sabato 5 dicembre 2020

Aiuti alla classe media colpita dalla crisi? Con un mini-contributo di 3mila super-ricchi arriverebbero 10 miliardi. Ecco la simulazione. - Mauro Del Corno

 

Cosa succederebbe se si applicasse in Italia la proposta della senatrice Usa Elizabeth Warren, cioè un prelievo mini del 3 per cento a chi ha una ricchezza superiore ai 50 milioni? A ilfatto.it l'economista Emmanuel Saez (autore insieme a Gabriel Zucman de "Il trionfo dell'ingiustizia") spiega a come dovrebbero essere utilizzati i fondi raccolti con un prelievo sulle grandissime ricchezze. Nessun approccio punitivo o confiscatorio ma semplicemente un'azione redistributiva, dopo che negli ultimi decenni il fisco si è evoluto a vantaggio dei più ricchi e a svantaggio dei meno abbienti. L'iniquità è talmente esasperata che ormai persino il Fondo monetario internazionale spinge per un'azione di questo tipo e come questa ipotesi sia molto più praticabile di quanto non si creda.

Un divario che si allarga, in Italia come in Europa. Sempre più in alto l‘Olimpo dei ricchissimi, sempre più in basso la terra di tutti gli altri. Una tendenza che la pandemia ha accentuato, in tutto il mondo. Nel nostro paese il 53% dei redditi non deriva dal lavoro ma da profitti realizzati attraverso varie tipologie di investimenti. Eppure la pressione fiscale è molto più concentrata sui primi che sui secondi. Lo stesso avviene, in diverse misure, in tutte le economie avanzate. Una dinamica che nuoce alla crescita economica ed esaspera conflitti sociali, tanto che ormai anche organizzazioni come il Fondo monetario internazionale o l’Ocse auspicano interventi redistribuitivi a favore della classe media.

Una delle proposte che sta incontrando i maggiori favori è quella dei due economisti Gabriel Zucman ed Emmanuel Saez. Concepita per il sistema statunitense, ipotizza un’imposta del 2% sui patrimoni che superano i 50 milioni di dollari e del 3% per le ricchezze al di sopra del miliardo di dollari. Il gettito stimato è di circa 100 miliardi di dollari l’anno. La senatrice democratica Elizabeth Warren ha inserito la proposta nel suo programma elettorale, amplificandone la risonanza internazionale. Fatte le debite proporzioni, i risultati sarebbero importanti, ed utili per dare sollievo alla classe media, anche in Italia.

Se l’imposta fosse applicata in Italia – Proviamo quindi a traslare la proposta di Zucman e Saez nel contesto italiano. Avere numeri accurati è difficile. Neppure Banca d’Italia, che pure redige periodicamente la sua indagine sulla ricchezza delle famiglie italiane, dispone di dati disaggregati relativi alla sola fascia di patrimoni individuali dai 50 milioni in su. Dobbiamo quindi ricostruire il quadro per via “indiziaria”. Secondo la rivista Forbes, e altre pubblicazioni che effettuano indagini simili, nel nostro paese esistono una quarantina di individui con un patrimonio che supera il miliardo di euro. A loro fa capo complessivamente una ricchezza di circa 140 miliardi di euro. Un prelievo del 3%, come previsto dal “piano Warren” , frutterebbe 4,2 miliardi di euro l’anno. L’ultimo rapporto sulla ricchezza globale di Credit Suisse indica poi in 2.774 il numero di italiani con una ricchezza che supera i 50 milioni di euro. Con un’ipotesi estremamente conservativa, ipotizzando che tutti questi soggetti abbiano la ricchezza minima per entrare in questa categoria, si tratta di una ricchezza complessiva di 138 miliardi di euro. In questo caso il prelievo del 2% frutterebbe un gettito di circa 3 miliardi. Una valutazione più realistica, che ipotizza un valore medio della ricchezza di questi 2,774 cittadini di 100 milioni, alza però l’asticella a 6 miliardi. Insomma da una “patrimoniale alla Warren” in Italia potrebbero arrivare una decina di miliardi di euro l’anno. Significherebbe impoverire i ricchi? Assolutamente no, perché i grandi patrimoni producono rendimenti annui superiori, a volte di molto, a quelli del prelievo proposto. I ricchi continuerebbero insomma ad arricchirsi, soltanto lo farebbero meno velocemente e contribuendo un po’ di più al benessere collettivo.

