venerdì 5 maggio 2017

Migranti sfruttati per lavori agricoli, 14 misure cautelari. Applicata nuova legge caporalato.

Foto d'archivio di una manifestazione contro il caporalato © ANSA

Venivano prelevati da due centri di accoglienza e usati in nero come braccianti e pastori.


I carabinieri del Comando provinciale di Cosenza stanno effettuando un'operazione di contrasto allo sfruttamento dei rifugiati ospitati nei centri di accoglienza. I militari stanno eseguendo, in particolare, 14 misure cautelari emesse dal Giudice per le indagini preliminari di Cosenza, Salvatore Carpino, su richiesta della Procura della Repubblica, nei confronti di altrettante persone accusate, a vario titolo, di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, abuso d'ufficio e tentata truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.
Le indagini che hanno portato all'operazione in corso, condotte dai carabinieri della Compagnia di Cosenza, erano iniziate a settembre del 2016 sotto la direzione del Procuratore aggiunto Marisa Manzini, e del sostituto procuratore Giuseppe Cava, ed il coordinamento del Procuratore della Repubblica Mario Spagnuolo.
Gli elementi raccolti dai militari hanno permesso di accertare che i rifugiati, principalmente senegalesi, nigeriani e somali, venivano prelevati da due Centri di accoglienza straordinaria di Camigliatello Silano (Cosenza) e portati a lavorare in campi di patate e fragole dell'altopiano della Sila cosentina o impiegati come pastori per badare agli animali da pascolo.
In particolare, il presidente e due responsabili della gestione di un centro di accoglienza risultano accusati di aver illecitamente reclutato i rifugiati loro affidati per essere impiegati in nero come braccianti e pastori in numerose aziende agricole del luogo, in concorso con i titolari di quest'ultime.
I responsabili del centro di accoglienza dovranno rispondere anche della manipolazione dei fogli presenza dei rifugiati, che venivano dati come presenti nel tentativo di ottenere i finanziamenti previsti dalla legge a sostegno della struttura di accoglienza. Il fenomeno ha riguardato complessivamente una trentina di rifugiati che sono stati sfruttati in nero per somme oscillanti tra i 15 e i 20 euro per una giornata lavorativa di 10 ore.
Nell'inchiesta della Procura della Repubblica di Cosenza che ha portato all'operazione dei carabinieri per la repressione del caporalato ai danni di migranti ospitati in due centri di accoglienza di Camigliatello Silano, viene contestato per la prima volta il nuovo reato di "intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro". Lo riferiscono, in una nota, i carabinieri. I militari, in particolare, stanno eseguendo due ordinanze di custodia cautelare in carcere, quattro ai domiciliari ed otto obblighi di dimora. I dettagli dell'operazione saranno resi noti nel corso di una conferenza stampa che si terrà alle 11 negli uffici della Procura della Repubblica di Cosenza alla presenza del Procuratore Mario Spagnuolo.
Leggendo queste notizie viene spontaneo dubitare della sincerità di chi finge di prestare aiuto a chi soffre e li sfrutta per trarne un profitto.
Non si può dare l'inferno a chi scappa da un inferno.

giovedì 4 maggio 2017

Migranti: da Csm ogni sostegno alle indagini di Zuccaro.

Il pm di Catania Carmelo Zuccaro © ANSA

Sarà la Prima Commissione del Csm a decidere se aprire una pratica a tutela del procuratore di Catania Carmine Zuccaro per gli attacchi ricevuti dopo la sua presa di posizione sulle ong impegnate nel soccorso sui migranti.


