domenica 25 novembre 2012

Quei tre giudici nell'ufficio più costoso del mondo. - Luciano Ferraro


Piazza San Marco: 2,6 milioni annui per affitto e spese
alle Procuratorie, ma sono rimasti solo i giudici di pace.


Tra stucchi cinquecenteschi illuminati d'oro e d'azzurro, c'è l'ufficio giudiziario più costoso del mondo (se si calcola il rapporto tra numero di occupanti e spese). Ci lavorano tre giudici di pace, si occupano di beghe condominiali e infrazioni stradali contestate. Le loro stanze si affacciano su San Marco, a Venezia, e ogni giorno si riempiono della musica dei Caffè storici. Si trovano nelle Procuratorie vecchie, l'edificio delle 100 finestre, lungo 152 metri, dalla Torre dell'Orologio al Museo Correr, costruito nel dodicesimo secolo e rinato dopo un'incendio nel 1538. Queste tre scrivanie costano prima al Comune, poi allo Stato, tra canone d'affitto e spese, 866 mila euro l'una. In totale 2,6 milioni l'anno. 
A sinistra, il Palazzo delle Procuratorie (Ap)A sinistra, il Palazzo delle Procuratorie (Ap)
Il padrone di casa, le Assicurazioni Generali, incassa il canone da un decennio. Il conto è lievitato, anche se gli uffici sono stati progressivamente liberati. Il pasticciaccio inizia nel 1991, quando il Tribunale di Rialto, con vista sul Canal Grande, viene chiuso per carenza di misure di sicurezza. Il Comune cerca, con urgenza, una sede per evitare la paralisi dei processi e delle indagini. Generali mette a disposizione l'enorme ala marciana. Era stata la base della compagnia dal 1832. Alla fine degli anni Ottanta, sulla scia di un esodo di abitanti e posti di lavoro che sembra non finire mai, anche le Generali si trasferirono in un quartier generale in terraferma, a Mogliano Veneto. Nuovo di zecca, accessibile e molto meno costoso di un edificio storico, tra acqua alta e necessità di continui interventi di restauro. 
Il 18 novembre 1991 il Comune si accorda con la compagnia del leone: 1,4 milioni di euro l'anno per 6 anni. La giustizia riparte. Pubblici ministeri e giudici traslocano da Rialto alle stanze di San Marco, nei due splendidi piani poco adatti ai processi. Quando sono di scena imputati o testimoni eccellenti si assiste a inseguimenti dei fotografi tra turisti e piccioni, come capita nei giorni caldi di Tangentopoli a Gianni De Michelis, con la folla che fischia e urla. La distanza dall'imbarcadero costringe poi a far sfilare i detenuti portati dal carcere al palazzo tra vacanzieri e cittadini.
Dopo mesi dal trasferimento, Procura e Tribunale tornano a Rialto: le Fabbriche Nuove del Sansovino sono di nuovo agibili. Ma il gruppo dell'Antimafia rimane nell'edificio. Resta anche la polizia giudiziaria, assieme ai giudici di pace. E il canone intanto non si abbassa. Alla fine del 2003 il Comune chiede una proroga «in attesa della realizzazione della Cittadella della giustizia».
Il sogno è trasferire nella Cittadella, a piazzale Roma, tutte le sedi della magistratura del centro storico. I lavori sembrano interminabili. Se ne parla dagli anni Ottanta. «Il progetto è finanziato e gli appalti assegnati, ma a stralci - spiega con amarezza il sindaco veneziano Giorgio Orsoni, avvocato amministrativista - mancano i fondi statali per l'ultima fase». Nel 2010 il primo «miracolo»: una parte dello scuro e cupo edificio della Cittadella della giustizia è pronta, il team dell'Antimafia ha traslocato con la polizia giudiziaria. Ma il contratto d'affitto per San Marco resta lo stesso del 1991, quello della fuga da Rialto.
Se tutto filerà liscio, il 2013 sarà l'anno in cui Venezia potrà evitare di versare 2,6 milioni l'anno per i tre giudici di pace. «Abbiamo già trovato i nuovi uffici a Riva de Biasio, presto il caso sarà risolto - assicura il sindaco -. Certo, siamo stati vittime di un meccanismo folle: abbiamo dovuto anticipare milioni per far funzionare uffici statali, e l'amministrazione centrale ce li ha restituiti con ritardo di 3-4 anni, solo all'80 per cento. Ma fra qualche settimana tutto questo finirà».
Nel frattempo i tre giudici di pace e gli otto impiegati potranno continuare ad ascoltare i valzer dei Caffè che, dal '700 ad oggi, hanno accolto da Goethe ad Hemingway. «Il miglior fondale per l'estasi» come ha scritto Josif Brodskij, il poeta di «Fondamenta degli Incurabili».

