sabato 11 gennaio 2020

L’onore delle armi - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano dell'11 Gennaio.

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Non sappiamo se Luigi Di Maio terrà ferma la decisione di lasciare già nei prossimi giorni la carica di capo politico del Movimento 5Stelle. Quel che sappiamo, al momento, è ciò che abbiamo scritto ieri dopo aver verificato la notizia con varie fonti: e cioè che ha comunicato a pochi fedelissimi l’intenzione di dimettersi prima delle Regionali in Emilia-Romagna e in Calabria (che lui non voleva, ma gli sono state imposte da uno scriteriato voto su Rousseau). Perché non ne può più di fare il parafulmine e il capro espiatorio di tutto ciò che non va e anche di ciò che va, nel Movimento e fuori. E per tentar di frenare la frana di miracolati, furbastri, poltronari, opportunisti e scappati di casa nei gruppi parlamentari. Ora può sempre darsi che cambi idea o che qualcuno gliela faccia cambiare, ma è improbabile: il ragazzo ha vari difetti, ma non è un cialtrone né un improvvisatore. A dispetto dell’apparente freddezza, a volte eccede in impulsività: come quando chiese l’impeachment per Mattarella per i no a Savona e dunque a Conte e poi due giorni dopo salì al Colle a scusarsi. Ma quella di passare la mano ha tutta l’aria di una scelta meditata da tempo e precipitata dopo la rottura col gemello diverso Di Battista sul caso Paragone. E va capita, anche da chi – come noi – non la condivide. Anzitutto per un dato che spesso si dimentica: Di Maio ha 33 anni, è stato eletto capo politico a 29, ha vinto le elezioni col 32,7% ed è diventato vicepremier e biministro quando ne aveva 31.
Non so voi, ma io a 30 anni, con tutte quelle responsabilità e tensioni sul groppone, sarei stramazzato al suolo. Lui, il “bibitaro” senza bibite, ha retto gli urti con disinvoltura e intanto ha raccolto molti risultati senza vendersi l’anima. Ha portato i 5Stelle al massimo storico e al governo. Ha rinunciato due volte alla premiership per ragioni di principio (non baciare la pantofola a B. e a Salvini). Ha scelto con Grillo un premier degno e abile come Conte. È stato un buon ministro del Lavoro (e lì doveva fermarsi, lasciando il Mise a un altro), mentre agli Esteri è presto per giudicarlo.
Ha piantato in due anni quasi tutte le bandiere del M5S: il dl Dignità e il Reddito di cittadinanza; le leggi contro la corruzione, la prescrizione, il bavaglio sulle intercettazioni, la svuotacarceri, le trivelle, gli inceneritori, il gioco d’azzardo; i risarcimenti ai truffati dalle banche, il taglio ai vitalizi, ai parlamentari e alle pensioni d’oro, i referendum propositivi, le manette ai grandi evasori. Ha pilotato la svolta governista dando al M5S una classe dirigente tutt’altro che disprezzabile in diversi elementi, sia interni sia della società civile.
Ha limitato le lottizzazioni, nominando negli enti pubblici anche figure indipendenti anziché portaborse di partito (Salini e Freccero alla Rai, Tridico all’Inps, giuristi super partes al Csm). Ha gestito al meglio la crisi di agosto, risparmiandoci un voto anticipato che ci avrebbe consegnati al Cazzaro con pieni poteri e accompagnando con qualche mal di pancia il M5S sulla nuova linea Grillo: l’alleanza col centrosinistra, nella speranza di accelerarne il rinnovamento. E potrà sempre vantare due legislature e due governi senza che un solo scandalo o sospetto di corruzione o peggio di mafia abbia anche soltanto sfiorato un suo ministro o parlamentare. Purtroppo non sempre l’onestà ha fatto rima con capacità e questo, anche se è un tratto comune a tutti i partiti, Di Maio l’ha pagato più degli altri, perché chi vuole mandare a casa tutti non può essere come tutti, dev’essere meglio. Accanto alle battaglie vinte, ci sono quelle perse per mancanza di numeri (spacciate per incoerenze e voltafaccia): su Tav, Tap e riconversione dell’Ilva. E le sconfitte elettorali: dopo il trionfo del 2018, le disfatte in tutte le regioni al voto e soprattutto alle Europee, cui non è mai seguita una seria e collegiale autocritica.
E questo è il primo di una serie di errori, anche gravi, al netto della scarsa capacità di comunicare (il “mandato zero” resterà negli annali come esempio da non seguire): il salvataggio di Salvini dal processo Diciotti, lo scarso sostegno alla sindaca Raggi (che pure di errori ne ha commessi parecchi), l’eccessiva remissività sul razzismo (più parolaio che fattuale) di Salvini, le resistenze alla lotta contro i piccoli e medi evasori e la rinuncia frettolosa alle alleanze nelle regioni su candidati civici dopo l’infausta esperienza umbra, la tendenza a sospettare di tutti e quindi a circondarsi di yesmen, l’enorme ritardo nel rimetter mano all’organizzazione con i “facilitatori” tematici e territoriali e l’annuncio degli stati generali programmatici. Ma, più che i suoi errori, Di Maio sta pagando paradossalmente i suoi meriti: per esempio, aver tenuto duro sul vincolo dei due mandati e le restituzioni degli stipendi, che è il vero movente delle fuoriuscite di chi vuol tenersi lo stipendio e/o vuol essere ricandidato per la terza volta e si traveste da Solgenitsin contestando scelte politiche e regole interne a suo tempo sottoscritte, o scoprendo all’improvviso l’esistenza di Casaleggio. Forse Di Maio avrebbe dovuto anticipare l’uscita a giugno, subito dopo la débâcle alle Europee: i tanti abituati a prendersi gli applausi e a fuggire ai primi fischi l’avrebbero richiamato in servizio a forza. Certo avrebbe dovuto dialogare di più coi gruppi parlamentari. Ma, per quanto indebolito, amareggiato da tradimenti e ingratitudini, sfibrato dall’eterna graticola che lo incolpa di tutto e del suo contrario (troppo filo-Salvini e poi troppo anti, troppo anti-Conte e ora troppo filo), rimane il più capace dei suoi. Il movimentista Dibba, per dire, destabilizzerebbe il governo. Ora, per riempire il vuoto della transizione, dovrà parlare Grillo. Ma il futuro vertice dei 5Stelle, monocratico o collegiale che sia, non potrà rinunciare a Di Maio.


