domenica 26 giugno 2011

P4: indagato Adinolfi, l’inchiesta sulla fuga di notizie punta sulla Guardia di Finanza. - di Marco Lillo


Sabato 25 giugno ore 21,26:
Il capo di stato maggiore della Guardia di Finanza, generale Michele Adinolfi, è indagato dalla procura di Napoli nell’inchiesta P4. I reati ipotizzati nei confronti dell’alto ufficiale sono rivelazione di segreto e favoreggiamento personale. Il generale Adinolfi, secondo gli inquirenti, avrebbe fatto arrivare – tramite un’altra persona – notizie riservate sull’inchiesta a Luigi Bisignani, principale indagato per la P4: notizie che gli sarebbero arrivate da un altro generale della Gdf, il comandante interregionale dell’Italia meridionale Vito Bardi, in servizio a Napoli, anche lui indagato e che ha chiesto che si proceda per calunnia nei confronti di Bisignani e di eventuali altre persone che lo accusano. Il nome del generale Adinolfi sarebbe emerso nel corso di un interrogatorio al deputato del Pdl Marco Milanese da parte dei magistrati Francesco Curcio e Henry John Woodcock, titolari dell’inchiesta. Il generale è stato già interrogato dai pm e, secondo quanto si apprende, avrebbe negato ogni addebito. Successivamente tra i due vi sarebbe stato anche un confronto
(Ansa)

La Procura di Napoli pensa di avere capito chi ha bruciato sul nascere l’inchiesta sulla P4: i vertici della Guardia di Finanza.

Il generale Vito Bardi, comandante delle Fiamme Gialle in tutta l’Italia meridionale, ex comandante regionale della Campania, è indagato per favoreggiamento e rivelazione del segreto, perché tirato in ballo da Luigi Bisignani nelle sue dichiarazioni (da indagato che quindi può mentire) ai pm. Le indagini della Procura di Napoli però non si sono fermate a questo importante generale di corpo d’armata ma sono arrivate a Roma nel cuore del Comando Generale dove i magistrati pensano lavori una seconda talpa, probabilmente di livello molto alto, che avrebbe spifferato al presunto capo della P4 i contenuti dell’indagine.

Non è un mistero che Henry John Woodcock e Francesco Curcio siano molto irritati per quello che è successo. Nessuno sospetta minimamente dei finanzieri del comando provinciale di Napoli che hanno lavorato senza sosta fino agli arresti. Nell’ipotesi investigativa sarebbe stato invece un comandante, magari a Roma, dopo aver ricevuto la notizia dell’inchiesta su Bisignani per via gerarchica a spifferare l’esistenza delle intercettazioni all’indagato.

Nei mesi di settembre e ottobre Bisignani e compagni si lasciavano andare, sicuri di usare schede telefoniche insospettabili. I magistrati però le avevano individuate e inoltre, grazie a una tecnica informatica innovativa, erano riusciti a piazzare una sorta di cimice virtuale nell’ufficio del lobbista. Una mail contenente un messaggio civetta, una volta aperta dai collaboratori di Bisignani, aveva trasformato il suo computer in un registratore sempre acceso. In tal modo i finanzieri del Comando di Napoli potevano ascoltare in tempo reale le trame della P4. All’improvviso però qualcuno ha spifferato l’esistenza dell’inchiesta a Luigi Bisignani. Al telefono gli indagati hanno smesso di parlare liberamente e qualcuno di loro ha cominciato a depistare.

Proprio ascoltando una conversazione con il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo nell’ufficio di Bisignani i pm hanno avuto la prova della fuga di notizie. Bisignani confidava all’amica Stefania, atterrita per il rischio di immagine, di sapere che Woodcock stava indagando. E aggiungeva che ne aveva parlato con Letta.

Da quel momento Woodcock e Curcio hanno cercato in tutti i modi di rispondere a una domanda: chi è stato a bruciare l’indagine? Bisignani ha puntato il dito su Italo Bocchino: “Mi parlò espressamente di una indagine di Napoli ma non fece mai il nome dei magistrati; io rappresentai immediatamente tale circostanza al Papa e il Papa successivamente fece ulteriori accertamenti verificando la fondatezza di tale notizia”. Ed è stato sempre lui a indirizzare i pm sulle tracce della Gdf: “Ricordo che il Papa … è molto amico del Generale Adinolfì”. Bisignani, dopo aver nominato il numero due della Guardia di Finanza, però punta il dito su un altro generale di corpo d’armata, “Ricordo bene che quando io dissi al Papa della notizia che avevo appreso il Papa mi disse che avrebbe chiesto informazioni a Napoli e mi disse che avrebbe parlato con un certo Generale Bardi della Guardia di Finanza; dopo qualche giorno tornò da me e mi disse che effettivamente dalle notizie che aveva appreso a Napoli aveva appurato a Napoli che la notizia dell’indagine era vera e che effettivamente c’era questa inchiesta”.
Insomma Bisignani insiste su Napoli. E i pm per questa ragione iscrivono Bardi.

