Ormai è un dato di fatto. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sostiene di non avere “in alcun modo ricevuto dal dottor D’Ambrosio qualsiasi ragguaglio o specificazione circa le ‘ipotesi’, solo ‘ipotesi’ da lui enucleate” escludendo di aver ricevuto indicazioni riguardanti il “vivo timore a cui questi ha fatto il generico riferimento nella drammatica lettera del 18 giugno”. “Né io – prosegue Napolitano nella lettera inviata ad Alfredo Montalto, presidente della Corte di Assise davanti a cui si celebra il processo sulla Trattativa – avevo modo e motivo, neppure riservatamente, di interrogarlo su quel passaggio della sua lettera. Né mai, data la natura dell’ufficio ricoperto dal dottor D’Ambrosio durante il mio mandato, come anche durante il mandato del presidente Ciampi, ebbi occasione di intrattenermi con lui su vicende del passato, relative ad anni nei quali non lo conoscevo ed esercitavo funzioni pubbliche del tutto estranee a qualsiasi responsabilità di elaborazione e gestione di normative antimafia”.
Bastano queste poche righe per sprofondare nel più totale disgusto. In quale altro Paese “civile” un presidente della Repubblica si arrogherebbe il diritto di rimettere in discussione la decisione della Corte di ascoltarlo in un processo che potrebbe riscrivere – come minimo – il corso della storia degli ultimi 30 anni? Le motivazioni addotte dal Capo dello Stato hanno un quid di surreale.
Davvero Napolitano ritiene possibile far credere di non essere mai stato depositario di alcun “ragguaglio” su quello che è stato molto di più di un semplice sfogo? Come è possibile credere alla versione di chi nega di aver mai approfondito i temi più inquietanti citati dal suo ex consigliere giuridico?
“Lei sa di ciò che ho scritto anche di recente su richiesta di Maria Falcone – scriveva Loris D’Ambrosio a Giorgio Napolitano il 18 giugno 2012 –. E sa che in quelle poche pagine non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi - solo ipotesi di cui ho detto anche ad altri - quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi. Non le nascondo di aver letto e riletto le audizioni all’Antimafia di protagonisti e comprimari di quel periodo e di aver desiderato di tornare anche a fare indagini, come mi accadde oltre 30 anni fa dopo la morte di Mario Amato ucciso dai terroristi...”.
Purtroppo, nel citato libro di Maria Falcone (Giovanni Falcone un eroe solo, ed. Rizzoli, 2012), di quegli oscuri “episodi del periodo 1989-1993” che l’hanno “preoccupato” e “fatto riflettere”, non c’è traccia, solo alcuni limitati riferimenti alla solitudine di Falcone dopo il fallito attentato all’Addaura e alle polemiche seguite alla sua prima idea di Superprocura.
Sono forse sopraggiunti dei tagli alla bozza definitiva del manoscritto?
D’Ambrosio millantava, o che altro?
Certo è che la lettera di Napolitano ad Alfredo Montalto è un insulto all’intelligenza.
E soprattutto alla giustizia.
In un Paese “normale” il Capo dello Stato sarebbe il primo a voler contribuire al raggiungimento della verità.
In Italia, invece, il presidente della Repubblica solleva conflitti di interesse nei confronti delle Procure che istruiscono delicatissimi processi, evita di manifestare sostegno e solidarietà verso quegli stessi magistrati minacciati di morte e soprattutto oppone un silenzio tombale quando viene chiamato a testimoniare.
Nella speranza che il prossimo presidente non ci faccia rimpiangere quello attuale non resta che aggrapparsi alle parole di Sandro Pertini che mai come oggi vorremmo risentire al Quirinale. “Non accetterò mai di diventare il complice di coloro che stanno affossando la democrazia e la giustizia in una valanga di corruzione – aveva detto in una vecchia intervista rilasciata a Nantas Salvalaggio –. Non c’è ragione al mondo che giustifichi la copertura di un disonesto, anche se deputato. Lo scandalo più intollerabile sarebbe quello di soffocare lo scandalo”. “Io spero che i documenti dei famosi ‘pretori d’assalto’ siano vagliati con rigore. Spero che tutto sarà discusso in aula, e nessuna copertura sarà frettolosamente inventata dai padrini dell’assegno sottobanco… Mi fanno pena i magistrati e i politici che cercano di tagliare le gambe ai pretori dell’inchiesta sullo scandalo del petrolio. Dicono che sono troppo giovani: ma da quando la giovinezza è un reato? Se mai è un sintomo esaltante e meraviglioso: significa che il Paese ha una riserva di coraggio e di onestà nelle nuove generazioni”. Su quella “riserva di coraggio e di onestà” pesa oggi la grande responsabilità di continuare – nonostante tutto – a lottare e ad andare avanti. Cercando comunque la verità. Al di là che ci sia o meno un presidente reticente.