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venerdì 10 gennaio 2020

Contro il taglio dei parlamentari i Radicali nelle piazze raccolgono solo 669 firme. Ma arrivano i senatori leghisti in aiuto dei salva-poltrone.

Contro il taglio dei parlamentari i Radicali nelle piazze raccolgono solo 669 firme. Ma arrivano i senatori leghisti in aiuto dei salva-poltrone

I banchetti tra i cittadini per chiedere il referendum confermativo della legge costituzionale si sono rivelati un flop. Ma il supporto necessario per chiedere la consultazione è arrivato dai parlamentari del Carroccio. E anche se solo ieri un gruppo di sottoscrittori di Pd e Fi si era tirato indietro o comunque aveva congelato la sua partecipazione, oggi i promotori hanno depositato 71 firme. Tra le new entry nella lista: 5 senatori di Fi, 6 della Lega e 1 di Leu. M5s: "Incollati alla poltrona".

La raccolta firme del Partito radicale per il referendum contro il taglio dei parlamentari si è rivelata un flop, ma ci hanno pensato i leghisti a resuscitare quella dei senatori. Quando ormai sembrava che l’operazione di chi vuole salvare le poltrone di Camera Senato fosse destinata a fallire, è arrivato l’intervento di sei parlamentari del Carroccio. Da una parte infatti i radicali hanno annunciato di aver raccolto solo 669 firme sulle 500mila necessarie, ma dall’altra l’iniziativa dei senatori ha raggiunto il quorum superando la soglia dei 64 e lo ha fatto grazie all’apporto dei leghisti. Intorno alle 15 i tre promotori del referendum contro il taglio, Andrea Cangini (Fi), Tommaso Nannincini (Pd) e Nazario Pagano (Fi) si sono presentati in Cassazione per depositare le 71 firme necessarie per la richiesta. Ben 7 in più del numero minimo richiesta di 64 e appena due giorni prima della data utile. Le new entry che hanno aderito dopo le defezioni sono: cinque senatori di Fi, 6 della Lega e 1 di Leu. “Non hanno resistito alla voglia di tenersi strette le poltrone e a quanto pare è arrivato l’aiutino’ della Lega”, filtra da alcune fonti del M5s. “Non vediamo l’ora di dare il via alla campagna referendaria per spiegare ai cittadini che ci sono parlamentari che vorrebbero bloccare questo taglio, fermando così il risparmio di circa 300mila euro al giorno per gli italiani che produrrebbe l’eliminazione di 345 poltrone”.
Eppure ieri sembrava che i partiti fossero ritornati sui loro passi con quattro esponenti di Forza Italia che hanno ritirato il proprio sostegno all’ultimo minuto e le perplessità di una decina di sottoscrittori. La defezione è partita proprio per un ripensamento dell’ala di Forza Italia vicina a Mara Carfagna e quindi a quell’area che ha più voglia di sostenere il governo Conte 2. E quindi non ha nessuna intenzione di minare gli equilibri dell’esecutivo. “Quello sul taglio dei parlamentari è un referendum salva-poltrone“, ha scritto (non a caso) oggi in una nota la stessa Carfagna. “È un vero e proprio trucchetto, che ha come unico obiettivo quello di costringere gli italiani a eleggere nuovamente mille parlamentari, anziché seicento. Per questo ai colleghi senatori che mi hanno chiesto un parere ho detto: non prestatevi a un giochino di Palazzo che screditerà la politica, squalificherà Forza Italia, resusciterà il populismo. La riduzione dei parlamentari è stata approvata con il sì di Forza Italia appena tre mesi fa, dopo quattro letture”. E ha concluso: “Chi vuole il referendum per rimandare il taglio dei parlamentari lo dica apertamente, ci metta la faccia e non utilizzi giochi di palazzo”.
Non c’è ancora la lista definitiva delle 71 firme raccolte a Palazzo Madama. In quella lista, però, non compariranno gli autografi dei senatori del Pd Francesco Verducci e Vincenzo D’Arienzo che hanno ritirato, a quanto si apprende, il proprio sostegno alla petizione. I dem spiegano che i due senatori lo avrebbero fatto in conseguenza “di un fatto politico nuovo” e cioè la presentazione di quella proposta di legge elettorale proporzionale, che fin dall’inizio era stata chiesta dal Pd in relazione al taglio dei parlamentari. Si è tirato indietro anche il senatore M5s Mario Michele Giarrusso: “L’ho ritirata, perché la mia posizione è stata strumentalizzata da alcuni e travisata da altri. Rimango dell’idea che dare la parola ai cittadini con un referendum confermativo senza quorum, è una scelta in linea con la nostra storia di impegno per la democrazia diretta”. E ha chiuso: “A me dispiace aver lasciato la bandiera della democrazia diretta, nelle mani di chi non la merita. Peccato”.