Però c’è qualche cosa che non convince in questa versione. Alfonso Papa, raccontano alla Finanza di Napoli, non era poi così amico di Papa. L’allora direttore generale del ministero della giustizia circolava per Napoli con una macchina di servizio e due uomini della Finanza. L’assegnazione di questo insolito benefit era stata decisa dal Comando Generale a Roma e fu proprio Bardi, (che ha denunciato Bisignani per calunnia aggravata) a privare Papa dei due finanzieri napoletani che costavano moltissimo alle casse dello Stato perché figuravano sempre in missione a Roma. I pm, pur avendo iscritto il generale Bardi, ritengono che la talpa vada individuata a Roma.
E studiano con attenzione il verbale della testimonianza dell’imprenditore Luigi Matacena. Nonostante il suo nome fosse iscritto nella lista Falciani, quella dei correntisti sospettati di evasione fiscale, Matacena era in ottimi rapporti con i comandanti delle Fiamme gialle. “Effettivamente ho pagato, nell’autunno di quest’anno (in occasione della partita di calcio di andata Napoli – Milan) , un pranzo al Ristorante Mattozzi a cui hanno partecipato il Generale Bardi, il Generale Adinolfi con la moglie, il Generale Grassi, il Generale Zafarana, l’ex ufficiale della Guardia di Finanza Stefano Grassi (oggi alle Poste), il dott. Galliani, amministratore delegato del Milan, con una accompagnatrice e un suo amico (…) in quell’occasione io ho anche regalato a tutti i signori menzionati (ufficiali della Guardia di Finanza e non) dei gemelli comprati da Marinella e per le signore un Fular sempre di Marinella. Pagai io il conto che venne a costare meno di mille euro”. Poi Matacena ha aggiunto: “Conosco, oltre al Generale Bardi, anche il Generale Adinolfi con i quale mi do del tu”.



sabato 25 giugno 2011

P4, il metodo Papa: adescare, ricattare e incassare. - di Claudia Fusani


alfonso papa box


Tra le sedicimila pagine degli atti depositati nell’inchiesta P4 c’è sicuramente una parte che, al momento e a chi non lavora all’indagine, può sembrare sfuggire a logiche di urgenza investigativa. C’è sicuramente molto retroscena politico, il racconto dall’interno di un governo ombra, non ufficiale, esclusivo e vedremo poi se legittimo. Ma c’è una parte che già ora racconta la gravità di certi comportamenti, prima di tutti quelli dell’onorevole Alfonso Papa per cui la Camera dovrà entro il 15 luglio decidere se autorizzare l’arresto oppure no per favoreggiamento e concussione.

Il “metodo Papa”, dunque. Riassumibile in cinque punti: consuetudine con forze dell’ordine e magistrati in modo da presentarsi come il custode dei segreti delle procure; avvicinare imprenditori che possono avere guai con la giustizia; farsi consegnare debolezze e timori; usarli per condizionare – o millantare di farlo – le stesse indagini e subito dopo passare all’incasso di regali e utilità varie in quanto garante della loro incolumità giudiziaria. Il protettore giudiziario con richiesta di pizzo annessa: ecco cosa ha fatto in questi anni romani il pm in congedo Alfonso Papa, dal 2001 al 2008 vice capo di gabinetto al ministero della Giustizia e poi deputato, pupillo del procuratore Cordova, di Marcello Pera e Cesare Previti.

Illuminanti, in questo senso, sono verbali ed intercettazioni di una serie di imprenditori campani capitati, a loro volta in cerca di informazioni, scorciatoie e vantaggi, nell’orbita di Papa. Luigi Matacena, ad esempio, imprenditore campano che figura nella lista Falciani (i grandi evasori elvetici) e che grazie allo scudo Tremonti nel dicembre 2009 ha riportato in Italia due milioni e mezzo. Insomma, un imprenditore che aveva bisogno di avere buoni agganci nella Guardia di finanza. E che, dicono le indagini, gli vengono garantiti da Papa. Racconta Matacena il 16 marzo scorso: «Ho conosciuto Papa un anno e mezzo fa, me l’ha presentato l’amico Gallo (un altro imprenditore che accetta le richieste di Papa, ndr) e da subito si è fatto sotto dicendomi che era a disposizione per il mio lavoro e per aiutarmi per avere entrature, e quindi appalti, con la Protezione Civile e l’Eni.

Papa mi ha detto più di una volta di avere entrature nella G. di F. e nei carabinieri e di essere a disposizione per risolvere ogni tipo di problema. Mi ha detto anche che a Napoli in ambito giudiziario comandava lui». Papa si offre anche come procacciatore di affari. «Quando mi parlò di Bertolaso promettendo commesse dalla Protezione Civile, aggiunse anche che Bertolaso non poteva dirgli di no perché si stava interessando dei problemi giudiziari». In quanto a utilità, Papa non ha ritegno. Sempre Matacena: «Gli ho pagato due notti all’hotel De Russie (tra i più esclusivi di Roma, ndr), duemila euro ciascuna. La camera era intestata a un’attrice dell’est, nome Ludmilla (una delle amanti di Papa, assunta come segretaria all’Eni grazie ai benefici di Bisignani ndr)».

E ancora: «In occasione della partita Napoli-Milan persa dal Napoli 2-1 – continua Matacena - ho pagato un pranzo al ristorante Mattozzi in via Filangieri a Napoli. Tra gli ospiti: il generale Bardi, il generale Adinolfi con moglie, l’ex ufficiale della GdiF Stefano Grassi oggi alle Poste, il generale Zafarana. Ai signori ho regalato gemelli di Marinella e alle signore foulard sempre di Marinella». Ci sono poi le cene offerte a Ischia («due, a distanza di un anno e sempre ai giardini Eden di Ischia in occasione del premio di giornalismo»). Matacena non indica i favori che avrebbe ricevuto da Papa. Non si capisce allora perché gli abbia pagato alberghi, pranzi, cene e «l’auto con autista a Roma». «Il fatto è che Papa mi è sempre sembrato una persona in grado di far del male e un piccolo imprenditore come me aveva solo da rimetterci».