sabato 24 novembre 2012

Call center, affare ‘ndrangheta e il boss cita Cuccia: le azioni non si contano si pesano. - Davide Milosa


Call center, affare ‘ndrangheta e il boss cita Cuccia: le azioni non si contano si pesano


All'alba 23 arresti tra Calabria e Lombardia. Nel mirino la potente cosca Bellocco. Nel 2011 ha conquisto un'azienda lombarda leader nel settore delle telecomunicazioni. A Rosarno intercettati le preparzioni di una faida con i Pesce e dove le donne insistono per "uccidere tutti anche le creature".

L’ultimo affare: i call center. Sì perché quella della potentissima cosca Bellocco di Rosarno, è una ‘ndrangheta che diversifica. E se in Calabria i boss regnano da imperatori e preparano faide in cui, sentenziano le donne di mafia, a morire dovranno essere “tutti, anche i minorenni”, in Lombardia si dedicano al business. Legale e milionario. Come dimostra la vicenda della Blue call srl, azienda specializzata nella gestione di call center con il centro direttivo a Cernusco sul Naviglio e sedi operative in tutta Italia (anche in Calabria, naturalmente). Un’impresa florida che solo nel 2010 ha chiuso un fatturato da 13 milioni di euro, facendosi segnalare come leader del settore. Un gioiellino, dunque. Gestito da Andrea Ruffino, il quale, agli inizi del 2011, apre le porte a un emissario dei boss. Finirà per cedere le quote. Regalando ai boss un vero bancomat cui accedere in ogni momento, ma soprattutto la possibilità di controllare un ampio consenso sociale attraverso le assunzioni. Un’arma formidabile anche per la gestione di pacchetti elettorali. Insomma affari al nord e controllo del territorio al sud. Il tutto sulla rotta Rosarno-Milano e ritorno. Questa la fotografia scattata dalle procure di Reggio Calabria e Milano che all’alba di questa mattina hanno dato esecuzione a 23 arresti tra Calabria per associazione mafiosa e Lombardia per intestazione fittizia di beni, accusa quest’ultima aggravata dall’utilizzo del metodo mafioso. Tra questi anche i soci della stessa Blue call.
“LE AZIONI NON SI CONTANO, SI PESANO E LE MIE PESANO DI PIU’”
Per comprendere il disegno basta leggere i capi d’imputazione. A Rosarno la mafia è armata. Mentre a Milano, questa stessa ‘ndrangheta (ben diversa da quella rappresentata dall’inchiesta Infinito) non spara, usa il computer e si appoggia a veri e propri intermediari del crimine. Gente insospettabile che, come in questo caso, prende contatti e mette in comunicazioni gli imprenditori con i boss. Carlo Antonio Longo, originario di Galatro (Reggio Calabria), è, infatti, il referente dei Bellocco al nord. Mega villa in Svizzera, titolare di un’azienda edile (chiusa nel gennaio scorso) schermata da un limited londinese, Longo è un uomo di mafia, violento e deciso, ma è anche un broker, capace di trattare con gli imprenditori del nord. Talmente sottile da minacciarli, citando a memoria una delle storiche frasi di Enrico Cuccia, per decenni eminenza grigia della finanza italiana. Dirà Longo all’imprenditore: “Le azioni non si contano, ma si pesano, e le mie pesano di più!”. Gli uomini del Gico guidato dal comandante Marco Menegazzo, ascoltano queste parole il 16 settembre 2011, periodo in cui la ‘ndrangheta si accinge a fare il passo definitivo: prendersi tutta l’azienda che in quel periodo conta oltre mille dipendenti.
L’IMPRENDITORE: “HO PRESO LE BOTTE, QUEL BASTARDO, CON IL COLTELLO ANCHE”