Saez: “con il gettito aiutare la classe media” – Quale sarebbe il modo migliore di utilizzare questo gettito? Lo abbiamo chiesto direttamente ad Emmanuel Saez, che insegna economia all’università californiana di Berkeley e con Gabriel Zucman ha scritto il libro “Il Trionfo della Giustizia”. “La ricchezza è distribuita in modo estremamente diseguale, ancora di più di quanto avviene con il reddito, pertanto, abbinare una tassa sul patrimonio a politiche che promuovano la creazione di ricchezza per le classi lavoratrici e medie è il modo più efficace per ridurre la disuguaglianza. Mi riferisco in particolare ad interventi come aiuti per chi acquista la casa, incentivi a risparmiare per la pensione”. Saez fa poi una proposta più ambiziosa: ” si potrebbe anche assegnare ad ogni giovane adulto una dotazione una tantum per iniziare la vita, pagarsi gli studi o avviare un’attività. Una possibilità che sarebbe particolarmente adatta per un paese come l’Italia, dove la ricchezza è concentrata in gran parte nella parte più anziana della popolazione”.

Uno dei problemi che immediatamente si affacciano quando si parla di un nuovo prelievo è quello delle scappatoie che verrebbero escogitate per sottrarvisi. Una tassa di questo tipo è più efficace se concepita a livello transnazionale, magari per l’intera Unione europea. Tuttavia non è impensabile che uno stato inizi a muoversi per conto proprio. “Una tassa patrimoniale può avere successo solo se è ben progettata e applicata per rendere difficile l’evasione”, spiega Saez. “Sinora le imposte patrimoniali europee sono state facili da evitare o da evadere, spostandosi all’estero o nascondendo i beni nei paradisi fiscali. Ma esistono modi per bloccare queste scappatoie”. Ad esempio, continua l’economista ” si può guardare ad alcune esperienze statunitensi. In primo luogo, la tassa patrimoniale potrebbe essere concepita in modo da rimanere in vigore per un certo numero di anni dopo il trasferimento all’estero. Le tasse americane seguono i cittadini statunitensi ovunque vadano e la rinuncia alla cittadinanza è accompagnata da una grande tassa di uscita. In secondo luogo, i paradisi fiscali sono ora tenuti a segnalare i conti degli stranieri alle autorità fiscali dei proprietari dei conti. Attualmente sono oltre 100 i paesi che stanno adottando lo scambio automatico di informazioni. Grazie a questi sviluppi, l’attuazione di un’imposta patrimoniale è possibile anche a livello di singolo paese”. Un ostacolo più concreto potrebbe essere rappresentato dal fatto che imposte di questo tipo di necessitano di un’amministrazione fiscale estremamente efficiente, in grado di scovare ricchezze nascoste dietro veicoli societari.