Su 61 azzurri componenti del gruppo di Fi al Senato, restano in 4 ad aver ritirato la firma. A guidare, invece, il drappello forzista dei sostenitori del referendum (oltre la metà del gruppo) c’è Andrea Cangini, uno dei promotori della raccolta firme e tra i più convinti sostenitori della necessità di chiamare in causa i cittadini. Tra gli azzurri hanno firmato (molti da tempo) vari big del partito: dall’ex ministro e attuale presidente della Giunta per le immunità parlamentari, Maurizio Gasparri all’ex presidente del Senato, Renato Schifani. A firmare la richiesta referendaria anche l’ex sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, che mette in guardia dai rischi legati alla “mancanza di una riforma organica” e rievoca Benito Mussolini: ”Una riduzione di questo genere dei parlamentari senza altre modifiche comporta uno squilibrio costituzionale rilevante: si passa dalla centralità del Parlamento alla centralità dell’esecutivo, con una ingerenza dei partiti sull’attività parlamentare di gran lunga più forte dell’attuale”. Ricordiamoci che Mussolini ridusse la Camera a 400 deputati per avere maggior potere dell’esecutivo, poi si rese conto che non bastava e di fatto la soppresse…”, ammonisce.
Tra i sottoscrittori c’è anche Stefania Craxi: “Non l’ho fatto per tattica o altro, ma l’ho fatto per convinzione profonda, perché riformicchie rischiano di creare della storture democratiche. Al contrario, sono sempre più convinta della necessità di una grande riforma istituzionale, che Bettino Craxi iniziò a chiedere nel 1979, ovvero il presidenzialismo, per dare al Paese, governabilità, rappresentanza e stabilità”. Per Schifani invece, il taglio dei parlamentari è “una misura demagogica, che non risolve i problemi di funzionamento dello Stato, da affrontare invece, con una riforma organica della seconda parte della Costituzione”.
I Radicali, dopo aver gridato alla “censura” per non aver raggiunto (e nemmeno sfiorato) il quorum di 500mila firme di sottoscrittori, hanno prima accusato “la censura dei media“. E poi invocato l’intervento del Carroccio. “Abbiamo dato il nostro contributo affinché anche la gamba istituzionale”, hanno dichiarato segretario e tesoriera del Partito Radicale Maurizio Turco Irene Testa, “quella della raccolta delle firme tra i senatori andasse a buon fine. Dobbiamo innanzitutto ringraziare la Lega per aver raccolto il nostro appello e i senatori firmatari per aver consentito che si tenga il referendum”.

S’è prescritta la verità. - Marco Travaglio - Il Fatto Quotidiano

Il guaio del dibattito sulla prescrizione, come su ogni aspetto della giustizia, è che i politici e gli opinionisti che se ne occupano sono per lo più dei totali incompetenti. L’altra sera, a Dimartedì, mi sono permesso di ricordare che la legge Bonafede riguarda la prescrizione durante il processo: infatti la blocca dopo la sentenza di primo grado, per evitare che scatti in appello o in Cassazione. E la prescrizione nel processo riguarda i colpevoli, non gli innocenti: se il giudice ritiene l’imputato innocente, ha l’obbligo di assolverlo, non di prescriverlo. Apriti cielo! Ieri mi sono beccato le lezioncine del Foglio, convinto che io pensi che gl’innocenti “sono tutti colpevoli non ancora scoperti”. Ma anche del Riformatorio, con la rediviva Maiolo. E di quel variopinto carrozzone di garantisti all’italiana formato da ignoranti patentati, come forzisti, leghisti, pidini, renziani e radicali liberi, e da competenti in malafede, che sanno benissimo come stanno le cose ma preferiscono ignorarlo per motivi di bottega, come molti esponenti dell’avvocatura. Tutta gente che non merita risposte: come diceva Arthur Bloch, “non discutere mai con un idiota, la gente potrebbe non notare la differenza”. Ma queste scemenze girano per il web e arrivano all’orecchio dei nostri lettori, che poi sono gli unici che m’interessano: un chiarimento mi pare obbligato.
La prescrizione nel processo è diversa da quella nelle indagini preliminari. Qui il pm investiga sull’esistenza del reato e sulla sua attribuzione agli indagati, prima di esercitare l’azione penale (cioè di chiedere il rinvio a giudizio). Se poi, mentre indaga, il reato si prescrive, molla lì e chiede l’archiviazione per prescrizione, senz’accertare o attribuire il reato. Tant’è che l’indagato prescritto non può rinunciare alla prescrizione. Se invece il pm chiede il rinvio a giudizio e il giudice lo accorda, l’indagato diventa imputato nel processo. E lì (art. 129 comma 2 del Codice di procedura penale), “quando ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta”. Cioè: anche se il reato è prescritto, se il giudice è convinto che l’imputato sia innocente, ha l’obbligo di assolverlo. 