Il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro potrebbe essere chiamato a spiegare al Csm le sue parole sui presunti rapporti tra trafficanti di esseri umani e ong. Ma, almeno per ora, non corre il rischio di un trasferimento d'ufficio. Il Comitato di presidenza ha disposto l'acquisizione di atti, ma non l'apertura di una pratica per verificare l'eventuale incompatibilità di Zuccaro con il suo ruolo o con la sede in cui opera. Sulla convocazione del pm deciderà la Prima Commissione. 
A fronte del "frequente ripetersi" di "dichiarazioni ed esternazioni" da parte di magistrati che hanno creato "sconcerto" nell'opinione pubblica, il Comitato di presidenza del Csm ha disposto l'apertura di pratiche per "definire con urgenza linee guida nel rapporto con i media" e regole che consentano di intervenire "con efficacia" contro chi viola i doveri di "moderazione e continenza". Il duplice intervento è stato affidato alla Sesta e alla Settima Commissione. E in particolare le nuove norme dovranno servire al Csm a sanzionare presto e efficacemente "condotte ed esternazioni di magistrati che si caratterizzino per gravi ed evidenti violazioni dei canoni di moderazione, continenza e riserbo". Soprattutto quando si tratta di dichiarazioni rese sullo "sviluppo di indagini o procedimenti in corso che possono risultare di nocumento per la percezione dell'operato e del ruolo dell'ordine giudiziario o, talvolta, persino creare sconcerto nell'opinione pubblica, tanto da incrinare la fiducia dei cittadini nella giustizia".
Sarà la Prima Commissione del Csm - inoltre - a decidere se aprire una pratica a tutela del procuratore di Catania Carmine Zuccaro per gli attacchi ricevuti dopo la sua presa di posizione sulle ong impegnate nel soccorso sui migranti. La richiesta di un intervento a difesa del procuratore del laico di Fi Pierantonio Zanettin è stata infatti trasmessa dal Comitato di presidenza alla Commissione guidata da Giuseppe Fanfani (Pd). 
Il Csm assicurerà "ogni sostegno possibile" al procuratore di Catania Carmelo Zuccaro perchè le sue indagini "possano svolgersi con la massima efficacia e celerità", ha garantito il vice presidente Giovanni Legnini, dando conto delle decisioni del Comitato di presidenza.
Gentiloni, ogni energia contro trafficanti - "L'Italia, le istituzioni, la magistratura, le forze di sicurezza non risparmieranno alcuna energia per togliere ai trafficanti di esseri umani il monopolio dei flussi irregolari". Così il premier Paolo Gentiloni alla Conferenza internazionale dei/delle parlamentari "Le sfide di un mondo in movimento: uguaglianza di genere, agency delle donne e sviluppo sostenibile", a Montecitorio, nell'ambito del calendario della presidenza italiana G7. "Ringrazio tutti, volontari, guardia costiera, forze della Marina e dell'ordine ogni giorno impegnati nel soccorso e nella salvezza di vite umane, ogni giorno si salvano vite umane e un paese come il nostro non può che esserne fiero" ha aggiunto il premier.

martedì 2 maggio 2017

La concentrazione della ricchezza? Oggi come nel Medioevo. - Guido Alfani



Nel 2010 il 10% più ricco della popolazione dell’Europa occidentale deteneva il 64% della ricchezza complessiva. I livelli attuali di disuguaglianza di ricchezza sono molto simili a quelli di sette secoli fa.

Secondo una stima recente, nel 2010 il 10% più ricco della popolazione dell’Europa occidentale deteneva il 64% della ricchezza complessiva. 
Una situazione che rispecchia un livello di disuguaglianza elevato, purtroppo in crescita negli ultimi decenni, ma – si potrebbe pensare – perlomeno inferiore rispetto a quello sopportato dai nostri antenati. Purtroppo le cose stanno diversamente. Infatti, grazie al progetto EINITE - Economic Inequality across Italy and Europe, 1300-1800, finanziato dallo European Research Council, oggi disponiamo di stime della disuguaglianza economica a partire dal 1300 circa. Scopriamo quindi che i livelli attuali di disuguaglianza di ricchezza sono molto simili a quelli di sette secoli fa, considerato che alla vigilia della Peste Nera del 1348, il 10% più ricco della popolazione possedeva circa il 66% della ricchezza complessiva. 
Proprio la peste avrebbe innescato una fase di significativa e duratura riduzione della disuguaglianza, favorendo una crescita consistente dei salari reali e consentendo a strati più ampi della popolazione l’accesso alla proprietà. 
Sta di fatto, che a distanza di un secolo dalla peste, il 10% più ricco della popolazione deteneva meno del 50% della ricchezza complessiva (mentre il 50% più povero ne deteneva “addirittura” l’11%).