Ad Alessandro Petrillo, amministratore unico della Protecno Impianti tocca pagare autista e segretaria. Anche Petrillo ovviamente ha i suoi piccoli guai giudiziari - l’esca è uguale per tutti - e anche per lui vale la promessa di contatti e nuovi lavori. «Ho conosciuto Papa il 14 settembre 2009 presso i suoi uffici a Santa Lucia a Napoli (anche questi pagati da un altro imprenditore ndr) . Una prima volta, tra ottobre e novembre 2009, ho dato 3000 euro a Willy, l’autista, le mensilità di 1.500 ciascuna che Papa avrebbe dovuto pagare all’autista e alla segretaria. A dicembre Willy mi disse che non lavorava più lì e io ritenni di non dover dare più nulla. Ma mi chiamò subito tale Valentina, segretaria del Papa, che mi disse non solo di passare ma di lasciare nella busta tremila euro perché quella era la somma da me dovuta».

Si potrebbe parlare di Casale, immobiliarista coinvolto in qualche inchiesta che paga a Papa gli affitti di tre appartamenti in pieno centro a Roma, uno per il deputato e gli altri due per due amanti, Ludmilla e Giovanna. Casale è stato arrestato una settimana fa a Milano per evasione fiscale. Ma è curiosa quest’altra forma di utilità: l’Università telematica Pegaso di Napoli ha offerto a Papa un contratto annuale per la cattedra di diritto penale.



Bisignani e le inchieste: «Così davo informazioni». - di Lorenza Sarzanini.

Luigi Bisignani

Il consulente ai pm: «Masi alla Rai un disastro».
«Anche Moretti veniva da me per diventare ad delle Ferrovie. Se potessi ora lo denuncerei».

ROMA - Minimizzare, questa è stata la sua linea. Cinque giorni fa, in poco più di un'ora di interrogatorio, Luigi Bisignani ha cercato di sminuire il proprio ruolo nelle relazioni con i politici e con i manager di Stato. Ma nella trascrizione del verbale si individuano numerosi segnali lanciati a chi con lui ha avuto relazioni in tutti questi anni. Accompagnato dai suoi avvocati Fabio Lattanzi e Gianpiero Pirolo, non si è sottratto ad alcuna domanda e ha tenuto a fare una precisazione: «Io sono una persona per bene, do soltanto consigli».

Le liste di Verdini
Si comincia dai rapporti con Alfonso Papa, parlamentare del Pdl che il giudice chiede alla Camera di arrestare perché accusa entrambi di aver ricattato alcuni imprenditori. E Bisignani risponde: «Per me era fonte di notizie... Papa non era conosciuto solo da me, ma anche dai ministri con i quali aveva lavorato. Aveva questa ambizione di fare, di entrare in Parlamento e mi chiese se appunto io potevo dire a Verdini, coordinatore nazionale che è uno di quelli che compilava le liste... L'ultima parola è di Berlusconi. La prima parola è del Pdl della Campania, per cui il processo non è così semplice e perciò io parlai con Verdini... Lui mi disse quello che dicevano tutti in quel momento, che insomma avvocati e magistrati, soprattutto quando si parla tanto dei temi legati alla magistratura, ben vengano. Poi calcoli che Verdini era anche in buoni rapporti con Pera, che era uno di quelli che conosceva Papa. Pera, pare che sia stato Pera, cioè voglio dire non è che arriva Bisignani e dice mettete Papa nelle liste». E allora perché le chiedevano di parlare con Verdini? «Perché certamente ero in buoni rapporti con Verdini da molti anni... A Letta parlai io di Papa che peraltro lui conosceva... E Berlusconi aveva ricevuto anche altre segnalazioni».

Il giudice chiede di sapere se Bisignani conoscesse le «fonti» di Papa. «A Roma era in rapporti, perché questo lo sapevo, con il dottor Toro (ex procuratore aggiunto che si è dimesso dopo il coinvolgimento nell'inchiesta "Grandi Eventi", ndr), con altri magistrati. Lo sapevo da Papa». Il giudice insiste: qualcun altro le ha detto che effettivamente Papa e Toro sono molto legati? «Me l'ha detto il dottor Zanichelli e mi disse che gli avevano chiesto una consulenza per il figlio di Toro, che il Papa glielo ha chiesto... Zanichelli era un alto dirigente dell'Alitalia, adesso credo che sia presidente di Trenitalia». Poi Bisignani fa altri nomi, parla «del generale Bardi» e aggiunge: «Poi c'era Marra (gli inquirenti ritengono si tratti di Pippo Marra, presidente dell'agenzia giornalistica Adnkronos, ndr) che per una vicenda completamente diversa mi chiamò un giorno e mi disse: non parlare al telefono, non parlare al telefono. Stop. Dopodiché io ne parlai con l'onorevole Milanese (Marco Milanese deputato Pdl, ex ufficiale della Guardia di Finanza poi nella segreteria del ministro Giulio Tremonti, ndr) che dopo un po' mi disse che io avevo il telefono per via dell'inchiesta...».