Se invece dichiara la prescrizione, è perché ritiene che sia colpevole o non esistano motivi sufficienti per assolverlo. Ancor più stringente è l’accertamento di colpevolezza di una prescrizione in appello o in Cassazione.
È quella che, grazie alla legge Bonafede, non esiste più. E riguarda indubitabilmente i colpevoli: se la Corte d’appello o la Cassazione dichiarano la prescrizione, condannano pure l’imputato a risarcire il danno all’eventuale parte civile e a pagare le spese processuali. Può mai esistere un innocente condannato alle spese e al risarcimento delle vittime? Ma vittime di chi e di cosa, se fosse innocente? Infatti la giurisprudenza della Consulta e della Cassazione è piena di sentenze che dichiarano la colpevolezza dell’imputato prescritto. Ultimo caso, la sentenza della Cassazione del 28.3.2019 n. 28911: “Come affermato dalla Corte costituzionale, tra le sentenze di proscioglimento che possono rivestire un sostanziale riconoscimento della responsabilità dell’imputato che, ‘ancorché privo di effetti vincolanti’, è idoneo a pesare comunque ‘in senso negativo su giudizi civili amministrativi o disciplinari connessi al medesimo fatto’ ben può rientrare anche la sentenza di prescrizione”. Tanto più quando scatta per l’effetto dimezzante delle attenuanti generiche (riservate al colpevole: l’innocente non ha nulla da attenuare). Non solo: la vittima può usare la sentenza di prescrizione per fare causa civile all’imputato e farlo condannare a risarcire gli altri danni. Perciò l’imputato può sempre rinunciare alla prescrizione, per essere giudicato oltre i termini nella speranza di essere assolto. E può ricorrere contro la prescrizione per ottenere l’assoluzione nel merito.
Lo sapevano persino i due prescritti più famosi d’Italia: Berlusconi e Andreotti. Il primo, nove volte prescritto, si spacciava ogni volta per assolto, ma intanto sapeva benissimo di non esserlo: infatti non rinunciava mai alla prescrizione (mica fesso), ma impugnava regolarmente le sentenze di prescrizione per essere dichiarato innocente (sempre respinto con perdite). Il secondo, assolto in primo grado e mezzo prescritto in appello per associazione per delinquere con Cosa Nostra, mentre l’avvocata Bongiorno berciava “Assolto! Assolto! Assolto!”, la invitava amorevolmente a ricorrere in Cassazione per ottenere l’assoluzione: lo sapeva anche lui che prescrizione e assoluzione sono l’una l’opposto dell’altra. E l’aveva letta anche lui la sentenza d’appello sul “reato commesso fino alla primavera del 1980”. Purtroppo, anche per lui, la Cassazione confermò la prescrizione: cioè la sua colpevolezza di mafioso doc fino al secondo incontro col boss Bontate per discutere del delitto Mattarella. Persino lui, padre costituente, ricordava quello strano articolo 54 che impone a chi ricopre pubbliche funzioni “il dovere di adempierle con disciplina e onore”. E sapeva benissimo che non c’è alcun onore nel prendere la prescrizione per reati infamanti come la mafia. Infatti, se un magistrato accetta la prescrizione per un reato grave anziché rinunciarvi, viene subito sottoposto a procedimento disciplinare per esser punito almeno dal Csm. La qual cosa dovrebbe valere anche per i politici. Che invece si aggrappano alla prescrizione come se non fosse un’onta indelebile, ma un diritto inalienabile ed esclusivo. Vergogniamoci per loro.

Ben consigliato e senza pregiudizi. - Sebastiano Caputo



Il ministro degli Affari Esteri Luigi Di Maio sta vincendo la sfida contro « l’espertocrazia ».


