venerdì 18 settembre 2015

LA SEMPLIFICAZIONE CHE COMPLICA. - Francesco Pallante (*)

La semplificazione che complica

Uno dei temi che, in questi anni, ha dominato il dibattito sulle riforme è quello della semplificazione. Il nostro sistema politico, costituzionale, legislativo, amministrativo, burocratico – si dice – è troppo complicato. Occorre introdurre riforme che semplifichino.
Il tema ha una sua forza evocativa. Viviamo in un sistema viziato da duplicazioni, contraddizioni, irragionevolezze ed è difficile rimanere insensibili alle sirene di una parola come “semplificazione”, sebbene abbia risvolti demagogici (valga per tutti Calderoli che, da ministro, incendia una catasta di vecchie leggi) e ideologici (le regole intese come pericolosi limiti alla libertà naturale dell’uomo) piuttosto evidenti.
Ieri si diceva: semplifichiamo il tipo di Stato, avvicinando le istituzioni ai cittadini tramite il federalismo. Com’è andata a finire? Lasciamo perdere gli scandali; limitiamoci agli effetti istituzionali del nuovo Titolo V. Ha semplificato o complicato il sistema? Un dato vale più di molti discorsi: nel 2001, l’anno della riforma, il contenzioso tra Stato e regioni aveva originato trentatré questioni di costituzionalità; due anni dopo le contese erano salite a cinquantasette; nel 2013 erano giunte a centoquarantanove. Ancora oggi siamo ben oltre i dati del 2000. Ciò che prima era un contenzioso fisiologico, nel quadro di un riparto di competenze sostanzialmente chiaro, è diventato il patologico strumento attraverso cui chiarire chi fa cosa, in un quadro d’incertezza senza pari.
Oggi di dice: semplifichiamo la forma di governo, eliminando quell’inutile istituto che è il bicameralismo perfetto. Riduciamo le competenze del Senato – è l’argomento – e l’intero sistema ne trarrà beneficio: niente più complicazioni derivanti dalla doppia lettura, niente più rischio di incontrollati “rimbalzi” da una Camera all’altra, niente più ritardi nei processi decisionali. Si potrebbe replicare, dati alla mano, che la duplicazione del procedimento è l’eccezione, non la regola: normalmente, la seconda Camera si limita a ratificare in tempi ragionevoli le decisioni della prima. E poi, mentre una Camera lavora su un progetto di legge, non è che l’altra stia lì a far niente: nel medesimo frangente lavora su un diverso progetto e ciò assicura un’accelerazione, non un rallentamento, dei tempi (non è un sofisticato ragionamento di diritto costituzionale, così come non serve un idraulico per capire che due tubi scaricano l’acqua più in fretta di uno).
Ma, prendiamo sul serio la sfida dei riformatori e andiamo a verificare come immaginano di semplificare il sistema.
L’articolo 70 della Costituzione in vigore è lapidario: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”. Nove parole, comprensibili da chiunque. La versione “semplificata” del nuovo testo costituzionale non è agevolmente riproducibile: ammonta a 432 parole (più o meno quante ne sono servite per arrivare fino a qui). Sorvoliamo: in fondo non è detto che quantità e qualità vadano di pari passo.
Ma, che dire dell’abuso dei rimandi interni? In molti casi, nel disciplinare la procedura di adozione di determinate leggi, anziché, per esempio, “le leggi in materia di autorizzazione alla ratifica dei trattati europei” è scritto: “le leggi di cui all’articolo 80, secondo periodo”, come se chiunque potesse agevolmente cogliere il rinvio. Si tratta di una tecnica sconsigliata da tutti i manuali di legistica, che i costituenti avevano accuratamente evitato di utilizzare. Ne va della comprensibilità del testo. La Costituzione – si diceva – non è un regolamento di condominio; tutti devono poterla leggere e capire con facilità. Del nuovo articolo 70 non si riesce nemmeno ad arrivare al primo punto fermo senza riprendere fiato, figurarsi dare un senso alla decina di rimandi che contiene. Ma, sorvoliamo ancora: magari la nuova regola è scritta male, però poi, all’atto pratico, prevede una procedura che effettivamente semplifica l’attuale bicameralismo perfetto.
Vediamone, allora, il contenuto.
Se passasse la riforma, non avremmo più un solo procedimento legislativo, ma occorrerebbe distinguere tra:
  1. leggi approvate, come oggi, da entrambe le Camere;
  2. leggi approvate solo dalla Camera, salvo il Senato decida entro dieci giorni di esaminarle e di approvare, entro ulteriori trenta giorni, proposte di modifica su cui deciderà, poi, in via definitiva la Camera;
  3. leggi approvate solo dalla Camera, salvo il Senato decida entro dieci giorni di esaminarle e di approvare, entro ulteriori dieci giorni, proposte di modifica su cui deciderà, poi, in via definitiva la Camera;
  4. leggi approvate solo dalla Camera, salvo il Senato decida entro dieci giorni di esaminarle e di approvare a maggioranza assoluta, entro ulteriori dieci giorni, proposte di modifica su cui deciderà, poi, in via definitiva la Camera sempre a maggioranza assoluta;
  5. leggi approvate solo dalla Camera a maggioranza assoluta, salvo il Senato decida entro dieci giorni di esaminarle e di approvare, entro ulteriori quindici giorni, proposte di modifica su cui deciderà, poi, in via definitiva la Camera.
Semplificazione Da un solo procedimento, si passerebbe a cinque. E, in quasi tutti, le possibili letture parlamentari salirebbero da due a tre.
Non sembra difficile, inoltre, immaginare una nuova ondata di contenzioso costituzionale, questa volta tra Camera e Senato, in ordine al tipo di procedimento da seguire nei diversi casi (in proposito, il nuovo articolo 70 si limita a prevedere che i presidenti delle Camere decidono, di comune intesa, sui conflitti di competenza: ma, chi assicura che l’intesa sia effettivamente raggiunta?).
Vien da dire che avesse già capito tutto Montesquieu, quando scriveva che “nel momento in cui un uomo si fa signore assoluto, pensa innanzi tutto a semplificare le leggi” (Esprit des Lois, VI, II).
(*) Francesco Pallante fa parte del Consiglio di Direzione di Libertà e Giustizia