Nessuna punizione o persecuzione ma semplice equità –Economisti come Thomas Piketty o il premio Nobel Peter Diamond hanno pubblicato studi in cui si dimostra come le patrimoniali risultino più efficaci delle imposte sui redditi per ridurre le disuguaglianze. Una tassa sulla ricchezza oggi serve più di ieri perché, quasi sempre, i possessori dei più grandi patrimoni hanno redditi tassabili bassi, grazie a trattamenti fiscali particolarmente agevolati e architetture fiscali che consentono di schivare i prelievi. Nel nostro paese queste imposte sono però state sempre concepite come una soluzione estrema per fronteggiare emergenze, mai come uno strumento redistributivo. E’ invece in questo modo che un prelievo a carico dei ricchissimi dovrebbe essere inteso. In quest’ottica non avrebbero senso obiezioni del tipo “un’altra tassa”, poiché quanto prelevato da un numero piccolissimo di contribuenti servirebbe ad alleggerire carichi fiscali che riguardano gran parte dei cittadini. Tanto meno hanno senso i timori per cui una più alta tassazione su questi soggetti possa avere effetti negativi per la crescita economica: secondo diversi studi l’aliquota media ottimale, ai fini della crescita, sui redditi dei contribuenti più ricchi sarebbe del 60%. Una tassa sul patrimonio non farebbe altro che riavvicinare, molto marginalmente, il prelievo attuale a quello ottimale per la società nel suo complesso. A maggior ragione in una fase storica in cui la quota di ricchezza che finisce al capitale sta progressivamente sopravanzando quella dei redditi da lavoro. Le considerazioni “etiche” si sgretolano se si guarda alla provenienza delle grandi ricchezze, quasi sempre, in Italia più che altrove, ereditate e sottoposte ad una tassazione sulle successioni irrisoria. Dopo Grecia e Gran Bretagna, l’Italia è il paese europeo con la più forte diseguaglianza.

Un fisco sempre meno equo – Negli Usa le aliquote che gravano sui miliardari sono oggi più basse di quelle sul reddito di un operaio o di un impiegato. E’ l’esito finale di un progressivo smottamento del sistema fiscale iniziato a metà degli anni ’70. Un esempio su tutti. Il finanziere Warren Buffett, che a parole si spende molto a favore di una maggiore equità del prelievo, nei fatti versa al fisco circa 2 milioni di dollari l’anno. Tanto? E’ lo 0,05% del reddito che in media ogni anno ricava dal suo immenso patrimonio finanziario. Come se una persona che guadagna 20mila euro lordi all’anno pagasse ogni anno in tasse…..10 euroIn Europa non siamo ancora arrivati a questo punto, ma la direzione è la stessa. Nel 1990 il 10% più ricco della popolazione dell’Europa occidentale possedeva il 30% del totale della ricchezza. Oggi il 35%. Per contro il 50% della popolazione è scesa dal 24 al 21%. Come in tutti sviluppati le aliquote più alte sui redditi si sono fortemente ridotte (72% in Italia nel 1983, 43% oggi) mentre quelle sui redditi più modesti sono aumentate.

La pandemia ha ulteriormente favorito i molto ricchi – La ricchezza finanziaria (quote di fondi comuni, azioni, obbligazioni etc) è estremamente concentrata tra le fasce più ricche della popolazione. In Italia il 10% più ricco della popolazione possiede ad esempio il 52% degli asset finanziariLe politiche monetarie estremamente espansive che le banche centrali stanno attuando da anni e che si sono ulteriormente rafforzate nei mesi della pandemia spingono al rialzo il valore di questi asset. E’ il motivo per cui in tutto il mondo, dagli Stati Uniti, all’Europa, alla Cina, i miliardari hanno visto aumentare la loro ricchezza anche nel pieno dell’emergenza sanitaria.

Persino il Fondo monetario internazionale…– la situazione ormai è talmente distorta che persino il Fondo monetario internazionale si è apertamente schierato a sostegno di un maggiore tassazione sulla ricchezza. Già lo scorso gennaio la direttrice Kristalina Georgieva ha scritto “Disuguaglianza di opportunità. Disuguaglianza tra generazioni. Disuguaglianza tra donne e uomini. E, naturalmente, disuguaglianza di reddito e ricchezza. Sono tutti presenti nelle nostre società e – purtroppo – in molti Paesi stanno crescendo. La tassazione progressiva è una componente chiave di una politica fiscale efficace. In cima alla distribuzione del reddito, la nostra ricerca mostra che le aliquote fiscali marginali possono essere aumentate senza sacrificare la crescita economica “. Con la sua ultima legge di bilancio la Spagna ha iniziato un percorso in questa direzione, aumentando del 3% il prelievo sui redditi da capitale.