A quanto ne sappiamo al momento, in nessun periodo successivo la società italiana ed europea fu più egalitaria di quella del 1450 circa. In seguito, infatti, la disuguaglianza riprese a crescere, superando i livelli precedenti la Peste Nera attorno al 1700 e raggiungendo il massimo storico agli inizi del ventesimo secolo, quando il 10% più ricco della popolazione arrivò a possedere addirittura il 90% della ricchezza complessiva. Era la vigilia di un’altra terribile catastrofe, o per meglio dire della sequenza di catastrofi comprese tra le due Guerre Mondiali. 

Stando alle stime dell’economista francese Thomas Piketty, le cui ricerche coprono gli ultimi due secoli, al termine delle Guerre Mondiali la disuguaglianza si era ridotta in modo molto consistente. Tale tendenza sarebbe poi proseguita nei decenni successivi, con un minimo raggiunto attorno al 1980 quando il 10% più ricco deteneva solo il 59% della ricchezza complessiva. A partire da quella data, però, la disuguaglianza ha ripreso a crescere, tornando, come visto, ai livelli precedenti la Peste Nera.
Ovviamente, questo non significa che dobbiamo attendere una nuova catastrofe per ottenere una riduzione della disuguaglianza. Piuttosto, la storia ci dona un altro fondamentale insegnamento: se desideriamo avere una società meno diseguale, dobbiamo fare qualcosa per realizzarla. Un esempio riuscito sono le politiche redistributive e di welfare che caratterizzarono i decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, politiche che consentirono di contenere, e in parte invertire, quella che altrimenti sembrerebbe essere una tendenza della disuguaglianza a crescere costantemente.

Istat: sorpasso storico disoccupati over50 sui giovani.

Un operaio a lavoro © ANSA

Tasso di disoccupazione a marzo risale all'11,7%.

Il tasso di disoccupazione a marzo risale all'11,7% con un aumento di 0,1 punti rispetto a febbraio e di 0,2 punti rispetto a marzo 2016. Lo rileva l'Istat sulla base dei dati provvisori. I disoccupati nel mese erano a quota 3,022 milioni con un aumento di 41.000 unità rispetto a febbraio e una crescita di 86.000 unità rispetto a marzo 2016. Il dato è legato principalmente al calo dell'inattività 15-64 anni (-0,1 punti) che a marzo era al 34,7%. Il tasso di occupazione è al 57,6%, invariato su febbraio e in crescita di 0,6 punti su marzo 2016.
Occupati marzo -7.000 mese, +213.000 anno  Gli occupati a marzo sono diminuiti lievemente (-7.000 unità) rispetto a febbraio mentre sono cresciuti di 213.000 unità su marzo 2016. L'istituto sottolinea che nel mese gli occupati erano 22.870.000. Il tasso di occupazione a marzo era al 57,6%, invariato su febbraio e in crescita di 0,6 punti su marzo 2016. Si è registrata una crescita della forza lavoro. Gli inattivi nella fascia 15-64 anni sono diminuiti di 34.000 unità su febbraio e di 390.000 unità su marzo 2016.
Sorpasso storico disoccupati over50 su giovani - A marzo 2017 i disoccupati con più di 50 anni hanno superato per la prima volta dall'inizio delle serie storiche mensili (2004) il numero dei disoccupati giovani tra i 15 e i 24 anni. In questo mese i disoccupati con più di 50 anni erano 567.000 a fronte di 524.000 di coloro che hanno meno di 25 anni. Rispetto a febbraio i disoccupati 'anziani' sono aumentati di 59.000 unità, mentre i giovani in cerca di lavoro sono aumentati di 3.000 unità.
Disoccupazione giovani a marzo a minimi 5 anni - La disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni a marzo era al 34,1% ai minimi dai cinque anni. Per trovare un dato più basso infatti, rileva l'Istat sulla base dei dati provvisori, bisogna risalire a febbraio 2012 (33,4%). Il tasso di disoccupazione cala di 0,4 punti su febbraio e di tre punti su marzo 2016. Cresce anche il tasso di occupazione che in questa fascia di età tocca a marzo il 17,2% con un aumento di 0,4 punti su febbraio e di 0,8 punti su marzo 2016. Gli occupati under 25 sono 1.013.000 (+24.000 su febbraio +42.000 su marzo 2016.
Grazie a tutti quelli che ci hanno governato e vogliono continuare a farlo pur avendo ampiamente dimostrato di non esserne capaci.