L’atto finale solo quattro giorni dopo, quando Andrea Ruffino (anche lui destinatario di un mandato di cattura, ma attualmente irreperibile) convocato da Longo e soci nella sede operativa di Cernusco sul Naviglio. Nella saletta ci sono una decina di persone, gente vicina alla cosca Bellocco, persone assunte in società senza le minime credenziali. In questo momento Longo regola i conti o, come dice lui, “taglia i rami secchi”. L’imprenditore di Ivrea viene massacrato di botte, dopodiché, con il coltello puntato alla gola, verrà “convinto” a cedere tutte le sue quote a una società preparata ad hoc dalla ‘ndrangheta. Uscito da quell’incontro, la vittima chiama subito la sua fidanzata per sfogarsi. “Ho preso le botte (…) mi ha dato una botta che sento malissimo adesso. Quel bastardo, guarda. Con il coltello anche, guarda (…) quello che dovevo raggiungere l’ho raggiunto ma fanno schifo. Sono uomini di merda. Ti giuro non sto sentendo da un orecchio”. L’imprenditore è stato massacrato. Però è sollevato, perché ha ottenuto la promessa di un minimo pagamento delle sue quote. Pagamento, che, alla maniera calabrese, non arriverà mai. Le conversazioni dei giorni successivi confermano il quadro agli investigatori. Un impiegato delle sue società vedendo l’imprenditore con l’occhio pesto gli consiglia di andare in ospedale. “Sì – risponde – e cosa dico che Longo mi ha fatto un’estorsione”. Il vaso è pieno. Lo sfogo arriva subito dopo: “Basta con questa ‘ndrangheta – dice l’ex titolare della Blue call – che si pigliassero tutto”.
UMBERTO BELLOCCO, IL PICCOLO PRINCIPE DELLA ‘NDRANGHETA
Eppure, mesi prima, l’imprenditore piemontese non la pensava così. Tutto inizia nel dicembre 2011, quando Emilio Fratto, commercialista con conoscenze importanti in ambito mafioso, pensa di rientrare da un credito che ha con l’imprenditore piemontese proponendo l’ingresso di nuovi soci nella Blue call. In questo modo, lo stesso Fratto crede di potersi liberare di un debito a sua volta contratto con la cosca Bellocco. Succede tutto velocemente. “C’è da fare questa cosa”, dice Fratto a Longo che prende tempo e riporta la possibilità a Umberto Belloco, il giovane e capriccioso principe del clan, il quale entrerà con entrambi i piedi nella vicenda fino ad essere il regista ultimo e questo senza aver la minima professionalità. Farà di più durante la latitanza terminata nel luglio scorso – sarà arrestato a Roma nel luglio scorso – il giovane Bellocco, da fuggiasco, percepirà un regolare stipendio dalla Blue call, oltre naturalmente ai vari benefit per allietare la latitanza.
LA SCALATA ALLA SOCIETA’: QUESTIONE DI PANZA E DI PRESENZA
La vicenda, quindi, nasce per un debito-credito. L’imprenditore, del resto, non si oppone. Anche perché, emerge dalle indagini, già sotto scacco da uomini legati ai clan di isola Capo Rizzuto. Quello che appare chiarissimo è il metodo con cui la ‘ndrangheta prima entra e poi conquista l’azienda. Longo, introdotto da Fratto, e per conto dei Bellocco, porta in società una serie di persone fino ad aver, inizialmente, il 30%. Questo, però, è solo il prologo di una scalata rapidissima. Tanto che lo stesso Umberto Bellocco intercettato dice: “Tu pensa che dove lavoro io ci sono 40 ragazzi…45…A Cernusco gestisco un Call-Center”. Insomma, il progetto mafioso va a gonfie vele e a costo zero. Longo è chiarissimo: “I soldi noi non li abbiamo messi”. E dunque? Prosegue: “Io non metto niente io prendo”. I Bellocco dunque cosa mettono. “La presenza – ribadisce Longo – panza e presenza”. L’espressione tipicamente mafiosa viene tradotta dagli investigatori: “I Bellocco, una volta entrati a far parte della società con un quota