Moretti e i tedeschi
L'inchiesta dei pubblici ministeri Henry John Woodcock e Francesco Curcio nasce dalla testimonianza di un imprenditore specializzato nei sistemi frenanti - socio dello stesso Bisignani - che ha raccontato di aver deciso di denunciare l'amministratore delegato di Trenitalia Mauro Moretti perché non lo faceva lavorare e di essere stato bloccato da Papa che in questo modo voleva acquisire crediti con il manager. Moretti è indagato per favoreggiamento. «Moretti mi scarica perché sa bene che io gli avevo chiesto tante volte di far lavorare questa società e avevo capito benissimo che dietro quella società, che lui non voleva far lavorare, c'erano gli interessi delle altre società tedesche, la Brint e tutte le altre... Papa mi disse di bloccare la denuncia... Moretti ha assunto un atteggiamento di grande distacco, ma io ho detto che Moretti veniva da me per essere aiutato a diventare amministratore delegato delle Ferrovie». Dunque, domanda il giudice, lei si è fatto un'idea precisa del motivo, se Moretti avesse dei collegamenti con queste società tedesche? «Scusi, perché non si fa lavorare una società italiana che ha cinquanta, sessanta persone, uno stabilimento novello che dovunque è andato ha sempre fatto bene, dopo che ci sono stati i casini... Sono freni fenomenali... Io ho il 35 per cento di quella società, sono socio di minoranza non ci ho mai guadagnato niente, ci ho perso pure un sacco di... se potessi io adesso la farei di corsa quella denuncia».

Lavitola, Cicchitto e gli 007
C'è un ordine di arresto anche per il maresciallo Enrico La Monica, accusato di aver passato notizie sull'inchiesta a Papa in cambio, tra l'altro, di un posto nei servizi segreti. Bisignani ammette: «Io credo di averne parlato con qualcuno. Non mi ricordo chi... certamente non al generale Santini». Il giudice lo invita a fare «mente locale». E lui snocciola alcuni nomi: «Guardi, se posso aver parlato con qualcuno, posso aver parlato con La Motta, con Piccirillo certamente no». Il riferimento è al vicedirettore e al direttore dell'Aise Giorgio Piccirillo. E con Letta? «No, mai...». Per caso ne ebbe a parlare anche con Lavitola? «Assolutamente no...». Walter Lavitola è il direttore del quotidiano l'Avanti coinvolto nella storia dei dossier sulla casa di Montecarlo del cognato di Gianfranco Fini. Bisignani afferma: «Era un vecchio militante socialista in grandissimi rapporti con tutti gli ex socialisti oggi pdl, con Cicchitto sicuramente... Credo che abbia rapporti con il presidente Berlusconi e credo che abbia imputato a me, non so perché, che avessi osteggiato la sua candidatura alle elezioni europee... è uscito fuori con la storia di Ruby, la casa di Montecarlo, io ero contrarissimo a quel tipo di campagna di stampa che faceva...»

La "macchina del fango"
Aggiunge Bisignani: «Un altro punto che io ritengo di dover chiarire è che sicuramente parlavo e informavo il dottor Letta delle informazioni comunicatemi e partecipate e in particolare di tutte le vicende che potevano riguardare direttamente o indirettamente, come la vicenda riguardante Verdini, la vicenda che riguardava me stesso... ma ho rapporti con lui da sempre, lo conosco da quarant'anni, è il mio testimone di nozze. Quando parlavamo con Letta, logicamente si parlava di cose, di inchieste, di quello che c'era sui giornali... A Roma si parla solo ed esclusivamente delle inchieste...». Spiega che «il rapporto era stretto anche con Italo Bocchino perché il mio interesse era che tutta questa gazzarra che c'era tra Fini e Berlusconi in qualche modo rientrasse... Io ritenevo che tutta questa confusione in seno alla maggioranza portava solo guai, perché con la mia esperienza politica mi ha detto che tra alleati in quel modo là non si discute, soprattutto su temi così come poteva essere la casa di Montecarlo. La magistratura avrebbe fatto il suo corso, ma la politica non doveva strumentalizzare queste cose... In realtà io ero assolutamente contrario alla "macchina del fango". Certo che avevo rapporto con D'Agostino e Dagospia che era nato come sito di gossip e poi il presidente Cossiga cercò di farlo diventare una fonte... e io cercavo di dire che per essere credibile doveva diventare sempre più serio... Io cercavo di dare delle notizie che fossero di spessore politico».

Masi alla Rai? «Un disastro»
Le conversazioni con il direttore generale della Rai sono continue, Bisignani ha scritto la lettera di licenziamento per Michele Santoro. E a verbale afferma: «Masi lo conosco da 35 anni. La mia idea su Santoro, l'ho spiegata, era totalmente un'altra e gli dicevo: guarda da dirigente d'azienda tu non ti puoi far mandare a quel paese da un tuo dipendente. Tu devi fare soltanto una cosa, visto che stai già in un sacco di guai nella Rai perché sei così... devi licenziarlo, portare la lettera di licenziamento al consiglio di amministrazione, quello che te l'avrebbe rigettata, tu ti dimetti ma fai vedere che sei un manager che non si fa mandare... ed esci alla stragrande da questa cosa. Pur essendo così amico di Masi, quando doveva essere nominato direttore generale della Rai, che per me ex giornalista è una grande cosa, io non ebbi difficoltà a dirgli: fai un errore clamoroso. L'unica volta che ho visto Berlusconi gli ho detto: guardi presidente, fa un errore a mettere Masi. Masi è una persona competente nelle istituzioni, non alla Rai perché alla Rai farà male. La mia esperienza mi portava a dire che lì Masi avrebbe fatto un disastro». E poi rivolgendosi al giudice: «L'ha nominato lo stesso e questo smentisce ciò che lei dice di me perché la mia influenza era nulla. A Masi dicevo: te ne vai e tutti ti diranno che ci hai provato. Sono vent'anni che cercano di mandare via Santoro, ma non perché ce l'avessi con Santoro, tra l'altro Santoro è il più grande regalo che Berlusconi ha perché ogni volta che fa le sue trasmissioni non sposta niente, anzi. È un errore clamoroso mandarlo via».