domenica 30 aprile 2017

GLI ERRORI FATALI DEL FONDAMENTALISMO FINANZIARIO SPIEGATI DA UN PREMIO NOBEL. - William Vickrey

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Nel mese di ottobre 1996, il premio Nobel per l’Economia William Vickrey pubblicò un articolo che illustrava “I 15 errori fatali del fondamentalismo finanziario”: per esempio il sacro terrore del deficit e del debito pubblico, legato a erronee analogie tra comportamento economico del singolo e azione dello Stato. Queste fallacie sono rimaste ben vive – o meglio, sempre più vive – nel dibattito pubblico, e lo hanno anzi permeato, trovando un’applicazione concreta, dai risultati disastrosi, nelle regole di Maastricht. Per questo oggi abbiamo scelto di ripresentarne alcune, con la spiegazione del perché si tratta di ragionamenti sbagliati e – se tradotti in pratica – forieri di inutili sofferenze. Quelle che in un’eurozona intrappolata in questi errori, purtroppo, sono ormai evidenti agli occhi di tutti. 
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In campo economico, una grande parte delle teorie convenzionali oggi prevalenti negli ambienti finanziari, ampiamente utilizzate come base per le politiche governative, nonché pienamente accettate dai media e dall’opinione pubblica, si basa su analisi parziali, su ipotesi smentite dalla realtà e su false analogie.
Per esempio, si sostiene che sia bene incoraggiare il risparmio, senza prestare attenzione al fatto che, per quanto riguarda la maggior parte delle persone, favorire il risparmio significa scoraggiare il consumo e ridurre la domanda, e che una spesa fatta da un consumatore o da un governo è anche un reddito per i venditori e i fornitori, così come il debito pubblico è anche una risorsa. Altrettanto sbagliato è ritenere che ciò che è possibile o auspicabile per i singoli individui presi singolarmente sia ugualmente possibile o auspicabile per tutti  o per l’economia nel suo insieme.
E spesso sembra che l’analisi sia basata sul presupposto che la produzione economica futura sia quasi totalmente determinata da forze economiche inesorabili, indipendenti da qualsiasi strategia politica del governo, tanto che dedicare più risorse a un certo scopo porti inevitabilmente a sottrarle ad un altro. Questo potrebbe essere giustificabile in un’economia in completa piena occupazione o potrebbe essere in un certo senso convalidato supponendo che la Federal Reserve scelga e riesca a sostenere una politica di rigido mantenimento della disoccupazione al livello del suo tasso “naturale” o di “non accelerazione dell’inflazione”.  Ma nelle condizioni attuali non è né probabile né auspicabile che si riesca a ottenere un risultato simile.
Quella che segue è la lista di alcuni degli errori che derivano da questo modo di pensare. Presi nel loro insieme, stanno portando a politiche che nella migliore delle ipotesi ci tengono nella depressione economica, con tassi di disoccupazione generale bloccati tra il 5 e il 6 per cento. Questo sarebbe già abbastanza grave anche solo se provocasse una perdita del 10 – 15 per cento della nostra produzione potenziale ripartita uniformemente su tutte le categorie sociali: ma diventa gravissimo quando si traduce in una disoccupazione del 10, 20 e 40 per cento tra i gruppi sociali più svantaggiati; gli ulteriori danni in termini di povertà, disgregazione familiare, dispersione e abbandono scolastico, illegalità, uso di droghe e criminalità, diventano veramente pesanti. E se le politiche in questione saranno applicate fino in fondo insistendo sul “pareggio di bilancio”, possiamo aspettarci sicuramente una depressione grave. 
Il deficit pubblico danneggia le generazioni future?
Il deficit pubblico è considerato una spesa dissoluta e peccaminosa, fatta a scapito delle generazioni future, cui sarà lasciata una minore parte di capitale investito. Un errore che sembra derivare da una analogia sbagliata con i debiti contratti dai privati.
La realtà è quasi esattamente l’opposto. Il deficit si aggiunge al reddito netto disponibile dei cittadini, nella misura in cui le spese pubbliche, che costituiscono reddito per i loro destinatari, superano ciò che viene sottratto al reddito disponibile tramite imposte, tasse e altri oneri. Questo potere d’acquisto aggiuntivo, una volta speso, fornisce domanda aggiuntiva al mercato, spingendo i produttori a investire per aumentare la capacità produttiva degli impianti,  che sarà parte della vera eredità che rimane per il futuro.  Questo va ad aggiungersi a tutto ciò che gli investimenti pubblici rappresentano in infrastrutture, istruzione, ricerca e via dicendo. Maggiori deficit, sufficienti a rimettere in circolo la parte di risparmio – proveniente da un prodotto interno lordo (PIL) in crescita – che eccede quel che viene assorbito dagli investimenti privati a fini di profitto, non sono un peccato economico, ma una necessità economica. Quello che potrebbe causare problemi è un deficit in eccesso rispetto alle effettive possibilità di crescita in termini reali, ma siamo lontanissimi da questo scenario.
Del resto, anche prendendo per buona l’analogia con il comportamento dei singoli, le conclusioni sono assurde. Se a General Motors, AT&T, e alle singole famiglie fosse richiesto di avere il bilancio sempre in pareggio come è richiesto allo Stato, non esisterebbero le obbligazioni, i mutui, i prestiti bancari… mentre ci sarebbero molte meno automobili, telefoni e case. 