QUELLI DEL SÌ E QUELLI DEL NO. - Elisabetta Rubini

Quelli del sì e quelli del no

Negli ultimi giorni il presidente del consiglio si è (nuovamente) esibito in una serie di anatemi contro i suoi ormai usuali nemici di comodo. Davanti al blasonato pubblico dell’incontro di Cernobbio ha tuonato contro i “salotti buoni”, mentre al festival dell’Unità a Milano ha riproposto la divisione degli italiani tra i buoni – quelli del sì – e i cattivi – quelli del no.
Mentre non è chiaro ormai a cosa si riferisca la vetusta espressione “salotti buoni”, che finita l’era di Mediobanca non pare avere concreti riferimenti nel paese, è invece chiarissimo con chi se la prende Renzi nella contrapposizione tra quelli del sì e quelli del no.
I primi si identificano con coloro i quali, nell’immaginario del presidente del consiglio, aderiscono entusiasti alla via del cambiamento tracciata da lui medesimo, senza opporre inutili obiezioni o sollevare sgraditi dubbi.
I secondi, va da sé, sono invece coloro i quali obiettano, distinguono, criticano e, così facendo, dimostrano un’attitudine deplorevolmente recalcitrante rispetto alle luminose prospettive indicate dal governo.
Sono quelli che, anziché inghiottire contenti le “riforme” – qualsiasi cosa voglia dire questo termine, che ha smarrito ogni aggancio a precisi dati di realtà – pretendono di dire la loro, di suggerire alternative, di invocare (addirittura!) superiori competenze. Sono, insomma, i “gufi”, anzi meglio: i “gufi laureati”! espressione di nuovo conio varata a Milano e che avrà sicura fortuna presso gli estimatori del tirar dritto.
Nel suo evidente tentativo di ipersemplificare i conflitti e le complessità della vita associata, il presidente del consiglio sembra avviato verso l’utilizzo di un linguaggio sempre più smaccatamente populista: da un lato, i “salotti buoni”, in cui oscuri potenti tramano contro di lui, vengono evocati allo scopo di sollecitare la solidarietà del “popolo”, dei piccoli imprenditori, della classe media. Dall’altro, una falange di “sapientoni” sempre ostili, che antepongono i loro privilegi al bene del paese, sono dipinti per tirare dalla propria parte i “semplici”, per far apparire le opposizioni come minoritarie e passatiste. Alle quali si contrappongono i fiduciosi, i progressivi, i sani.
Quante volte in tragiche vicende del passato si è dovuto assistere a questo utilizzo sconsiderato del linguaggio per screditare chi la pensa diversamente, per costruire artificiose alleanze contro nemici immaginari?
E’ un linguaggio umiliante, per chi lo usa e per i cittadini che ne sono involontari destinatari; i quali vengono interpellati non come cittadini pensanti ma come “pubblico” suggestionabile mediante vaghe parole d’ordine e la creazione di barriere tra chi la pensa come il capo e chi invece no. In un mondo complesso e su temi ardui come il funzionamento della democrazia, nessuno ha la risposta giusta in tasca e tutti – “sapientoni” per primi – devono essere aperti al confronto. Ma certamente il linguaggio del populismo non è il linguaggio della democrazia.