Partiamo da una premessa doverosa altrimenti è inutile stare qui a raccontarci chissà cosa: l’Italia è un Paese a sovranità limitata, abbiamo firmato dei trattati internazionali, siamo nell’Alleanza Atlantica, siamo nell’Unione Europea. Insomma, il campo di azione politico e geostrategico è molto ristretto perché prima di ogni decisione, “nobiltà obbliga”, occorrerebbe coinvolgere tutti i partner occidentali. Questo significa che il giudizio sui vari inquilini della Farnesina si basa su scelte personali, aneddoti di viaggio, dichiarazioni pubbliche, strappi protocollari, movimentismo personale. Appena Luigi Di Maio, in quota pentastellata del governo giallo-rosso, fu nominato ministro degli Esteri, apriti cielo! Improvvisamente erano tutti professori di inglese con certificato C2, studenti delle scuole a pagamento della SIOI o dell’ISPI, ambasciatori al terzo mandato diplomatico. Come se “l’espertocrazia” istituzionale avesse portato chissà quali risultati storici. Come se i nomi degli ex ministri della storia recente della Seconda Repubblica, da Franco Frattini (governo Berlusconi II) a Enzo Moavero Milanesi (Governo Conte I), passando da Gianfranco Fini, Giulio Terzi di Sant’Agata, Emma Bonino, Federica Mogherini, e Angelino Alfano, verranno ricordati nei secoli dei secoli. I tempi dei Moro, dei Fanfani, degli Andreotti, dei Craxi, sono finiti da un pezzo perché esiste un problema alla base della formazione e della selezione della classe dirigente. Nei concorsi pubblici come nei partiti politici.
Quella alla Farnesina è stata innanzitutto una fuga personale e una sfida allo stesso tempo. Quando erano in corso le consultazioni al Quirinale, Luigi Di Maio fu l’unico – insieme ad Alessandro Di Battista e Gianluigi Paragone – a voler tenere il forno aperto con la Lega, peraltro con grandi capacità di mediazione e negoziazione, con lealtà e dignità, ma in quell’occasione venne messo in minoranza dai suoi (che hanno deciso di seguire la volontà di Beppe Grillo, Giuseppe Conte e Roberto Fico). La decisione di occupare il Ministero degli Affari Esteri prendendosi comunque la delega all’export italiano per onorare il lavoro iniziato al Ministero dello Sviluppo Economico, deriva da un malcontento personale, dalla volontà di smarcarsi dalla politica interna di un compromesso al ribasso e impopolare con il Partito Democratico, ma soprattutto per accreditarsi all’estero e preparare un’eventuale uscita di scena (che in soldoni significa conferenze ben pagate in giro per il mondo, e la possibilità di osservare da fuori l’andamento politico nazionale, vedi la parabola discendente, poi ascendente, di Matteo Renzi).

“Ettore Sequi è un diplomatico di grande esperienza, lungimirante, dinamico e preparato, con il quale, sono certo, riusciremo a fare un grande lavoro per mantenere l’Italia al centro del palcoscenico internazionale”. (Luigi di Maio)


A mancargli è ancora la statura, il physique du rôle, la possibilità di calarsi interamente nella parte del Ministro degli Affari Esteri. Troppi pensieri per la testa legati al M5S, troppi sorrisetti davanti ai giornalisti, troppa insicurezza latente nei bilaterali. Pertanto tutti quelli che lo hanno conosciuto da vicino ammettono di aver avuto davanti una persona brillante, ambiziosa, instancabile, intuitiva, professionale, studiosa, che a differenza di molti ex inquilini della Farnesina, non ha alcun tipo di pregiudizio. Una prerogativa necessaria per ricoprire quel ruolo in un Paese che più di seguire un’ideologia geopolitica precisa, deve sfruttare la sua posizione geografica, per perseguire il suo interesse nazionale, in nome del multilateralismo. Peraltro il mandato del capo del Movimento 5 Stelle avviene in un momento storico di rottura, in cui la visione della Germania è in profondo contrasto con quella degli Stati Uniti, di conseguenza l’Europa ha la possibilità ritagliarsi uno spazio autonomo nel grande gioco delle superpotenze di Mare e di Terra. Tutto è iniziato con la nomina come capo di gabinetto di Ettore Francesco Sequi, ex Ambasciatore a Pechino, tra i migliori diplomatici in circolazione, nonché deciso promotore dell’adesione alla Via della Seta. Ma il rafforzamento dei rapporti con la Cina è solo un tassello di un indirizzo internazionale di medio e lungo periodo. C’è il tema delle sanzioni alla Russia, e come ha rivelato Franco Frattini in un’intervista a La Stampa, Di Maio di recente in visita a Bruxelles ha chiesto all’Alto rappresentante dell’Unione Europea Josep Borrell di inserire in agenda la ridiscussione completa delle sanzioni alla Russia. E infine il Mediterraneo allargato, area che si trova al centro della nostra politica regionale ed energetica. Dalla Siria alla Libia, l’Italia ha deciso di inserirsi giustamente nel processo diplomatico e militare turco-russo.
Dopo le aperture a Bashar Al Assad, col ripristino del dialogo con il governo di Damasco, Luigi Di Maio ha sfruttato il momento dell’incontro con il suo omologo 
Mevlut Cavusoglu per chiedere l’apertura di un tavolo tecnico sulla crisi libica insieme ai governi di Mosca e di Ankara, una sorta di formato a porte chiuse a tre sul modello “Astana” in Siria dove partecipano membri del governo e intelligence dei rispettivi Paesi. E’ la soluzione che ci aveva anche suggerito Marija Chodynskaja-Goleniščeva, diplomatica, analista, scrittrice e arabista russa, che ora segue le questioni mediorientali presso il Ministero degli Affari Esteri a Mosca, in occasione della presentazione a Roma (da noi co-organizzata) del suo ultimo libro Siria. Il tormentato cammino verso la pace (Sandro Teti Editore). “Non è facendo stringere le mani a Serraj e ad Haftar davanti ai fotografi che risolverete la situazione in Libia, guardate in Siria, senza grande clamore, come stiamo riunificando il Paese a pochi anni dal nostro intervento militare e diplomatico, con gli Stati Uniti che stanno fuori dalla porta a guardare” aveva più o meno detto pubblicamente l’allieva di Sergei Lavrov. E a chi ora lo incrimina di non essere stato avvertito da Mike Pompeo prima dell’assassinio del Generale iraniano Qassem Suleimani, beh quella è una buona notizia. Gli americani se ti chiamano è per darti degli ordini mica per chiederti un parere. Come accadde a Sigonella.