minoritaria (30%), stavano cercando di acquisirne il controllo con metodologie che facevano leva solo sul potere di intimidazione derivante dalla loro appartenenza alla ‘ndrangheta”. Panza e presenza appunto. Tanto basta “per prendersi il lavoro di una vita”, si sfoga così uno dei soci della Blue call. “Non è solo, il futuro dell’azienda (….) Stai sotto scacco per tutta la vita! Come dici tu: Non c’è via d’uscita , questi qua… E’ impossibile, capito. Oggi vogliono questo e domani cosa vogliono!? … E dopodomani cosa vogliono, scusami”.
“LORO SONO COME DIO CHE POSSONO DECIDERE TUTTO”
Ruffino un po’ intuisce, un po’ no. Addirittura pensa di estromettere i calabresi, liquidando la loro parte. Non sarà così, naturalmente. E Fratto lo avverte fin da subito: “Per il resto dei nostri giorni non ce li togliamo più dai piedi. Tu pensa di giocare, con loro, sulla lama del rasoio: poi, quando ti tagli, ti renderai conto delle mie parole (…) Io ti sto dicendo che questa razza la conosco, tu no”. L’imprenditore, dunque, sta giocando con il fuoco. Però insiste: “La morte – dice – non è il peggiore dei mali”. Fratto è chiarissimo: “Tu sei un pazzo”. E allora l’altro chiede: “Loro sono come Dio che possono decidere che tutte le persone muoiono no?”
L’imprenditore agganciato sa ma non si sgancia. Diventa complice. Ne è consapevole Ruffno che dice: “Io non voglio andare avanti con queste persone (…) stiamo puliti (…) e non rischiamo nessun 416bis”. Quindi ancora parole in libertà sul come liquidare questi calabresi. “Guarda io ho più soluzioni (…) mi sono rotto i coglioni io voglio stare separato perché voglio comandare io”. Tanto coraggio viene smorzato da una telefonata di Longo, il quale durante le festivita pasquali fa gli auguti a Ruffino. “Volevo salutarti (…) come stai (…) Insieme e alla tua famiglia, tanti auguri…Buona Pasqua, capito, fai una buona Pasqua e vivi felice e contento”.
SCHERMI SOCIETARI E ASSET MAFIOSI
Nonostante tutto l’imprenditore prosegue nel tentativo di liberarsi dei calabresi. Consapevole della mafiosità dei suoi interlocutori, ma ancora non del tutto consapevole della loro intelligenza criminale, chiude la Blue call e splitta l’intero assett (call center e immobiliare) su due società: la Future srl e la R&V. Nel frattempo, però, la ‘ndrangheta ha già creato una sua società schermo, la Alveberg con sede a Milano in via Santa Maria alla porta. Tra i soci c’è la anche la fidanzata di Longo. E’ dentro questa srl che confluiranno tutte le quote dell’imprenditore, dopo il pestaggio del 20 settembre.
NELLA FAIDA UCCIDERE ANCHE DONNE E BAMBINI
Questa è la ‘ndrangheta che colonizza Milano. Una ‘ndrangheta violenta e vorace. Capace di prendersi un’azienda da 13 milioni di fatturato senza fare rumore. E di progettare una faida dove coinvolgere anche donne e bambini. L’incredibile vicenda è narrata nella parte calabrese dell’inchiesta. E nasce da due omicidi di affiliati alla cosca. I sospetti ricadono sul clan pesce, un tempo alleati con i Bellocco. Tanto che il giovane erede del casato mafioso dice, intercettato, “Rosarno è nostro e deve essere per sempre nostro…sennò non è di nessuno”. Il rischio di una faida è concreto. Tanto che Umberto ne parla con la madre Maria Teresa D’Agostino. “Una volta – dice la donna – che partiamo, partiamo tutti, una volta che siamo inguaiati, ci inguaiamo tutti….dopo, o loro o noi o noi, vediamo chi vince la guerra, dopo…pure ai minorenni”. E ancora: “Pari pari, a chi ha colpa e a chi non ha colpa, non mi interessa niente…e femmine”.