IDEE E RAGIONI PER UN NO ALLA RIFORMA COSTITUZIONALE. - ALBERTO VANNUCCI

Idee e ragioni per un no alla riforma costituzionale

La ripresa dell’attività parlamentare dopo la pausa estiva pone al centro del dibattito pubblico la seconda lettura del disegno di legge di riforma della nostra Costituzione. Si tratta di uno snodo cruciale per il futuro della democrazia italiana: le scelte politiche operate nelle prossime settimane rischiano di inquinare in profondità il funzionamento delle nostre istituzioni rappresentative per decenni a venire. Eppure ampi settori dell’opinione pubblica sembrano vivere questa fase storica in una condizione di torpore, con un distacco misto a insofferenza. Hanno contribuito a quest’operazione di narcosi delle coscienze i toni e gli argomenti che hanno accompagnato l’iter della riforma: i media e il pubblico sembrano preoccuparsi soprattutto delle implicazioni contingenti delle votazioni parlamentari sulla stabilità dell’esecutivo o sul cangiante perimetro dei suoi sostenitori, mentre accuse di conservatorismo “reazionario” marchiano a fuoco chiunque cerchi di difendere la necessità di preservare equilibri istituzionali ed organismi politici di cui si postula invece la natura parassitaria e ridondante, opponendosi alla somma esigenza di verticalizzazione ed accelerazione dei processi decisionali dettata dal “tempo esecutivo” che stiamo vivendo.
Non ci riconosciamo in questa rappresentazione ingannevole, non è questa la natura della posta in palio. Per queste ragioni l’associazione Libertà e Giustizia, coerentemente coi suoi valori fondativi, intende moltiplicare il suo impegno per promuovere nel paese una riflessione pubblica sui rischi di un decadimento della qualità dei processi democratici indotto dall’eventuale approvazione della riforma. In coincidenza con l’avvio dell’iter di discussione del progetto di legge al Senato saranno dunque ospitate sul sito internet di LeG analisi critiche frutto della riflessione di autorevoli “maestri di pensiero”, studiosi, esperti. La nostra opposizione a questo disegno di legge, infatti, scaturisce da un insieme di idee e ragioni che possono e devono essere riaffermate con competenza e decisione nel discorso pubblico, per rianimare una discussione altrimenti sterile e dare coraggio ed argomenti alle forze politiche e sociali che ancora si frappongono alla sua definitiva approvazione parlamentare.
Si tratta di un contributo di pensiero distante anni luce della retorica della “costituzione più bella del mondo”. Nessuno reclama l’inviolabilità del nostro testo costituzionale, che ha limiti ben conosciuti. Respingiamo però radicalmente la prospettiva di questa accelerazione dissolutrice del fragile sistema di “pesi e contrappesi” istituzionali, oggi disegnato dalla nostra Costituzione, come risposta ineluttabile a una pretesa necessità di efficienza della “macchina legislativa”. Come ottenere più leggi in minor tempo e con un costo inferiore, per di più risparmiando al Paese inutili discussioni e faticosi compromessi, grazie a una nuova legge elettorale che definirà univocamente l’identità del leader – e del suo partito servente causa – cui saranno aggiudicati in esclusiva i corrispondenti poteri: questa parrebbe la stella polare che anima lo spirito riformatore dei nostri improvvisati padri costituenti.Verticalizzazione e personalizzazione del potere pubblico, accentramento di responsabilità sciolto da condizionamenti esterni, decisionismo esecutivo sono i pilastri del nuovo “ordine” istituzionale, nel quale contropoteri e vincoli fin qui efficaci fattori di reciproco bilanciamento – presidente della Repubblica, Corte costituzionale, magistratura, etc. – rischiano di essere via via disinnescati, imbavagliati, posti al guinzaglio dei vertici dell’esecutivo. 
Vengono i brividi al solo pensiero delle ricadute sulle nostre istituzioni democratiche qualora un ducetto xenofobo, ovvero a un plutocrate portatore di indicibili conflitti di interesse, intercettasse incidentalmente i consensi della soglia tutto sommato modesta di elettori sufficiente a investirlo di tale autorità.
Vi sono molte valide ragioni, tanto di natura sostanziale che di ordine procedurale, per contrapporsi con fermezza a questo progetto di riforma, ostinatamente portato avanti a colpi di maggioranze risicate. Di queste idee Libertà e Giustizia vuole farsi portatrice, discutendole in modo sereno e aperto nella convinzione di essere dalla parte giusta nella salvaguardia di valori fondamentali del nostro vivere civile. Ma è soprattutto sulla diagnosi dei mali della nostra democrazia che dissentiamo irriducibilmente con i fautori della riforma, giunta ormai alla fase finale del suo iter di approvazione.
La nostra democrazia non soffre di un deficit di efficienza decisionista, quanto piuttosto di una carenza di partecipazione e coinvolgimento popolare alle scelte politiche. 
Non occorrono più leggi, ma poche leggi di migliore qualità, o almeno intellegibili e univocamente interpretabili. Non occorre accelerarne la procedura di approvazione, quanto piuttosto avvicinarne i contenuti ai bisogni pubblici, o almeno – nei casi peggiori – limitare il danno che infliggono al bene comune, gravando soprattutto sulle fasce più deboli e inascoltate della popolazione. Per le stesse ragioni la riduzione del numero di senatori, o il taglio delle loro indennità, sono un ben misero specchietto per le allodole: al cuore della “questione democratica” in Italia si trovano piuttosto i meccanismi di selezione di quella stessa classe politica, da troppo tempo tarati per premiare sopra ogni altra cosa cortigianeria, sottomissione ai potenti, corruzione, affarismo, irresponsabilità.
La proposta di riforma costituzionale non risolve alcuno dei reali problemi della democrazia italiana, al contrario rischia di aggravarli seriamente: su quali libertà democratiche, su quali garanzie di giustizia potrà contare un popolo afono, posto di fronte a un potere pubblico che si andrà facendo sempre più distante, sfrontato, impermeabile a critiche e controlli?