Incentivare il risparmio stimola la crescita?
Si sostiene che bisogna sollecitare o incentivare i singoli a risparmiare di più per stimolare gli investimenti e la crescita economica. Questa convinzione sembra derivare dal presupposto che il prodotto aggregato sia invariabile, cosicché ciò che non è destinato al consumo necessariamente e automaticamente viene dedicato alla formazione del capitale.
Anche in questo caso, in realtà è vero l’esatto contrario. In un’economia monetaria, per la maggior parte delle persone la decisione di risparmiare di più comporta la decisione di spendere di meno; ma meno spesa da parte del risparmiatore significa  meno reddito e meno risparmio per i rivenditori e i produttori; in questo modo il risparmio aggregato non viene aumentato, ma diminuito, perché rivenditori e produttori a loro volta riducono le loro spese, il reddito nazionale si riduce e con esso il risparmio nazionale. Un determinato individuo può infatti riuscire ad aumentare il proprio risparmio, ma solo a spese del reddito e del risparmio degli altri in misura anche maggiore.
Se il risparmio è costituito da una minor spesa per servizi, per esempio un taglio di capelli, l’effetto sul reddito e sul risparmio del fornitore è immediato ed evidente. Se riguarda una merce immagazzinabile, ci può essere un temporaneo investimento in magazzino, che però presto scomparirà, non appena il fornitore riduce le ordinazioni ai suoi fornitori per riportare il magazzino a un livello normale, il che porta infine a una riduzione della produzione, dell’occupazione  e del reddito.
Il risparmio non crea “fondi disponibili per il prestito” dal nulla. Non c’è alcun motivo di ritenere che l’accrescersi del conto in banca del risparmiatore aumenterà la capacità della sua banca di concedere prestiti più di quanto farà diminuire la capacità di concedere prestiti della banca del venditore. Se non altro, è più probabile che un venditore sia attivo sui mercati azionari o che usi il credito aumentato dalle vendite per fare investimenti nella sua attività, rispetto alla probabilità che un risparmiatore risponda a incentivi come l’esenzione o il differimento di imposte sui fondi pensione: l’effetto netto degli incentivi al risparmio è quindi quello di ridurre l’ammontare totale dei prestiti bancari. Gli incentivi al risparmio, con la corrispondente riduzione della spesa, non fanno nulla per migliorare la disponibilità delle banche e degli altri istituti di credito a finanziare progetti di investimento promettenti. Se c’è disponibilità di risorse non impiegate, il risparmio non è né un prerequisito né uno stimolo, ma una conseguenza della formazione di capitale, dato che il reddito generato dalla formazione del capitale fornisce una fonte di risparmio supplementare. 
Il debito pubblico “spiazza” gli investimenti privati?
Si sostiene che il debito pubblico provochi un “effetto spiazzamento” nei confronti degli investimenti privati.
La realtà è che, al contrario, la spesa dei fondi presi in prestito (a differenza della spesa del gettito delle imposte) genera reddito disponibile aggiuntivo, aumenta la domanda di prodotti dell’industria privata, e rende quindi gli investimenti privati ​​più redditizi. Finché ci sono risorse inutilizzate in abbondanza, se le autorità monetarie si comportano con buon senso (invece di cercare di contrastare il presunto effetto inflazionistico del deficit), chi ha la prospettiva di un investimento redditizio può essere messo in grado di ottenere finanziamenti. In queste circostanze, ogni dollaro aggiuntivo di deficit nel medio-lungo periodo produce due o più dollari aggiuntivi di investimenti privati. Il capitale creato è un incremento della ricchezza – e ipso facto anche del risparmio – di qualcuno. La regola dell’ ”offerta che crea la propria domanda” non funziona più non appena una parte dei redditi generati dall’offerta viene risparmiata: mentre sono gli investimenti che creano il proprio risparmio, e anche di più. Lo “spiazzamento” che può verificarsi è solo il risultato, non della realtà economica sottostante, ma di  reazioni restrittive inappropriate  da parte di un’autorità monetaria come risposta al deficit. 
Se i deficit continuano, il costo del debito alla fine travolgerà il fisco?
Prospettiva reale: mentre gli osservatori allarmati si appassionano a proiezioni da film dell’orrore, in cui il debito pro capite diventa insostenibile e il pagamento degli interessi assorbe l’intero gettito fiscale, o si perde la fiducia nella capacità o volontà del governo di realizzare una pressione fiscale  tale da poter piazzare le obbligazioni sui mercati a condizioni ragionevoli, degli scenari di maggior buon senso prevedono un effetto trascurabile o addirittura favorevole sui conti pubblici. Se si mantiene la piena occupazione in modo che il PIL nominale continui a crescere, diciamo, a un tasso del 6% – circa il 3% di inflazione e circa il 3% di crescita reale – il debito per mantenersi in equilibrio dovrebbe crescere del 6% o forse anche a un tasso leggermente più alto; se il tasso di interesse nominale fosse l’8%, il 6% sarebbe