Salento, università a ‘gestione familiare’: nella bufera il rettore Domenico Laforgia. - Tiziana Colluto.


Salento, università a ‘gestione familiare’: nella bufera il rettore Domenico Laforgia

Incarichi di prestigio alla moglie, consulenze d'oro al figlio, occupazione militare degli organi d'ateneo: ecco come, grazie alla legge Gelmini, il numero uno dell'ateneo di Lecce era diventato un padre padrone. Ispezioni ministeriali, azioni parlamentari e inchieste della Procura hanno scoperto il 'sistema'.

Alla moglie gli incarichi di prestigio, allo studio del figlio le consulenze d’oro. Ai sindacalisti da addomesticare la benedizione all’avanzamento di carriera, a quello da punire la denuncia per “uso privato del telefono”. Di mezzo, un gioco a scacchi minuzioso, per occupare con propri alfieri e proprie pedine le caselle più strategiche, con il risultato di azzoppare le più elementari regole di democrazia. Il tutto, quasi sempre, a norma di legge, quella Gelmini, della cui deriva l’Università del Salento è diventata l’emblema. Per renderlo chiarissimo, oltre che per minare alle fondamenta l’ateneo leccese, è bastato un mese di terremoto, inaugurato dalla richiesta di ispezione ministeriale avanzata da cinquantacinque parlamentari e culminato con le dimissioni, ritirate poi a sorpresa, del direttore generale Emilio Miccolis.
Scosse continue che hanno avvelenato il clima di Lecce, tanto da far lievitare a nove i fascicoli aperti in Procura. L’ultimo esposto, forse il più scottante, è arrivato nelle scorse ore sulla scrivania del sostituto Paola Guglielmi. Nell’inchiesta ci sono finiti incarichi e consulenze, che svelano un presunto conflitto d’interessi che travolge direttamente il rettore Domenico Laforgia. Nel 2011, infatti, il Cda dell’Ateneo ha autorizzato richieste all’Agenzia Regionale per la Tecnologia e l’Innovazione, al fine di ottenere contributi pari a 53mila euro, alcuni dei quali tradotti in incarichi allo ‘Studio Laforgia, Bruni and partners’. A chi fa capo? Alla stessa famiglia del rettore, che all’epoca dei fatti, in qualità di socio fondatore, deteneva il 50% delle quote, donate, solo nel giugno scorso, al figlio Maurizio, ora amministratore unico. Ma, al di là dell’inchiesta, la saga del familismo s’allarga. Almeno sei atti confermano la moglie del rettore, Patrizia Guida, come referente per accordi con associazioni e una cooperativa. Nomine non onerose, ma comunque di pregio. Formalmente legittime, probabilmente inopportune, visto che lei già ricopre, contemporaneamente, i ruoli di ricercatrice presso la facoltà di Lingue, di vicedirettrice del Centro Linguistico d’Ateneo, di direttrice della Scuola d’italiano per stranieri, di responsabile del coordinamento redazionale de Il Bollettino, la rivista mensile, di cui il marito è direttore editoriale.
Che tutto sia stato possibile, finora nel silenzio quasi generale, tuttavia, non è un caso. Almeno settanta registrazioni audio depositate in procura testimonierebbero il metodo, a dir poco discutibile, adottato dall’ex braccio destro del rettore, Emilio Miccolis, per provare a mettere a tacere le minoranze sindacali. Lusinghe e promesse in cambio della non belligeranza, dell’inciucio. Nell’Università del Salento, però, vige anche un sistema di ‘maggioranze blindate’, figlio di un’esasperazione della riforma Gelmini, che trova somiglianze a Catania, dove i margini di discrezionalità del Magnifico diventano abnormi in caso di azione disciplinare.