giovedì 17 settembre 2015

IL MESSAGGIO DELL’IMPERATRICE. - ROBERTA DE MONTICELLI

Il messaggio dell’imperatrice


“La disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile”, ha scritto Corrado Alvaro. Non sono d’accordo. Non è la più grande. Ancora più grande fonte di disperazione è il dubbio che nessuna istituzione, nessuna legittima autorità, nessuna giurisdizione custodisca le norme dell’onestà, difendendoci dalle loro violazioni ma soprattutto, all’occorrenza, giudicandole. Distinguendo ciò che è onesto da ciò che non lo è – che sia punibile o no. Che si sia cancellata la grammatica e la logica del parlare onesto, cioè chiaro e distinto, dalla mente di tutte le maestre di scuola. Che non ci siano più affatto giudici, né a Berlino né a Roma. Che niente e nessuno custodisca il patto fondamentale che ci lega gli uni agli altri in una società attraverso l’assunzione dei nostri doveri e dei nostri diritti, il patto fondamentale di cittadinanza. Insomma, la disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che l’impero della legge sia crollato da un pezzo, e per questo il messaggio dell’imperatrice non ci è mai arrivato. Questo dubbio sta diventando certezza nell’Italia di oggi.
Forse era questo che intendeva Corrado Alvaro? Ma le parole sono importanti. Vivere onestamente è certamente inutile in moltissimi casi, anzi positivamente svantaggioso per l’onesto. Ma questa non è una buona ragione per rinunciare ad esserlo, dal momento che è ingiusto, cioè lesivo di ciò che è dovuto agli altri. Anzi: la speranza è salva ogni volta che è salva la legge, cioè la sua idealità: l’ideale non è il reale, e ogni violazione della norma, se è riconosciuta come tale, nutre la nostra riserva di idealità, cioè di speranza nella possibilità di una società più giusta. Ma ogni volta che la norma, metro di misura di ciò che è disonesto, si adatta al fare disonesto, un po’ dell’idea di giustizia si cancella dalla nostra coscienza, la nostra riserva di idealità si riduce, e la nostra speranza cala. Se l’autorizzazione a una modica quantità di frode fiscale diventa legge. Se un candidato ineleggibile a norma di legge esercita il potere con il beneplacito dell’autorità designata a far rispettare la legge. Se un decreto legislativo sulla certezza del diritto (!!) consente, purché rientri il capitale, “di mantenere la fedina penale immacolata, anche in presenza di ipotesi di reato comparabili a ricettazione e frode fiscale, con pene intorno ai 10 anni” (“Corriere della Sera”, 29 agosto 2015). Se un Presidente del consiglio irride a un’Istituzione della Repubblica, chiamata a tutelare il patrimonio artistico e paesaggistico, le Sovrintendenze. Se esprime disprezzo nei confronti dei cittadini che esercitano il loro dovere di critici nei confronti di chiunque sostituisca il proprio arbitrio al governo della legge, perché “bloccano il Paese”. In tutti questi casi e innumerevoli altri un pezzo della riserva di idealità su cui si regge il rule of law è consumato, e una congrua porzione di speranza, erosa.