giovedì 9 gennaio 2020

Legge elettorale, depositato il ddl: ecco il "Germanicum".

elezioni italia generiche

La proposta prevede 391 seggi assegnati con metodo proporzionale, con soglia di sbarramento del 5% e un meccanismo che permette il diritto di tribuna.


Il "Germanicum", il sistema elettorale ispirato al modello tedesco, è stato depositato dal presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera Giuseppe Brescia (M5s). La proposta prevede 391 seggi assegnati con metodo proporzionale, con soglia del 5%, con un meccanismo che permette il diritto di tribuna. Cancella i collegi uninominali del Rosatellum e ne utilizza i 63 collegi proporzionali e le 28 circoscrizioni.

Il partito che non supera il 5% nazionale, ma ottiene il quoziente in tre circoscrizioni in due Regioni, ottiene seggi. Dei 400 seggi della futura Camera, otto spetteranno ai deputati eletti all'estero (nelle circoscrizioni estere con metodo proporzionale), un seggio va all'eletto in Valle d'Aosta in un collegio uninominale.

Camera e Senato "mignon".
I restanti 391 seggi sono distribuiti proporzionalmente tra i partiti che superano lo sbarramento del 5%. I 63 collegi plurinominali del Rosatellum servivano per eleggere 386 deputati, quindi funzionano anche per la nuova Camera formato "mignon". Stesso metodo per assegnare i 200 seggi del nuovo Senato: quattro vanno ai senatori eletti all'estero, uno alla Valle d'Aosta e i restanti 195 sono distribuiti ai partiti che nel resto d'Italia superano il 5%.

Il diritto di tribuna.
Anche il diritto di tribuna si ispira al modello tedesco anche se il sistema di assegnazione è diverso, dato che in Germania esistono collegi uninominali e il numero dei parlamentari è variabile e non fisso come in Italia.

Le preferenze.
Il testo depositato da Brescia non affronta il tema delle preferenze. Sul piano della tecnica legislativa è una "novellazione" del Rosatellum, cioè interviene chirurgicamente su quel testo che prevede i listini bloccati, che non vengono modificati nel ddl proposto da Brescia. L'accordo di maggioranza è che il tema listini/preferenze è demandato al successivo confronto.

https://www.tgcom24.mediaset.it/politica/legge-elettorale-depositato-ilddl-ecco-il-germanicum_13238925-202002a.shtml

Massimo Fini: “E allora chi sono i veri terroristi internazionali?” - Il Fatto Quotidiano



“I più pericolosi terroristi del mondo sono i gloriosi United States of America” scrivevo sul Fatto del 5 marzo del 2019 (Altro che Isis, i terroristi più pericolosi sono gli americani) ribadendo un concetto già espresso altre volte. L’assassinio, con un drone, di Soleimani, leader dei pasdaran, numero tre della gerarchia iraniana dopo Ali Khamenei e Rouhani, avvenuto in Iraq violando quindi anche la sovranità di quel Paese, ne è l’ennesima conferma. Un atto terrorista in piena regola. Il governo degli Stati Uniti lo motiva sostenendo che Soleimani stava preparando attentati contro siti di “interesse americano”. Un processo alle intenzioni in linea con la teoria Bush della “guerra preventiva” che abbiamo visto dove ci ha portato. Teoria a cui in questo caso mancavano anche le premesse perché nel recente aggravarsi della tensione fra Stati Uniti e Iran, non certo voluta dagli iraniani, i pasdaran non avevano messo in atto gravi provocazioni, il che è un dato di fatto, confermato tra l’altro, dal generale Mini che ha dichiarato al nostro giornale: “Sono anni che Teheran non mette a segno attentati o azioni eclatanti contro gli Usa”. Al contrario erano stati gli Stati Uniti a dare inizio alla bagarre con un raid contro una base di un gruppo filo-iraniano in Iraq, uccidendo 25 miliziani, fatto che è all’origine  dell’assalto, due giorni dopo, alla protettissima ambasciata americana a Baghdad. L’assassinio di Soleimani è un fatto inaudito nella storia recente, e forse anche meno recente, nel rapporto fra Stati perché, come ha scritto Pino Arlacchi sul Fatto, introduce “l’assassinio politico palese, e al massimo livello, come strumento accettabile delle relazioni internazionali, anche di quelle ostili”. Anche i senatori democratici Bernie Sanders ed Elizabeth Warren hanno definito il blitz Usa “un assassinio” e non credo lo abbiano fatto solo per propaganda elettorale. E la speaker della Camera Nancy Pelosi ha affermato che Trump non può dichiarare guerre a suo piacimento senza una preventiva autorizzazione del Congresso. E’ un Presidente, non un dittatore. E’ stato eletto democraticamente, ma il metodo democratico non garantisce nulla sulla qualità degli eletti, a qualsiasi livello. Scrive Tocqueville in La democrazia in America: “Quando voi entrate nell’aula dei rappresentanti a Washington, restate colpiti dall’aspetto volgare di questa grande assemblea”. Non voglio dire che tutte le leadership dei Paesi democratici occidentali corrispondano alla descrizione di Tocqueville. Angela Merkel e le premier dei Paesi scandinavi sono qui a smentirlo. Ma Donald Trump è di quello stampo, a cominciare dalla volgarità e da una qualsiasi coerenza nella sua politica. Il decidere, dopo aver tentennato, il raid di venerdì fra una buca e l’altra di un campo da golf dove stava giocando può essere emblematico. Forse lo ha deciso perché ha centrato una buca altrimenti avrebbe soprasseduto.

