dalla capitale”. Tutto fa brodo.
La Stampa è tutto un peana all’ “Italia che vince”, a “Mr Wolf Giorgetti missione compiuta”, mentre lacrima per “Torino beffata” e l’Appendino che “non si pente”. Quando invece era Monti a ritirarsi dai Giochi, elogiava “la coerenza di un no responsabile”, in sintonia con “le attese dei cittadini”. E persino il Sole 24 Ore, organo di Confindustria, oggi entusiasta perché “vince lo sprint dell’Italia”, nel 2012 definiva “l’avventura delle Olimpiadi un rischio il cui costo avrebbe creato un effetto sui conti pubblici difficilmente calcolabile”. Un po’ come Salvini, che quando Renzi candidò Roma per il 2026 twittava furibondo: “Gente che in tutta Italia aspetta una casa e un lavoro da anni. E Renzi pensa di fare le Olimpiadi. Ricoverateloooo”. E nel 2016 ribadiva: “Renzi propone le Olimpiadi a Roma nel 2024. Per me è una follia, sarebbe l’Olimpiade dello Spreco. Il fenomeno di Firenze pensi alle migliaia di società sportive dilettantistiche italiane, che fanno fare sport a tantissimi bambini e che rischiano di chiudere per colpa dello Stato, invece di fantasticare su improbabili Olimpiadi. Senza contare tutti i debiti e gli sprechi del passato e del presente. Tirino fuori i soldi per sistemare strade, scuole e ospedali”. Oggi lapida la Raggi per aver salvato Roma dal default, seguendo saggiamente i suoi consigli. E racconta la balla dell’Appendino contraria alle Olimpiadi, all’unisono con politici e giornaloni. I quali dimenticano un dettaglio: esclusa dai Giochi, la Appendino s’è rimboccata le maniche e ha battuto 40 città concorrenti (pure Londra e Tokyo) aggiudicando a Torino un evento sportivo molto meno costoso per lo Stato (78 milioni contro il mezzo miliardo, se basta, dei Giochi invernali) e più vantaggioso: le finali Atp di tennis, che portano alla città ospitante centinaia di migliaia di turisti e centinaia di milioni di introiti. E non durano 15 giorni, ma 5 anni. Però nessuno lo dice. C’è poco da rubare.