A Lecce, lo Statuto d’Ateneo non ha fatto altro che portare alle estreme conseguenze quel dettato della legge 240/2010 che prevede che i componenti del Cda siano “designati o scelti”. Nel Salento, infatti, sono sì nominati dal Senato Accademico, ma sulla base di una “rosa di candidati proposta dal Rettore”, che individua quei nomi in maniera insindacabile, segreta e immotivata. Una disposizione che vale quanto un cavallo di Troia nella distorsione dell’intero sistema di governo democratico dell’ateneo. Il Cda, a sua volta, nomina tre su cinque componenti del Consiglio di amministrazione della Fondazione dell’Università. Tre su cinque. E per decisioni che possono essere assunte a maggioranza semplice, cooptata ‘a monte’ e agevolata dalla previsione che in quello stesso organo debba sedere pure il prorettore e che a presiedere la Fondazione debba essere lo stesso rettore. Il gioco è fatto e non è per niente un gioco da poco. Alla Fondazione sono state demandate attività fondamentali, come l’edilizia, con appalti da cento milioni di euro sui nastri di partenza. Ecco come un solo articolo della legge Gelmini è riuscito a trasformare un semplice rettore in un grande Leviatano, i cui delegati, i membri del cui Dipartimento, i sostenitori della cui campagna elettorale si ritrovano ora ad occupare le postazioni più significative nel Cda dell’Università e in quello della Fondazione, nelle diverse commissioni istituzionali e negli uffici di punta, tra cui quello alla Comunicazione.
C’è chi ad un’applicazione autocratica della legge Gelmini si è opposto, correggendola dal basso e assicurando al Cda ancora una composizione di tipo elettivo. E’ stato il caso, tra gli altri, degli atenei di Genova, Reggio Calabria, Pisa. A loro hanno dato ragione almeno due Tar, della Liguria e del Piemonte, che hanno ritenuto quella scelta “di qualità e genuina, in quanto difficilmente condizionabile da indebite pressioni”. Da questi esempi l’Università del Salento pare essere, per ora, lontana anni luce.

Geronzi: D'Alema il mio sponsor. - Vittorio Malagutti



Né Andreotti né Berlusconi: è stato l'esponente del Pd il più fedele amico del controverso finanziere romano. Lo dice lo stesso ex presidente di Mediobanca nel libro-intervista 'Confiteor' di Massimo Mucchetti.

Lo sponsor politico più importante di Cesare Geronzi? Il leader di partito che non ha mai fatto mancare il suo appoggio alle iniziative del banchiere più influente e controverso della seconda Repubblica? Non è Giulio Andreotti, che pure fu decisivo per la nascita della Banca di Roma a guida geronziana. E neppure Silvio Berlusconi, da sempre indicato come il principale supporter del finanziere capitolino. No, l'amico vero, il politico negli anni fedele, si chiama Massimo D'Alema. 

E' lo stesso Geronzi a ricostruire i suoi rapporti con l'ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli esteri nel libro intervista di Massimo Mucchetti in vendita da mercoledì prossimo. "Confiteor", questo il titolo del lungo racconto del banchiere pubblicato da Feltrinelli. Un titolo che richiama la preghiera della confessione del rito cattolico. 