finanziato dalla crescita, e solo il 2% resterebbe da pagare attraverso il bilancio corrente. Le imposte sul reddito da capitale degli interessi in aumento  ne compenserebbero una gran parte, e i risparmi legati alla riduzione della disoccupazione, delle prestazioni assicurative e dei costi sociali sarebbero più che sufficienti a coprire il resto, anche senza calcolare il notevole aumento delle entrate fiscali dovuto a un’economia più prospera. Anche se gran parte di queste entrate finirebbero nelle casse dei governi statali e locali, piuttosto che del governo federale, la cosa si potrebbe sistemare attraverso trasferimenti intergovernativi. Un debito di 15.000 miliardi è molto più facile da gestire in un’economia di piena occupazione, con spese sociali e sussidi di disoccupazione notevolmente ridotti, rispetto a un debito di 5.000 miliardi con un’economia in stagnazione e la capacità produttiva in rovina. Semplicemente, il problema non esiste. 
Il valore della moneta nazionale in valuta estera o in oro è una misura della salute economica di un paese?
Il valore della moneta nazionale in termini di una valuta estera (o in oro) è ritenuto un indicatore della salute economica del paese, e si pensa che le azioni intraprese per mantenere questo valore contribuiscano alla salute dell’economia. In alcuni ambienti si coltiva una sorta di orgoglio sciovinista per il valore della propria moneta, oppure si può trarre soddisfazione dal maggiore potere d’acquisto della moneta nazionale nei viaggi all’estero.
La realtà: tassi di cambio liberamente fluttuanti sono il mezzo con cui si riequilibrano i diversi andamenti del livello dei prezzi nei differenti paesi, mentre gli squilibri commerciali sono riportati in linea grazie a flussi di capitali utili ad aumentare la produttività complessiva del capitale. Cambi fissi o tassi di cambio limitati entro una banda di oscillazione ristretta possono essere mantenuti soltanto attraverso politiche fiscali coordinate nei paesi coinvolti, o imponendo tariffe che compromettono l’efficienza o altre restrizioni sul commercio, od obbligando a pesanti forme di disciplina, che implicano  tassi di disoccupazione inutilmente alti, come avviene per il trattato di Maastricht. I tentativi di controllare i tassi di cambio attraverso manipolazioni finanziarie, a fronte di squilibri di base, di solito alla fine saltano, con grandi perdite per le istituzioni che ci hanno provato e corrispondenti guadagni per gli abili speculatori. Ma anche se non c’è un crollo, gran parte della volatilità dei tassi di cambio può essere ricondotta a speculazioni sulla possibilità di massicci interventi da parte della banca centrale.
Le restrizioni sui tassi di cambio, come quelle previste negli accordi di Maastricht, renderebbero praticamente impossibile per una piccola economia aperta, come la Danimarca, perseguire autonomamente una efficace politica di piena occupazione al proprio interno. Gran parte dell’aumento di potere d’acquisto generato da una politica fiscale di stimolo della domanda sarebbe speso in importazioni, spalmando l’effetto stimolante sul resto dell’unione monetaria, così che la capacità di indebitamento della Danimarca si esaurirebbe molto prima di poter raggiungere la piena occupazione. Con tassi di cambio flessibili, l’aumento della domanda di prodotti importati provocherebbe invece un aumento del valore della valuta estera, che terrebbe a bada l’aumento delle importazioni e stimolerebbe le esportazioni, in modo da mantenere in casa il grosso degli effetti di una politica espansiva. In un regime di cambio liberamente fluttuante, il pericolo di selvaggi attacchi speculativi nella circostanza di una politica di pieno impiego consolidata sarebbe molto diminuito, soprattutto se combinato con una terza dimensione di controllo diretto sul livello generale dei prezzi nazionali.
Allo stesso modo, la ragione principale per cui stati ed enti locali non possono perseguire una politica indipendente di piena occupazione, è che sono privi di una moneta autonoma, e sono costretti ad avere un tasso di cambio fisso con il resto del paese.
Se ne deduce che debito pubblico non è negativo se il valore aggiuntivo - costituito dal debito pubblico più il reddito netto dei cittadini - viene utilizzato in infrastrutture, istruzione e ricerca. Lo diventa se viene sperperato.
In pratica, se il valore del debito viene impiegato in qualcosa di utile, produce reddito anche nel privato.
Mi pare, inoltre, di capire che uno stato, se riesce a mantenere l'occupazione e a buoni livelli, riuscirebbe a mantenere stabilità anche nel debito pubblico riducendone, automaticamente, il peso del tasso di interesse.
Come sospettavo, da digiuna in materia economica, ma in possesso di materia cerebrale funzionante, ho la conferma che gli accordi stabiliti dalla UE sono deficitari in quanto non sono basati su politiche fiscali coordinate nei paesi coinvolti.
Infine, la mancata sovranità monetaria di uno stato, aggiunta ad un basso livello di occupazione, aggiunta ai cambi fissi o tassi di cambio limitati entro una banda di oscillazione ristretta, sottopongono lo stato stesso al pericolo di selvaggi attacchi speculativi. Come già successo alla lira nel 1992 ad opera di Soros.
In pratica, la Ue è nata male!

