Lo scenario emerso dall’inchiesta di Potenza è persino peggiore di quello rivelato dall’indagine perugina su Luca Palamara. E ancora una volta è necessario far luce sul rapporto distorto tra politica e magistratura. La notte tra l’8 e il 9 maggio 2019 Palamara viene sorpreso a discutere del futuro della procura di Roma con Luca Lotti e Cosimo Ferri. Entrambi erano all’epoca parlamentari del Pd (il primo imputato di favoreggiamento e rivelazione del segreto, proprio a Roma, nel processo Consip) e non avevano titolo (peraltro neanche Palamara era più al Csm) per discutere della nomina di Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, alla guida di piazzale Clodio. Le indagini hanno dimostrato che Viola nulla sapeva delle strategie di Palamara, Lotti e Ferri, e ne fu addirittura danneggiato. L’inchiesta condotta dal procuratore di Potenza Francesco Curcio sulla nomina a Taranto di Carlo Maria Capristo dimostra cosa può accadere – secondo l’accusa: corruzione e favori nella conduzione stessa delle indagini, condotte in nome di Piero Amara, invece che del popolo italiano – quando un procuratore deve la sua nomina a qualcuno (e non al rispetto delle norme). Anche nel caso di Capristo c’è un politico che si interessa alla sua nomina. Si chiama Francesco Boccia (Pd, ex ministro degli Affari Regionali fino al febbraio scorso). Lo ha fatto – spiega Boccia interrogato – su invito del funzionario del Viminale Filippo Paradiso oppure (non ricorda bene) dello stesso Capristo. Ma non fece pressioni, puntualizza. E ci mancherebbe. S’informò soltanto, attraverso la consigliera del Csm Paola Balducci, che gli rispose: Capristo è tra i papabili. Il gip negli atti spiega l’ovvio: lo stesso interessamento dimostra che Boccia era vicino a Capristo e che, quindi, “ne appoggiasse la nomina”. Aggiungiamo che Boccia non aveva alcun titolo né interesse a informarsi sulla nomina di Capristo. A maggior ragione, possiamo dirlo oggi, a giudicare dal risultato.
ILFQ
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