Ebbene: con le riforme costituzionali in corso un enorme, ulteriore pezzo di idealità viene sacrificato a vantaggio della realtà, o della Realpolitik, o del “non ci faremo fermare da nessuno”, comunque vogliate chiamare l’espressione dell’arbitrio dell’uomo, anzi dei molti piccoli uomini interessati ai loro particolari vantaggi, invece che al bene pubblico. Attraverso una riforma del Senato che riduce a un “camerino” di interessi locali quella che la Costituzione italiana pensava come la Camera Alta (il suo Presidente è attualmente colui che esercita le funzioni di Presidente della Repubblica “in ogni caso in cui egli non possa adempierle”, Art. 86). Ma che, in combinazione con la legge elettorale approvata, riduce in modo drastico tanto la rappresentatività del Parlamento quanto la sua autonomia nei confronti dell’esecutivo, ed erode ulteriormente il fragile fondamento istituzionale della democrazia – la divisione dei poteri, il check and balance. Perché attraverso i meccanismi di elezione del Presidente della Repubblica e la riduzione di indipendenza della Corte Costituzionale rimette nelle mani dei piccoli arbitri dei piccoli uomini di fatto al potere la quasi totalità della decisione su ciò che “deve” essere. No, non ripeteremo con parole vaghe le obiezioni fulminanti e inascoltate che i migliori rappresentanti del Diritto e della sua scienza hanno rivolto al testo della riforma governativa, dove la forma è sostanza, e la forma, ahimé, è “sgrammaticata”. Ci limiteremo a concludere questa riflessione, che speriamo condivisibile dal maggior numero di cittadini.
E’ la giustizia, non l’utilità la misura della nostra disperazione. Meglio di Corrado Alvaro lo dice Kant: quando l’idea di giustizia ha finito di scomparire dalle nostre coscienze, non vale più nulla la vita di nessun uomo, su questa terra. Come appare, a chi la vive, una vita senza valore?
Guardatevi intorno o dentro. È uno stato depressivo, uno stato di assenza di speranza che, più che disperazione, si potrebbe chiamare indifferenza o apatia. Viene dall’erosione o dalla distruzione di alcuni dei più importanti beni della vita associata, come ad esempio la fiducia nelle istituzioni, la stima e il rispetto per chi esercita funzioni pubbliche, la certezza del diritto, il diffuso senso della legalità, l’esperienza dell’esistenza di un nesso fra competenze e funzioni, capacità e promozioni, crimine e pena. E, bene che li riassume tutti, il rispetto per l’Imperatrice, l’Idea o lo Spirito delle leggi – l’idealità di una Costituzione. Oggi chiamano tutti questi aspetti fiduciari della vita associata “capitale sociale”: ma si tratta delle condizioni perché sia riconosciuto il valore della vita di ognuno. La nostra Costituzione lo chiama “dignità sociale” (Art. 3).
Ma quando questo riconoscimento manca perché i legami fiduciari si spezzano, logorati dall’abuso di illegalità impunita, corruzione e menzogna, la “fede pubblica” – come la chiamava Leopardi – cala a zero, e con essa la partecipazione non solo alla vita civile e politica, ma infine alla cooperazione materiale e morale. E’ forse allora che le nazioni sono pronte a fallire, le civiltà a crollare. Perché una democrazia non è soltanto una forma di governo politico, è una civiltà fondata in ragione – la ragione pratica – e non in religione. La sfiducia nella ragione pratica è la fine della democrazia.