Risposta dopo risposta il lettore viene accompagnato attraverso 25 anni di storia del nostro Paese. Dal crollo della prima Repubblica, che segue di poco l'ascesa di Geronzi al vertice della neonata Banca di Roma, frutto della fusione tra Cassa di Roma, Banco di Santo Spirito e Banco di Roma, fino al ribaltone della primavera 2011, con le dimissioni dell'ex banchiere dalla presidenza delle Assicurazioni Generali. 

Frutto di oltre 100 ore di colloqui, suddivisi in 27 incontri tra giugno e settembre scorsi, il libro di Mucchetti (autore tra l'altro, del fortunato "Licenziare i padroni") non si esaurisce in una lunga sequenza di domande e risposte. Mucchetti, per quanto possibile, è andato a cercare i riscontri alle affermazioni di Geronzi, mettendole alla prova sulla base del proprio archivio e delle testimonianze di altri protagonisti. 

E l' autore non ha neppure rinunciato ad applicare alla vicenda professionale del banchiere lo stesso metodo di valutazione in passato da lui già utilizzato con successo per i grandi capitalisti nostrani, dagli Agnelli a Marco Tronchetti Provera. Così, sorpresa delle sorprese, alla fine si scopre che Geronzi è riuscito a garantire un rendimento annuo del 18% agli azionisti delle banche che ha guidato.


E' vero, il risultato è stato ottenuto tra il 1992 e il 2007, un quindicennio d'oro per la finanza seguito dal crac globale di cui ancora scontiamo le conseguenze. 

A conti fatti, però, il banchiere politico per eccellenza secondo Mucchetti ha vinto la sfida sul mercato con altri colleghi celebri come Giovanni Bazoli di Intesa e Alessandro Profumo di Unicredit. Proprio quest'ultimo nel maggio 2007 si prese Capitalia sulla base di una valutazione di 21,8 miliardi per tutto l'istituto romano. 

Cifre che adesso sembrano fuori della realtà. L'intera Unicredit arriva a stento ai 20 miliardi di capitalizzazione. 

Nel libro il banchiere affronta il tema spinoso dei rapporti con Sergio Cragnotti e la sua Cirio e con la Parmalat di Calisto Tanzi. Legami pericolosi che gli sono finora costati condanne penali in primo grado a 4 anni (Cirio) e 5 anni (Ciappazzi-Parmalat). 

Ma la parte forse più gustosa dell'intero libro promette di essere quella dedicata alla fase finale della carriera di Geronzi. Quella che lo ha portato prima al vertice di Mediobanca, sulla poltrona che fu di Enrico Cuccia, e poi al vertice delle Generali, le due poltrone più prestigiose della finanza nazionale. 

E qui, grazie alle domande del suo intervistatore, Geronzi offre per la prima volta la sua versione sui fatti che lo hanno messo in rotta di collisione con l'amministratore delegato Alberto Nagel. A cominciare dal racconto della fatidica riunione del consiglio di amministrazione delle Generali, il 6 aprile dell'anno scorso, che si concluse con le dimissioni dell'ex banchiere.«Fu una congiura architettata da Nagel e da Lorenzo Pellicioli, il capo della De Agostini, di cui Diego Della Valle si fece strumento», questa la versione di Geronzi. Che liquida mister Tod's come un mandato che pensava di essere mandante.