sabato 29 aprile 2017

Dov'è la sinistra?

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Scusate, sapete dirmi dov'è andata la sinistra? 
La cerco, ma non la trovo.....🤔😳☹️😭

ONG, Zuccaro, il mio parere.

Migranti, scontro nel governo, Gentiloni: "Grati a lavoro delle ong". Alfano: "100% ragione a pm Catania". Orlando: "Parlino atti giudiziari"

Se è vero ciò che afferma Zuccaro, c'è da rabbrividire; e non è la prima volta che l'uomo utilizza esseri umani come schiavi per trarne un profitto economico.
In ogni caso, ha fatto bene Zuccaro ad esprimere il suo pensiero pubblicamente, sappiamo come i governi propendano a coprire ed insabbiare faccende poco chiare dalle quale si evince quanto poco controllino il territorio o quanto amino stipulare accordi con organizzazioni di dubbia trasparenza legale per puro profitto economico o per il potere in se stesso.

Pare, inoltre, che alcune di queste ONG siano creature di Soros che, per chi ancora non lo conoscesse, è questo: 
https://it.wikipedia.org/wiki/George_Soros, per cui viene spontaneo dubitare che le sue non operino in nome dell'altruismo, della magnanimità, della benevolenza e della trasparenza.

C'è da prendere le distanze da chi commette reati e da chi permette che vengano impunemente commessi. 
Ed ogni giorno aumentano i motivi per farlo.