L’UMILIAZIONE DEL PARLAMENTO. - GUSTAVO ZAGREBELSKY

L’umiliazione del Parlamento

(Il Presidente emerito della Corte costituzionale e Presidente onorario di Libertà e Giustizia Gustavo Zagrebelsky rivolge un appello ai legislatori alla vigilia dell’ultima lettura della riforma costituzionale promossa dal governo. Sostengono l’appello il Presidente Alberto Vannucci, la ex Presidente Sandra Bonsanti  tutto il Consiglio di Presidenza di Libertà e Giustizia.)
Il funzionamento della democrazia è cosa difficile, stretto tra l’inconcludenza e la forza. Chi crede che si tratti di una battaglia che si combatte una volta ogni cinque anni in occasione delle elezioni politiche e che, nell’intervallo, tutto ti è concesso perché sei il “Vincitore”, si sbaglia di grosso ed è destinato a essere travolto, prima o poi, dal suo orgoglio, o dalla sua ingenuità, mal posti.
La prima vittima dell’illusione trionfalistica è il Parlamento. Se pensiamo che si tratti soltanto di garantire l’azione di chi “ha vinto le elezioni”, il Parlamento deve essere il supporto ubbidiente di costui o di costoro: deve essere un organo esecutore della volontà del governo. Altrimenti, è non solo inutile, ma anche controproducente.
Le riforme in campo, infatti, sono tutte orientate all’umiliazione del Parlamento, nella sua prima funzione, la funzione rappresentativa. Che cosa significano le leggi elettorali, che prevedono la scelta dei candidati attraverso le “liste bloccate” stilate direttamente dai capi dei partiti o attraverso la farsa delle cosiddette “primarie”, se non l’umiliazione di quella funzione nazionale: trionfo dello spirito gregario o del mercato dei voti. Il prodotto degradato, se non avariato, è davanti agli occhi di tutti. Così, mentre dalle istituzioni ci si aspetterebbe ch’esse tirassero fuori da chi le occupa il meglio di loro stessi, o almeno non il peggio, di fatto avviene il contrario. Queste istituzioni inducono alla piaggeria, alla sottomissione, all’assenza di idee, alla disponibilità nei confronti dei potenti, alla vigliaccheria interessata o alla propria carriera o all’autorizzazione ad avere mano libera nei propri affari sul territorio di riferimento. Per essere eletti, queste sono le doti funzionali al partito nel quale ti arruoli. Non devi pensare di poter “fare politica”. Non è più il tempo: il tempo è esecutivo!
Una prova evidente, e umiliante, dell’inanità parlamentare è la vicenda che ha agitato la vita politica negli ultimi due anni: la degradazione del Senato in Camera secondaria che dovrebbe avvenire col consenso dei Senatori. Si dice loro: siete un costo, cui non corrisponde nessun beneficio; siete un appesantimento dei processi decisionali, cui corrisponde non il miglioramento, ma il peggioramento della qualità della legislazione. Sì, risponde il Senato: è così. Finora siamo stati dei parassiti inutili e dannosi e siamo grati a chi ce ne ha resi consapevoli! Sopprimeteci!
Vediamo più da vicino questo caso da manuale di morte pietosa o suicidio assistito nella vita costituzionale.
A un osservatore non superficiale che non si fermi alla retorica esecutiva e “governabilitativa”, cioè ai costi (“Senato gratis”, è stato detto) e alla velocità (una deliberazione per ogni legge, invece di due), l’esistenza di una “seconda Camera” risulta bene fondata su “ragioni conservative”. Non conservative rispetto al passato, come fu al tempo delle Monarchie rappresentative, quando si pose la questione del bilanciamento delle tendenze anarcoidi e dissipatrici della Camera elettiva, propensa a causa della sua stessa natura a sperperare denaro e tradizioni per accattivarsi gli elettori. Allora ciò che si voleva conservare era il retaggio del passato. Oggi, di fronte alla catastrofe della società dello spreco, si tratterebbe dell’opposto, cioè di ragioni conservative di risorse e opportunità per il futuro, a garanzia delle generazioni a venire.
Il Senato come concepito nella riforma moltiplica la dissipazione. Se ne vuole fare un’incongrua proiezione amministrativistica di secondo grado di enti locali, a loro volta affamati di risorse pubbliche. A questa prospettiva “amministrativistica” se ne sarebbe potuta opporre una “costituzionalistica”. Nei Senati storici, le ragioni conservative corrispondevano alla nomina regia e alla durata vitalizia della carica: due soluzioni, oggi, evidentemente improponibili, ma facilmente sostituibili con l’elezione per una durata adeguata, superiore a quella ordinaria della Camera dei deputati, e con la regola tassativa della non rieleggibilità, come garanzia d’indipendenza da interessi particolari contingenti. A ciò si sarebbero potuti accompagnare requisiti d’esperienzacompetenza e moralità particolarmente rigorosi, contenuti in regole di incandidabilità, incompatibilità e ineleggibilità misurate sulla natura dei compiti assegnati agli eletti. Fantasie. I riformatori costituzionali pensano ad altro: a eliminare un contrappeso politico, ad accelerare i tempi. Non riuscendo a eliminare, puramente e semplicemente, un organo, che così come è si ritiene inutile, anzi dannoso, si sono persi in un marchingegno la cui assurda complicazione strutturale – le modalità di estrazione dei nuovi “senatori” dalle assemblee locali – e procedimentale – i rapporti con l’altra Camera – verrà alla luce quando se ne dovesse sperimentare il funzionamento.