http://espresso.repubblica.it/dettaglio/geronzi-dalema-il-mio-sponsor/2195291

Presidente Napolitano, dica qualcosa sul ddl diffamazione. - Vincenzo Iurillo


E’ l’ennesima dimostrazione che viviamo nel Paese di Sottosopra, lì dove il mare luccica e tira forte il vento della censura e dell’intimidazione, dove un Parlamento senza vergogna dichiara una cosa e fa esattamente l’opposto: a chiacchiere dice di voler impedire che si ripetano altri casi Sallusti, nei fatti prepara una legge che è persino peggiore di quella in vigore, con la quale resta concreto il rischio che altri giornalisti vengano condannati al carcere per diffamazione.
L’obbrobrio licenziato da Pdl e Lega, con il codicillo per scongiurare che appresso al cronista che firma l’articolo vada in galera anche il direttore che lo ha messo in pagina (norma a forte rischio di anticostituzionalità), non ha accolto nessuna proposta migliorativa di una legge che risale al 1948. Non è stata presa in seria considerazione l’ipotesi di estinguere il reato con la pubblicazione di un’adeguata rettifica, o se il giornalista adempie spontaneamente alla correzione dell’errore. Non si è previsto di porre un dissuasore alle querele palesemente temerarie, fatte solo per intimidire i giornalisti, stabilendo ad esempio che in sede civile chi cita un cronista o una testata e poi perde la causa sia costretto a corrispondere una cifra proporzionata al risarcimento richiesto (e non ottenuto). Già che c’erano invece, i nominati dai partiti che siedono in Parlamento ne hanno approfittato per dilatare l’importo delle sanzioni pecuniarie in sede penale. Cifre fuori portata per l’80% dei cronisti, che vivono di precariato, fatture a 90 giorni, contrattini “oggi sei dentro e domani fuori”.
Va bene, lunedì noi giornalisti faremo sciopero. Sacrosanto. Si auspica la massima adesione. E poi? Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, le faccio una preghiera. Tra un monito e l’altro, alzi la voce anche contro questo scempio. Rivolga un messaggio alle Camere col quale ricorda che la libertà di stampa e la libera circolazione delle notizie sono prerequisiti fondamentali di una democrazia. Questo Parlamento in scadenza di mandato se ne è dimenticato. E pensa solo a come impedire che si scriva dei loro scandali. O a compiere qualche piccola vendetta personale.

DISCORSO DI BECCHI ALLA NAZIONE: "..allora la Rivoluzione sarà cominciata.."

venerdì 23 novembre 2012

Mugello, falso cieco guidava il trattore Truffa al Fisco da 100mila euro.


Un fotogramma di una registrazione della Finanza

FIRENZE - Percepiva una pensione di invalidità del 100% per cecità pressochè totale, ma guidava il trattore e svolgeva lavori agricoli nell'azienda della figlia. Protagonista un uomo di 65 anni residente nel Mugello (Firenze), denunciato per truffa aggravata e falso ideologico dalla Finanza. Dal 1999 ad oggi ha riscosso oltre 100.000 euro di pensione. Per recuperare la somma i finanzieri, su disposizione del gip di Firenze Silvia Cipriani, hanno proceduto al sequestro preventivo per equivalente di due fabbricati e un terreno a Borgo San Lorenzo e di tre macchine agricole.

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Le indagini. Secondo quanto emerso, nel corso delle indagini, coordinate dal pm Paolo Barlucchi, sono stati eseguiti appostamenti che hanno permesso agli investigatori di verificare l'incompatibilità delle attività svolte dal sessantacinquenne con la sua patologia. L'uomo, ufficialmente, risultava cieco con un residuo visivo di 1/20 da entrambi gli occhi, condizione corrispondente alla sola percezione della luce e del movimento della mano, ma lavorava abitualmente nell'azienda agricola della figlia, a cui aveva ceduto i terreni poco prima che venisse riconosciuta la sua invalidità. Secondo le Fiamme gialle della tenenza di Borgo San Lorenzo, il falso cieco svolgeva lavori agricoli impegnativi e prolungati, utilizzando trattori, per i quali non aveva la patente e che guidava sia nei campi sia nelle strade. Le indagini hanno inoltre permesso di accertare che il sessantacinquenne abitava in una casa popolare senza averne diritto. Per conservare l'abitazione, aveva dichiarato più volte agli uffici comunali, affermando il falso, di non possedere altri immobili.