Una diseguaglianza eccessiva è letale per la crescita economica e per i delicati equilibri finanziari globali. Banalmente i ricchi consumano, in proporzione, meno dei poveri. Questi ultimi spendono più o meno tutto il reddito di cui dispongono, i primi solo una parte. Sale quindi la quota di ricchezza che viene risparmiata. Se l’ammontare di questi risparmi supera le capacità di un loro impiego produttivo da parte di un’economia, i soldi finiscono per alimentare bolle nel valore di immobili e prodotti finanziari e contribuiscono a creare disequilibri nei conti con l’estero

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/11/24/aiuti-alla-classe-media-colpita-dalla-crisi-con-un-mini-contributo-di-3mila-super-ricchi-arriverebbero-10-miliardi-ecco-la-simulazione/5987427/

Eurointelligence - Dobbiamo parlare del debito dell'Italia. - (Pubblicato da Carmenthesister )

 

Wolfgang Munchau, il prestigioso editorialista del Financial Times direttore del sito Eurointelligence, auspicando una discussione franca e aperta, dice esplicitamente ciò che il governo italiano tenta maldestramente di nascondere, e cioè che i lavori per la riforma del MES hanno il preciso obiettivo di apparecchiare la prossima ristrutturazione del debito italiano, quando le regole di bilancio verranno ripristinate mentre l'economia italiana ancora si troverà al palo. Suggerisco in proposito l'ottimo commento di Liturri su Startmag e aggiungo un caloroso augurio al Governo che avremo nel 2023, di condurre con successo la nave Italia in queste acque pericolose.   

Newsbriefing, 27 November 2020

Quando David Sassoli, Presidente del Parlamento europeo, ha lanciato l'idea che la BCE cancellasse il debito pubblico contratto a seguito delle misure di sostegno economico del Covid-19, in Germania c'è stata una prevedibile reazione di indignazione. Ora la proposta è stata raccolta da Riccardo Fraccaro, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio di Giuseppe Conte, in un'intervista a Bloomberg che rilancia la questione in maniera importante, pur se la proposta non arriva direttamente da Conte. Ma le reazioni negative sono state immediate. Christine Lagarde ha rifiutato di rispondere a una domanda in proposito, dicendo che la proposta è chiaramente illegale. Siamo d'accordo. Ma la proposta italiana nasce da un giustificato timore delle conseguenze che si avranno per l'Italia quando la Bce ritirerà il sostegno ai titoli di Stato della zona euro, e soprattutto quando verranno ripristinate le regole fiscali. Sembra probabile che ciò accadrà entro il 2023. Sembra inevitabile che il debito pubblico italiano finirà per dover essere ristrutturato. Una delle proposte di Fraccaro era quella di trasformare il debito pandemico in obbligazioni perpetue. Sarebbe di per sé una forma di ristrutturazione del debito.

Per dare alcune cifre, il parere della Commissione europea sul documento programmatico di bilancio dell'Italia, pubblicato la scorsa settimana, prevede che il rapporto debito pubblico / PIL si stabilizzi nel 2021 appena al di sotto del 160% del PIL, in aumento di 25 punti percentuali rispetto alla fine del 2019. Le previsioni del bilancio italiano sono un po' più ottimistiche e prevedono che il debito scenderà ai livelli del 2019 entro il 2031. Si tratta in realtà di un ritmo sostenuto di riduzione del debito, di circa 2,5 punti percentuali all'anno, che però non sarà sufficiente a rispettare il limite dell'indebitamento.