Il Segretario di Stato Mike Pompeo (per il quale bisognerebbe rispolverare Lombroso) ha avuto la sfrontatezza di rimproverare gli alleati europei per non aver plaudito al crimine.

Le conseguenze. 
- 1. Il Parlamento iracheno ha votato una risoluzione per l’espulsione di tutti i contingenti stranieri dall’Iraq. Questi contingenti erano stati chiamati in Iraq dal governo di Baghdad per sconfiggere l’Isis. Una richiesta d’aiuto molto pelosa che ricorda parecchio da vicino quelle fatte all’Unione Sovietica dopo la rivolta ungherese del 1956 e quella cecoslovacca del 1968 per aiutare i governi “amici”. 
- 2. Ricompattamento, se ce ne fosse stato bisogno, fra Iran e la popolazione sciita dell’Iraq che rappresenta i due terzi di quel Paese. 
- 3. Indebolimento in Iran della fazione più moderata e progressista, che fa capo a Rouhani, a favore dell’ala più radicale. Anche qui l’intero Iran si ricompatta perché a prevalere oggi c’è un solo sentimento che unisce tutto il Paese: l’odio antiamericano. 
- 4. Una delle poche cose buone fatte da Obama, insieme a Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania (il noto “5 più uno”) era l’accordo sul nucleare iraniano. Trump, pur di sminuire il suo predecessore, prima è uscito formalmente dall’accordo e adesso lo ha sostanzialmente distrutto con l’assassinio di Soleimani. Il governo iraniano ha affermato che non ha più nessun obbligo di rispettare quell’accordo e che imboccherà la strada della fabbricazione dell’Atomica, anche se, per il momento, probabilmente nel tentativo di non inimicarsi anche gli altri firmatari, continua ad accettare le ispezioni dell’AIEA. Il possesso di un’Atomica come deterrente diventa una necessità di fronte alle minacce di Trump (“non esiteremo a reagire anche in modo sproporzionato”) come dimostra anche l’atteggiamento molto più soft del governo americano nei confronti del dittatore nordcoreano Kim Jong-un, che un paio di bombette atomiche le possiede. Lo stesso motivo indurrà molti altri Paesi, anche quelli che hanno firmato il Trattato di non proliferazione, a comportarsi di conseguenza. E con un mondo pieno di Atomiche una guerra nucleare, fra vari Stati in conflitto fra di loro, non sembrerà più così remota.

Si è sottolineata da molti l’irrilevanza dell’Europa, per non dire dell’Italia, sui vari scenari di guerra. Ma l’Europa non può nulla perché non possiede una forza militare adeguata. Visto che un diritto internazionale non esiste più, che l’Onu non conta più nulla perché è da più di vent’anni, dalla guerra alla Serbia del 1999, che gli americani agiscono contro la sua volontà, anche la Germania democratica dovrebbe avere la possibilità di dotarsi di quest’Arma. Nell’attuale situazione non è pensabile che oltre a Stati Uniti, Russia e Cina, l’Atomica ce l’abbiano Pakistan, India, Sudafrica, Israele, Arabia Saudita e non il più importante, e centrale, Paese europeo. Bisognerebbe anche che i Paesi europei che fanno parte della Nato denunciassero questa alleanza preistorica e ne uscissero, perché la Nato altro non è che un organismo al servizio degli americani. “Vasto programma” avrebbe detto De Gaulle.  Ma un’Europa politicamente unita, armata e nucleare, con una politica estera comune e il ridimensionamento degli Stati nazionali, è assolutamente necessaria se non vuole soccombere, senza difesa, davanti ai grandi potentati, Stati Uniti, Russia, Cina, India, più la finanza internazionale.

Tutta la politica più recente degli Stati Uniti è anti europea. Per un diktat americano i Paesi europei, a cominciare dall’Italia che con Teheran ha buoni rapporti, non possono avere commerci con l’Iran. Gli Stati Uniti hanno anche decretato sanzioni contro le imprese, fra cui quelle italiane, che partecipano al gasdotto Nord Stream 2 che dovrebbe portare appunto il gas dalla Russia all’Europa e che è particolarmente importante per l’Italia che su questo fronte energetico è molto debole.

Gli Stati Uniti si comportano come se fossero ancora i padroni del mondo. Ma non lo sono più. Il Novecento è stato il “secolo americano”. Il dopo Duemila apparterà ad altri.