http://www.corriere.it/cronache/11_giugno_25/sarzanini_p4-sistema-parallelo-indagati_e48ccc02-9ef3-11e0-8488-e5128670a364.shtml


P4, Il Velino ottenne 400mila euro di finanziamenti direttamente da palazzo Chigi.



Come la P2 anche la P4 aveva le sue mire sul sistema dell’informazione. Licio Gelli e compagni erano riusciti a mettere le mani sul Corriere della Sera, i (presunti) piquattristi si sono accontentati di puntare su Il Velino. L’agenzia di stampa quotidiana diretta da Luca Simoni è protagonista di un capitolo dell’informativa della Finanza di Napoli che è confluita negli atti del procedimento controBisignani, ma che fa parte di un’indagine della Procura di Napoli nella quale l’ex giornalista iscritto alla P2 è stato intercettato. Nell’ambito di questa seconda indagine del pm Catello Maresca, la Finanza ha focalizzato tutti gli affari per i quali Bisignani si è speso con le sue potenti relazioni. Tra questi un posto di spicco spetta al Velino.

Sotto la regia di Luigi Bisignani Il Velino cambia azionariato e linea politica. Fuori il portavoce del PdlDaniele Capezzone, che ne era socio, entra Leonardo Ceoldo, amico di massoni di primo piano eLuca Simoni, che è il direttore responsabile. L’agenzia – nei progetti di Bisignani – deve diventare una sorta di braccio armato nell’informazione al servizio dei ministri più vicini al lobbista, come Gelmini, Romano e soprattutto Frattini. Una volta preso il potere e piazzati i propri uomini sulla tolda di comando, ecco che arrivano i soldi, ovviamente pubblici.

Simoni e Bisignani premono sul capo del dipartimento editoria della Presidenza del Consiglio, Elisa Grande, attivando tutti i parlamentari amici. Il Velino vuole un aumento di 400 mila euro del contratto di fornitura di servizi con Palazzo Chigi. La lobby funziona e i soldi arrivano. Scrive la Finanza: “Nei confronti della Impronte Srl, società editrice del periodico Il Velino Bisignani mostra un interesse particolare acché la stessa ottenga il rinnovo di una “convenzione”, e il relativo aumento dell’importo, su un contratto editoriale in essere con il Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, attraverso l’intermediazione di Elisa Grande, capo Dipartimento presso la Presidenza stessa. In particolare, in data 21 dicembre del 2009 Luca Simoni chiede di incontrare urgentemente il Bisignani per avere “un suggerimento su cosa fare”, in quanto afferma di aver avuto notizie “veramente molto negative” verosimilmente relative all’incontro fissato il giorno successivo con Elisa Grande, capo del Dipartimento Informazione Editoria presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, per “firmare una serie di cose”. Di fatto il giorno seguente sarà la stessa Grande a contattare Rita Monteverde comunicandole che si trova in compagnia del Simoni e che ha bisogno di parlare urgentemente col Bisignani.

L’esito positivo dell’incontro e dell’intermediazione di Bisignani è stato rilevato in data 23 dicembre 2009, allorquando la Grande comunica al Bisignani che “sono tutti contenti…” Poi, secondo la Gdf Simoni esprime la propria gratitudine a Bisignani, affermando ‘non so come ringraziarti’ e aggiunge che il Bisignani “appare assumere un ruolo preponderante nell’assunzione di decisioni riguardanti l’assetto societario della stessa, dando a quest’ultimo indicazioni precise sulle modalità di riduzione delle quote di partecipazione possedute da Daniele Capezzone. (…). Le indagini hanno rilevato numerosi incontri avvenuti anche in forma privata, tra il Bisignani, il Simoni, gli onorevoli Frattini e Gelmini, nonché il viceministro Romano e finalizzati ad assicurare alla società in parola cospicui finanziamenti da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri per la fornitura di un servizio di informazione diretto a propagandare la linea politica di una corrente sorta all’interno del Pdl e denominata ‘Club della Libertà’”.



Inchiesta P4: Alfonso Papa, il Velino e il Giusto processo. La macelleria garantista di B. - di Mario Portanova


Il deputato Alfonso Papa, indagato nell'inchiesta napoletana, ha collaborato con due testate da sempre in prima linea per difendere la posizione del presidente del Consiglio davanti alle accuse della magistratura. L'editore è l'imprenditore Simone Chiarella è stato arrestato il 3 maggio scorso per bancarotta.