Il Fiscal Compact prevede che il debito superiore al 60% del PIL dovrebbe essere portato a quel livello nell'arco di 20 anni. Partendo da un rapporto debito / PIL del 160%, ciò significa una riduzione del debito del 5% all'anno per 20 anni. È il doppio del ritmo previsto dal governo italiano, per il doppio del tempo. È molto probabile che sia impraticabile. La crescita del PIL nominale dell'Italia non è superiore al 3% da oltre 10 anni, quindi una riduzione del debito annuo di 5 punti percentuali richiede che il governo abbia un avanzo di bilancio del 2% del PIL con un'economia che cresce alla stessa velocità registrata in un qualsiasi anno dalla crisi finanziaria globale ad oggi, quando si sono avuti deficit superiori al 2% del PIL. Qualsiasi percorso di riduzione del debito del governo italiano per il prossimo decennio, anche il più agevole, richiederebbe al governo di mantenere un avanzo di bilancio nominale.

Quindi, non appena le regole fiscali saranno ripristinate, l'Italia si ritroverà in violazione dei vincoli di debito e soggetta a una procedura per disavanzo eccessivo, con la necessità di effettuare un aggiustamento strutturale di forse 4 punti percentuali del PIL. Anche se fosse possibile, con ogni probabilità questo ridurrebbe la crescita e allontanerebbe ulteriormente l'obiettivo del debito. Senza gli acquisti di titoli della BCE, che la banca centrale non potrebbe giustificare con la pandemia ormai sotto controllo, i rendimenti dei titoli italiani potrebbero aumentare di nuovo, aggravando il servizio del debito e rendendo più difficile per il governo italiano raggiungere i suoi obiettivi di riduzione del debito.

Come abbiamo già osservato, anche il governo italiano sta valutando una ristrutturazione del debito con la proposta di Fraccaro di trasformare il debito pandemico in obbligazioni perpetue. Nella zona euro una ristrutturazione del debito pubblico è avvenuta solo in Grecia, con un procedimento ad hoc. Da allora il Consiglio ha lavorato alla riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) per creare un meccanismo per la ristrutturazione del debito. Ad esempio, nelle emissioni del debito pubblico europeo sono state introdotte delle clausole di azione collettiva. Queste prevedono le cosiddette clausole “single limb”, che consentono con un singolo voto di ristrutturare tutto il debito per tutti i creditori, piuttosto che avere voti separati per emissioni di debito separate. Il significato  sotteso a tutti questi sforzi è stato quello di gettare le basi per una ristrutturazione del debito italiano, senza dirlo esplicitamente. Il governo italiano lo sa, e ha ritardato il più possibile i lavori, a volte bloccando l'accordo sulla riforma del MES sfruttando le divergenze politiche, ad esempio sull'unione bancaria.

La ristrutturazione del debito italiano è una delle questioni politiche più spinose che non solo l'Italia, ma la zona euro e l'UE nel suo insieme, si trovano davanti. Un programma del MES in Italia sarebbe un anatema. Per quanto queste questioni siano difficili, è ora che si svolga una discussione politica onesta, preferibilmente senza toni moralistici. Ma non stiamo col fiato sospeso....

http://vocidallestero.blogspot.com/2020/11/eurointelligence-dobbiamo-parlare-del.html


Filantrocrazia e marketing della sofferenza: le nuove frontiere dell’imbarbarimento. - Guido Carlomagno

 

Chiunque abbia avuto la sventura di cadere nelle grinfie dei diabolici algoritmi di targetizzazione pubblicitaria, avrà notato come pochi minuti di scorrimento della propria bacheca social siano sufficienti per essere inondati da un fiume di spot finalizzati a promuovere azioni di beneficienza di vario tipo, tendenzialmente a scopo umanitario. Il trend è in sensibile e quasi fuori controllo aumento negli ultimi anni. Sempre più frequente è anche l’utilizzo di immagini di bambini – spesso sofferenti – dal forte impatto emotivo, così come la veicolazione di messaggi dai toni perentori ed emergenziali, se non addirittura imploranti.