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Su Di Maio un inutile gioco al massacro. - Salvatore Cannavò - Il Fatto Quotidiano



Luigi Di Maio non ha il nostro preventivo sostegno e nemmeno un nostro acritico apprezzamento. Non lo conosciamo e non abbiamo mai discusso con lui. Dubitiamo anche che sia stato opportuno ricoprire l’incarico di ministro degli Esteri, sia per l’inesperienza passata, ma soprattutto per il fatto di ricoprire già quello di Capo politico del M5S.
Ma il susseguirsi di attacchi contro di lui, la derisione costante e la tiritera che vorrebbe l’Italia ormai fuori dalla grande politica internazionale per colpa del leader pentastellato è divenuta insopportabile. Come se, poi, l’Italia avesse mai giocato un ruolo di primo piano a livello internazionale. Stretta tra l’alleanza atlantica, fedele serva di Washington, si è solo ritagliata uno spazietto di manovra mediorientale dosando un po’ di filo-arabismo con l’alleanza indistruttibile con Israele: tutto qui. Fino all’avventura europeista imboccata senza ragionare.
Ora si rimprovera a Di Maio di tutto: di fare “inutili fatiche” in giro per il Mediterraneo (Mattia Feltri su La Stampa), di lasciare “tracce di confusione” sulla politica estera (Massimo Franco sul Corriere della Sera), di perseguire inutilmente “il dialogo” dove il dialogo non c’è (Daniele Raineri sul Foglio). Basterebbe il colpo a effetto di ieri a Palazzo Chigi per smentire l’incapacità dell’Italia di seguire una bussola. Portare a Roma Khalifa Haftar (al Serraj si è ritirato all’ultimo minuto), vale al governo un riconoscimento di competenza evidente.
Ma il punto va oltre questa contesa e oltre le rispettive esibizioni di forza da parte dei vari schieramenti. Il punto riguarda l’Europa tutta e la capacità di stare sullo scacchiere internazionale, soprattutto se, nel caso attuale dell’Italia, non si voglia perseguire una politica estera basata sui militari. Perché se è vero che la Turchia e la Russia possono vantare dei successi è solo perché hanno deciso di inviare truppe. Se è questo che si chiede al governo italiano lo si faccia apertamente senza chiamare in causa competenze o inesperienze pretestuose.
Se poi si avesse la pazienza di spulciare le agende degli altri ministri europei si scoprirebbe che la Libia non è certo in cima ai pensieri di tutti. Prendiamo la Francia. Il ministro degli Esteri, certamente di grande esperienza e competenza, Jean-Yves Le Drian, si è occupato di Libia solo negli ultimi due giorni, come Di Maio. A dicembre la sua agenda lo vede a colloquio con il ministero georgiano, poi nella conferenza sulle Comore, a colloquio con il ministro giapponese, in viaggio verso Praga, impegnato sull’Ucraina, poi nel meeting con il nuovo responsabile Esteri della Ue, Josep Borrell, per passare a questioni di governo francese, della Nato, dell’Organizzazione mondiale della Sanità, occuparsi del Laos fino all’ultimo viaggio del 2019: in Messico, certo non in Libia.
Guardiamo invece gli impegni di Josep Borrell: viaggio a Bratislava per il vertice Osce, una serie di incontri con i vari ministri degli Esteri (Grecia, Francia, ) poi il ministro del Kirghizistan, il Segretario generale della Nato, il ministro del Tagikistan, del Giappone, della Corea del Sud, della Thailandia, del Vietnam, della Cambogia e della Cina in vista del vertice Europa-Asia di dicembre, dove sono in ballo rilevanti questioni commerciali. Solo il 7 e 8 gennaio Borrell si è occupato di Libia, insieme a Di Maio. Il quale si sta sobbarcando un tour del Mediterraneo, non sappiamo quanto fruttuoso, ma comunque all’insegna del ruolo di ministro che gli è proprio.
La situazione è stata ben inquadrata, invece, dal quotidiano francese Le Monde che a proposito della Libia, qualche giorno fa, parlava di “disastro geopolitico” in corso. “L’Europa ha le sue divisioni – scriveva l’autorevole giornale – in particolare tra Francia e Italia privandosi così di qualsiasi azione efficace”. E a proposito di Macron, nei confronti del quale il quotidiano non nutre certo un’avversione, si notava che “se il volontarismo di Emmanuel Macron era a un certo punto benvenuto, si è poi accompagnato a un gioco poco limpido, se non opaco, della Francia a vantaggio di Haftar che ha imballato la mediazione diplomatica”. In questo gioco, va aggiunto, la Francia è stata surclassata dalla Russia e, come scriviamo nelle pagine internazionali, ci sarebbe proprio la Francia dietro la mancata venuta di al Serraj.
La politica estera è una questione complessa, fatta di rapporti di forza che si costruiscono nel tempo. L’Italia raccoglie oggi il peso costruito negli ultimi venti anni, fatti di emarginazione, crisi e cecità soprattutto nei confronti del Mediterraneo. Che ieri Roma sia stata sotto i riflettori dovrebbe far riflettere chi commenta e analizza giusto per il piacere di farlo.