Alfonso Papa e Silvio Berlusconi alla Camera il 22 giugno

Alberghi “da mille euro a notte”, come il De Russy di Roma, un viaggio in Argentina, cene in ristoranti di lusso. E’ la bella vita di Alfonso Papa, il parlamentare del Pdl protagonista, insieme a Luigi Bisignani, dell’inchiesta sulla P4. Bella soprattutto perché non era lui a pagare tanto sfarzo. Le spese erano a carico di Simone Chiarella, imprenditore romano, ex marito di Giuseppina Caltagirone, figlia dell’immobiliarista Gaetano. Al centro del proficuo rapporto, la collaborazione del parlamentare a due testate di cui Chiarella era editore: Il Velino, agenzia di stampa molto quotata a Palazzo Chigi, e la rivista “Il giusto processo”.

Le dichiarazioni messe a verbale da Chiarella davanti al pm Henry John Woodcock lasciano intravedere la reale consistenza del movimento “garantista” sorto intorno alle disavventure giudiziarie diSilvio Berlusconi e dei suoi principali collaboratori. E’ la lunga vicenda processuale di Cesare Previti a ispirare la nascita di “Il giusto processo”, nel 2002, e Chiarella è anche coeditore del “Domenicale” di Marcello Dell’Utri. Condannato definitivamente per corruzione in atti giudiziari il primo, in appello per concorso esterno in associazione mafiosa il secondo. “Il giusto processo” era linkato in buona evidenza sul sito Previti.it, oggi non più attivo.

La rivista, però, non ha portato fortuna a molti dei suoi animatori. Previti condannato, Papa sotto inchiesta con gli imbarazzanti riscontri divulgati in questi giorni, e lo stesso Chiarella arrestato il 3 maggio dell’anno scorso per bancarotta. La Procura di Roma lo accusa di aver sottratto milioni di euro alla Immo C. srl, all’insaputa della socia e moglie Giuseppina. Altri guai sono arrivati all’imprenditore-editore proprio dall’entourage di Previti, con la vicenda del Grand Hotel di via Veneto a Roma: l’avvocato Giovanni Acampora, condannato insieme a Previti nel processo sul Lodo Mondadori.

Dai titoli dei contributi a “Il giusto processo” emerge un’esacerbata linea anti-magistrati: “Il mandato di cattura europeo: autostrada per un universo concentrazionario”; “Il plumbeo cielo corporativo del Csm”; “La malattia mentale non risparmia la magistratura”. E così via, compresa una sfilza di articoli che vivisezionano un cavallo di battaglia della difesa di Previti, la famosa intercettazione ambientale al bar Mandara. Lo stesso Chiarella si esercitava nelle pagine della sua creatura, soprattutto sul fronte della politica estera: “Senza se e senza ma, sempre dalla parte degli Stati Uniti contro il terrorismo”.

Tra Il Velino e “Il giusto processo” si sono mosse le punte di diamante del garantismo in versione berlusconiana, come Lino Jannuzzi, già direttore dell’agenzia, l’ex presidente del Senato Marcello Pera, Giancarlo Lehner, parlamentare del Pdl, oggi “responsabile”, autore di pamphlet anti-Mani pulite e dintorni. Ora le due testate fondate da Chiarella finiscono nei verbali dell’inchiesta P4. E la battaglia sulla giustizia continua, questa volta sul campo.






venerdì 24 giugno 2011

Montezemolo si offre come premier di un governo di transizione. - di Stefano Feltri


Non vuole candidarsi, ma aspetta la chiamata. Perché quando c'è da ricostruire un Paese lacerato da una “guerra civile a bassa intensità” serve “la collaborazione di tutti”. Punta al 2013 ma, se il governo cadesse sulla manovra, anche prima.


A.A.A. offresi premier di transizione, grande disponibilità, bella presenza, prezzo ragionevole.Luca Cordero di Montezemolo è pronto per la politica, non lo aveva mai detto così chiaramente come ieri, ma non subito. Bisogna aspettare una “fase costituente”, come dice il presidente della Ferrari in perfetto politichese a una convention della sua associazione Italia Futura. Il senso è questo: l’alternanza al governo è una cosa ottima, ma per “le situazioni normali”, ma quando c’è da ricostruire un Paese lacerato da una “guerra civile a bassa intensità” serve “la collaborazione di tutti”. E qualcuno in grado di mettere tutti d’accordo. Quanto alla “Terza Repubblica”, dice Montezemolo, “la devono costruire quelli che hanno trent’anni meno di me”.

L’occasione per ribadire la propria disponibilità a una chiamata politica è un interminabile convegno di Italia Futura sull’“orgoglio italiano” e il settore della cultura. Al teatro Argentina, nel centro di Roma, c’è tutta la squadra montezemoliana ad ascoltare quattro ore di interventi (bofonchiando per i 45 minuti di ritardo con cui si comincia) sulla cultura e il suo rilievo economico. Decine di relatori, da Diego Della Valle che presenta il suo finanziamento per il restauro del Colosseo come il modello da seguire (invitaMassimo Moratti a occuparsi meno di fuorigioco e più di cultura) alla cantante Malika Ayane all’ex capo della Mondadori Gian Arturo Ferrari. C’è un dirigente del ministero dei Beni culturali, Roberto Cecchi, indagato per abuso d’ufficio. Ci sono filmati, lunghe relazioni, tutti gli oratori sforano il tempo a loro disposizione, alla fine sul palco sale Montezemolo. Commosso, dice, per un video sulle eccellenze italiane nella cultura, con la voce roca invita a “chiudere questa terribile Seconda Repubblica”.