FACCIAMO SENTIRE LA NOSTRA VOCE. - Lorenza Carlassare

FACCIAMO SENTIRE LA NOSTRA VOCE

E’ il momento di far sentire di nuovo, forte, la nostra voce. Il tempo, poi, non c’è più.
Difficile contare sui media : salvo poche eccezioni, l’adesione opaca al governo e ad ogni sua iniziativa è costante. Un diffuso senso di impotenza induce a vivere il presente così come arriva, accettandolo. In questo clima, i timori espressi da molti per democrazia e costituzionalismo – vanto delle ‘democrazie occidentali’ fino alla caduta del muro di Berlino – sono ormai visti con fastidio estremo, disturbi molesti sul cammino altrimenti felice del Presidente del Consiglio e dei suoi fedeli .
Per esorcizzare i gravissimi problemi aperti dalle molteplici riforme che toccano tutti i settori della nostra vita, per tacitare ogni richiesta di riflessione e confronto e soprattutto svilire chi osa parlarne, vengono acriticamente ripetute frasi banali : “turbolenze della minoranza” sono definite dal TG 3 le sofferte obiezioni dei cittadini e le richieste di dialogo in Parlamento mentre Italia Oggi considera “ la governabilità del paese, mai come oggi messa sotto scacco da combattive minoranze reazionarie”. Ecco : c’è sempre la ‘reazione’ in agguato, e ora siamo noi!
Sono esempi recenti, ma non certo i soli. Eppure i contenuti delle leggi di riforma ( costituzionali e non ) e il modo stesso della loro approvazione, che esclude ogni effettiva apertura, urlano il loro contrasto con i sistemi della democrazia.
Dopo che al meeting di CL “Matteo Renzi ha confessato pubblicamente di essere la prosecuzione del berlusconismo con altri mezzi” , Paolo Flores d’Arcais invita a riflettere sul perché “le straordinarie energie che l’antiberlusconismo aveva saputo suscitare nella società civile non abbiano trovato adeguata espressione politica”. Un interrogativo che inquieta visto che non si tratta solo di parole: “dalla giustizia all’informazione, dal lavoro alla riforma istituzionale, non c’è un solo elemento della lobotomizzazione della democrazia tentata da Berlusconi che Renzi non stia realizzando”. E, aggiungerei, la scuola.
Cosa sta succedendo?
Ripetere nel dettaglio cose già troppo ripetute sembra ormai inutile . Utile é, piuttosto, sintetizzare con le parole di Hans Kelsen, un grande giurista del secolo scorso, ciò cui dobbiamo con fermezza opporci: nulla “giustifica la sostituzione della definizione di democrazia come governo del popolo con una definizione dalla quale il popolo, come potere attivo, sia eliminato o sia mantenuto soltanto come fattore passivo in quanto è richiesta da parte sua l’approvazione di un leader, comunque espressa”. E’ proprio questo, nella sostanza, il senso del processo in corso. Ridurre il popolo senza voce o lasciargli la voce solo per acclamare.

I casi della vita. La buona scuola.



La fortuna è cieca ...ma la parentela ci vede benissimo.

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