Le dimissioni dell’assessore Giulio Gallera aleggiano da giorni sul Pirellone. Sono il sale e il fiele del dibattito politico in Regione Lombardia. Tutti ne parlano, nessuno vuole e può farle scattare. Alla Lega non dispiacerebbero, ma sarebbero il segnale contrario del “rifaremmo tutto, non abbiamo sbagliato niente” che tutti ripetono, ai piani alti di Palazzo Lombardia.
Così la zarina della Regione, Giulia Martinelli, capo segreteria del presidente Attilio Fontana (nonché ex moglie di Matteo Salvini), da sempre in conflitto con Gallera, ha trovato la soluzione: ci teniamo l’assessore, via il direttore generale. Per ora: poi si vedrà. Così è saltato Luigi Cajazzo, il capo dei tecnici della sanità lombarda, che fino a ieri declamava: “Noi abbiamo svolto un lavoro tecnico che difendo e di cui sono assolutamente orgoglioso”.
Saltato. Saltato verso l’alto, però, promosso a un posto formalmente più prestigioso (e meglio pagato): vicesegretario generale della Regione, e per di più “con delega all’integrazione sociosanitaria”, cioè con l’incarico di preparare la riforma del sistema sanità che ha fatto della regione più ricca d’Europa anche quella con più morti e contagiati dal virus. Sì, saltato verso l’alto: anche perché farlo saltare verso il basso non sarebbe stata una buona idea per i vertici politici regionali, visto che Cajazzo dovrà passare le prossime settimane a girare le Procure della Lombardia, per rispondere alle tante domande dei pm sulla gestione dell’emergenza Covid. Per Fontana e Gallera è meglio avere un Cajazzo promosso, piuttosto che rimosso. Ed è meglio averlo non troppo arrabbiato con i politici che hanno scaricato su di lui, tecnico, i cortocircuiti del coronavirus. È stato il fusibile che è saltato.
Sostituito con un altro tecnico che è un grande ritorno al passato. Cajazzo era un poliziotto, non un manager sanitario. Più bravo a inviare email paracadute in vista di future contestazioni, che non a dirigere concretamente la sanità. Che in parte è stata gestita dai politici, Fontana, Gallera e anche Davide Caparini, il leghista assessore al Bilancio che tiene i cordoni della borsa e fa fronte d’acciaio con la zarina Martinelli. In parte è andata per conto suo, gestita dal vento feroce che soffiava a febbraio su Alzano Lombardo, su Nembro, sulle residenze per anziani, sull’ospedale in Fiera da costruire, sui test sierologici da cercare, sulle mascherine da distribuire, sui camici da reperire.
Il nuovo direttore generale invece è un vecchio volpone della sanità. Marco Trivelli ha fatto il manager all’ospedale Niguarda di Milano, al Sacco, agli Spedali civili di Brescia. Cinquantasei anni, bocconiano, viene dal mondo di Comunione e liberazione, era tra gli uomini-sanità di Roberto Formigoni, ai tempi del suo celeste impero. Se oggi arriva a Palazzo Lombardia con la missione di far dimenticare la gestione dell’emergenza più disastrosa d’Europa è segno che, da una parte, la sua competenza manageriale è sopravvissuta al naufragio del Celeste; dall’altra, che né la Lega di Martinelli-Caparini, né la Forza Italia “laica” di Gallera e soci hanno uomini da mettere nei posti più delicati. C’è già profumo di Cl ai vertici di aziende regionali importanti come Aler e Trenord, ora anche in quello della sanità. Le opposizioni intanto scalpitano. Il Pd, con Pietro Bussolati, apprezza che almeno una testa sia saltata, seppur come “capro espiatorio tecnico di responsabilità che sono politiche”. I Cinquestelle sottolineano il ritorno al passato: “Si scrive Trivelli si legge Formigoni”, dice Gregorio Mammì, consigliere regionale M5s. “La sanità lombarda va riformata cancellando la riforma di Roberto Maroni, togliendo le mani dei partiti dalle nomine, garantendo più risorse alla sanità pubblica e al sistema territoriale”.
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