Quando i suoi collaboratori scoprono che il presidente di Italia Futura ha deciso di parlare a braccio c’è un attimo di panico, pare che fosse anche un vezzo dell’Avvocato Gianni Agnelli snobbare il lavoro degli spin doctor. Alla fine lo convincono a leggere almeno la parte politica, cesellata per non dire troppo ma far capire tutto, dai due principali cervelli politici dell’associazione, il direttore Andrea Romano e il manager Carlo Calenda. Montezemolo non sbava troppo, si concede qualche ingenuità come dire che abbiamo “un volontariato leader in Europa” e che “se fossi un precario come quelli del teatro Valle che protestano qui fuori, anche io avrei l’angoscia per non sapere che fare fra tre mesi”. Ma non accenna in modo esplicito a Silvio Berlusconi, sorvola completamente sullo scandalo P4 e suLuigi Bisignani, suo amico personale a cui (si legge nelle carte della Procura di Napoli) ha chiesto aiuto per far approvare alla Rai delle fiction dell’ex compagna Edwige Fenech. Tra le righe si nota anche la recente tregua con il ministro Giulio Tremonti, un altro che ambisce a guidare governi post-berlusconiani. Dice Montezemolo che “la stabilità dei conti pubblici ha rappresentato l’unico argine che ha tenuto durante la Seconda Repubblica e non possiamo permettere che venga travolto”. Anche se, dice Montezemolo, i tagli vanno fatti “con il laser e non con il machete”.

Per Tremonti le cose si stanno però complicando parecchio, quando mancano pochi giorni alla presentazione della manovra triennale da 40 miliardi. Confindustria dice che se non si fanno anche riforme per favorire la crescita, nel 2012 la crescita sarà la metà rispetto alle previsioni (quindi lo 0,6 per cento) annullando parte degli effetti di risanamento della correzione, visto che lo scopo è migliorare il rapporto tra deficit e Pil. Senza riforme, avverte Confindustria, di miliardi ne serviranno 58, non 40. Sta già cominciando la protesta delle Regioni per i previsti tagli alla sanità, dei sindacati per l’aumento dell’età pensionabile nel settore privato, mentre la commissione Bilancio della Camera chiede di smetterla con i tagli lineari, mentre il malumore della Lega è sempre più evidente: almeno nel provvedimento di bilancio, il Carroccio deve incassare qualcosa per rispondere alla base di Pontida.
Se le cose dovessero precipitare, comunque, Tremonti è pronto per un governo transitorio appoggiato dal Quirinale. Come Montezemolo che, rispondendo alle sollecitazioni di Mario Draghi della Banca d’Italia, sta preparando un osservatorio sugli sprechi della politica e una spending review, un’analisi del bilancio dello Stato per decidere dove tagliare. Così, giusto per essere pronto nel caso qualcuno avesse bisogno di lui.




Quei 250 milioni spesi per il ponte di Messina (che non si farà più). - di Sergio Rizzo.

La crisi, il no della Lega. E l'opera non parte.

ROMA - «Costruiremo il ponte di Messina, così se uno ha un grande amore dall'altra parte dello Stretto, potrà andarci anche alle quattro di notte, senza aspettare i traghetti...» Da quando Silvio Berlusconi ha pronunciato queste parole, era l'8 maggio 2005, sono trascorsi sei anni, e gli amanti siciliani e calabresi sono ancora costretti a fare la fila al traghetto fra Scilla e Cariddi. Sul ponte passeranno forse i loro pronipoti. Se saranno, o meno, fortunati (questo però dipende dai punti di vista).

La storia infinita di questa «meraviglia del mondo», meraviglia finora soltanto a parole, è nota, ma vale la pena di riassumerla. Del fantomatico ponte sullo Stretto di Messina si parla da secoli. Per limitarci al dopoguerra, la prima mossa concreta è un concorso per idee del 1969. Due anni dopo il parlamento approva una legge per l'attraversamento stabile dello Stretto. Quindi, dieci anni più tardi, viene costituita una società, la Stretto di Messina, controllata dall'Iri e affidata al visionario Gianfranco Gilardini. Che ce la mette tutta. Coinvolge i migliori progettisti, e per convincere gli oppositori arriva a far dimostrare che il ponte potrebbe resistere anche alla bomba atomica. Passerà a miglior vita senza veder nascere la sua creatura. La quale, nel frattempo, è diventata un formidabile strumento di propaganda. Ma anche un oggetto di scontro politico: mai un ponte, che per definizione dovrebbe unire, ha diviso così tanto. Da una parte chi sostiene che sarebbe un formidabile volano per la ripresa del Mezzogiorno, se non addirittura una sensazionale attrazione turistica, dall'altra chi lo giudica una nuova cattedrale nel deserto che deturperà irrimediabilmente uno dei luoghi più belli del pianeta. Fra gli strali degli ambientalisti, Bettino Craxi ci fa la campagna elettorale del 1992. E i figli del leader socialista, Bobo e Stefania, proporranno in seguito di intestarlo a lui. Mentre l'ex presidente della Regione Calabria Giuseppe Nisticò avrebbe voluto chiamarlo Ponte «Carlo Magno» attribuendo il progetto di unire Scilla e Cariddi al fondatore del Sacro Romano Impero. Nientemeno.

Finché, per farla breve, arriva nel 2001 il governo Berlusconi con la sua legge obiettivo. Ma nemmeno quella serve a far decollare il ponte. Dopo cinque anni si arriva faticosamente a un passo dall'apertura dei cantieri, con l'affidamento dell'opera (fra polemiche e ricorsi) a un general contractor, l'Eurolink, di cui è azionista di riferimento Impregilo. Quando però cambia la maggioranza. Siamo nell'estate del 2006 e il ponte finisce su un binario morto. Il governo di centrosinistra vorrebbe addirittura liquidare la società Stretto di Messina, concessionaria dell'opera, ma il ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro, sventa la mossa in extremis. Nessuno lo ringrazierà: ma se l'operazione non si blocca il «merito» è suo. Nel 2008 torna dunque Berlusconi e il progetto, a quarant'anni dal suo debutto, riprende vita.

Certo, nella maggioranza c'è qualcuno che continua a storcere il naso. Il ponte sullo Stretto di Messina, la Lega Nord di Umberto Bossi proprio non riesce a digerirlo. Ma tant'è. Nonostante le opposizioni interne ed esterne, la cosa va avanti sia pure lentamente. E si arriva finalmente, qualche mese fa, al progetto definitivo. Nel frattempo, sono stati già spesi almeno 250 milioni di euro.

Sarebbe niente, per un'opera tanto colossale, se però gli intoppi fossero finiti. Sulla carta, per aprire i cantieri, ora non mancherebbero che poche formalità, come la Conferenza dei servizi con gli enti locali e il bollino del Cipe, il Comitato interministeriale che deve sbloccare tutti i grandi investimenti pubblici. Sempre sulla carta, non sarebbe nemmeno più possibile tornare indietro e dire a Eurolink, come avrebbero voluto fare gli ambientalisti al tempo del precedente governo: «Scusate, abbiamo scherzato». Il contratto infatti è blindato. Revocarlo significherebbe essere costretti a pagare penali stratosferiche. Parliamo di svariate centinaia di milioni. Ma nonostante questo il percorso si è fatto ancora una volta più che mai impervio. Non per colpa dei soliti ambientalisti. Nemmeno a causa della crisi economica, il che potrebbe essere perfino comprensibile. Piuttosto, per questioni politiche. Sia pure mascherate da difficoltà finanziarie.

Per dirne una, il «decreto sviluppo» ha materializzato un ostacolo imprevisto e insormontabile. Si è stabilito infatti che le cosiddette «opere compensative», quelle che i Comuni e gli enti locali pretendono per non mettere i bastoni fra le ruote al ponte, non potranno superare il 2% del costo complessivo dell'opera. E considerando che parliamo di 6 e mezzo, forse 7 miliardi di euro, non si potrebbe andare oltre i 130-140 milioni. Una cifra che, rispetto agli 800-900 milioni necessari per le opere già concordate con le amministrazioni locali, fa semplicemente ridere. Bretelle, stazioni ferroviarie, sistemazioni viarie.... Dovranno aspettare: non c'è trippa per gatti. Basta dire che il solo Comune di Messina aveva concordato con la società Stretto lavori per 231 milioni. Fra questi, una strada (la via del Mare) del costo di 65 milioni. Ma soprattutto il depuratore e la rete fognaria a servizio della parte nord della città, che ne è completamente priva: 80,7 milioni di investimento. Adesso, naturalmente, a rischio. Insieme a tutto il resto. Anche perché le opere compensative sono l'unica arma che resta in mano agli enti locali. Portarle a casa, per loro, è questione di vita o di morte.

A remare contro c'è poi il clima politico. Dopo la batosta elettorale alle amministrative la Lega Nord, che già di quest'opera faraonica non ne voleva sentire parlare, ha alzato la posta e questa è una difficoltà in più. Fa fede l'avvertimento lanciato dal leghista Giancarlo Gentilini, vicesindaco di Treviso: «La gente non vuole voli pindarici, non è interessata a opere come il ponte sullo Stretto di Messina perché è una cosa che non sta né in cielo né in terra. Quindi anche tu, Bossi, quando appoggi questi programmi da fantascienza, ricordati piuttosto di restare con i piedi per terra, perché gli alpini mettono un piede dopo l'altro».

Con l'aria che tira nella maggioranza basterebbe forse questa specie di «de profundis» che viene dalla pancia del Carroccio per far finire nuovamente il ponte su un binario morto. Senza poi contare quello che è successo in Sicilia. Dove ora c'è un governo regionale aperto al centrosinistra, schieramento politico che al ponte fra Scilla e Cariddi è sempre stato fermamente contrario. Una circostanza che rende estremamente complicato al governatore Raffaele Lombardo spingere sull'acceleratore. E questo nonostante i posti di lavoro che, secondo gli esperti, quell'opera potrebbe garantire. Sono in tutto 4.457: un numero enorme, per un'area nella quale la disoccupazione raggiunge livelli record.

Ma il fatto ancora più preoccupante, per i sostenitori dell'infrastruttura, è il disinteresse che sembra ormai circondarlo anche negli ambienti governativi. Evidentemente concentrati su ben altre faccende. La società Stretto di Messina ha diramato ieri un comunicato ufficiale per dare notizia che «il consiglio di amministrazione ha avviato l'esame del progetto definitivo del ponte». Un segnale che la cosa è ancora viva, magari nella speranza che Berlusconi si decida a rilanciare il ponte, annunciando l'ennesimo piano per il Sud? Forse. Vedremo quando e come l'esame si concluderà, e che cosa accadrà in seguito. Sempre che il governo vada avanti, sempre che si trovino i soldi per accontentare gli enti locali... Intanto nella sede messinese di Eurolink, dove lavoravano decine di persone, sembrano già cominciate le vacanze. Come avessero fiutato l'aria.