Si prendano questi due disperati appelli aventi ad oggetto dei bambini gravemente malati:

“La mia ***** ha solo 4 anni e soffre di un tumore allo stomaco che si propaga fino alla sua testa. Le condizioni della mia primogenita, la mia adorata bambina, stanno peggiorando giorno dopo giorno e la sua unica possibilità di salvezza è quella di sottoporsi a cure dispendiose che io semplicemente non posso permettermi, non ho soldi per salvarle la vita! Il mio cuore si spezza guardando la mia piccola bambina coraggiosa tremare dopo la chemioterapia, piangere per il dolore provocatole dall’ennesimo trattamento. Non posso continuare così.  La mia ***** ama la vita, ama la sua piccola sorellina e la nostra piccola famiglia. E non ci penso nemmeno ad arrendermi. Vi chiedo di non ignorare questo messaggio, lei vuole vivere!”

 

 

“Dio, il mio unico figlio sta combattendo per la sua vita e non c’è nulla che io possa fare per aiutarlo. Vi imploro con le mie mani giunte di donare e salvare mio figlio altrimenti condannato a morire. Ha solo 4 anni, soffre di una letale forma di tumore del sangue.”

 


O questi spot dedicati alle questioni della povertà e della malnutrizione, talvolta messe in relazione con la crisi climatica, recanti immagini di bambini sofferenti al fianco di esortazioni come “Solo tu puoi salvarli” o “Hanno bisogno del tuo aiuto, ora!”.

 

 

Qui si affronta invece il problema della carenza di strumenti medici e assistenza sanitaria, comunicando il nome dei bambini ritratti negli spot per creare maggiore empatia nel destinatario del messaggio e alludendo addirittura a cure che “solo” il potenziale benefattore potrebbe contribuire a donare.

 

 

Ci sono poi numerosissimi spot dedicati a una variegata serie di altre cause, fra cui quella per la ricerca sulle malattie rare e quella per l’accesso all’istruzione, che non differiscono tuttavia dai precedenti in quanto a esposizione dei bambini, toni e contenuti dei messaggi.

 

 

La musica non cambia sui maggiori canali televisivi, i cui costosissimi spazi pubblicitari (in Italia una campagna di dimensioni medie con passaggi da 30 secondi sulle reti Rai o Mediaset richiede un investimento intorno ai 250-300.000€) sono sempre più colonizzati dagli spot umanitari promossi dalle medesime organizzazioni, che evidentemente riservano una parte non trascurabile dei fondi raccolti all’acquisto di tali spazi.
Anche in questo caso, i bambini sono l’oggetto principale degli spot e i messaggi sono altrettanto incalzanti: si va dagli “appelli urgenti” per “migliaia di bambini che stanno morendo di polmonite” ad asserzioni come “la vita dei bambini è in grave pericolo a causa della siccità e dell’emergenza climatica”. Frasi ad effetto come “milioni di bambini oggi non hanno mangiato e andranno a letto con la pancia vuota” o come “i loro bambini non camminano, non giocano e non vivono come gli altri” sono usate con estrema disinvoltura.

Disclaimerl’articolo non mira a esprimere giudizi di merito sul lavoro delle numerosissime organizzazioni internazionali operanti nel settore della carità, né vuole entrare nel dibattito –pur florido – sulle modalità di gestione e indirizzo delle somme raccolte. Non si esclude che nella grande maggioranza dei casi l’attività delle stesse sia mossa da intenti genuini e sia svolta in maniera regolare. E sia – in un contesto come quello attuale – utile se non addirittura indispensabile, rispondendo all’esigenza di rattoppare ove possibile le enormi falle di un sistema economico sempre più disumano e disfunzionale.
Tanto meno si vogliono in alcun modo esortare le persone a boicottare queste raccolte fondi, né più in generale a non compiere atti di beneficienza, nella profonda convinzione che ogni azione caritatevole abbia di per sé connotati del tutto nobili e commendevoli. 

Tanto premesso, l’obiettivo dell’articolo è piuttosto quello di affrontare alla radice la questione e stimolare una riflessione scomoda sui profili di razionalità, equità e giustizia del modello di gestione dei rapporti sociali oggi dominante, del quale la forte espansione del settore della carità rappresenta solo un effetto dal grande valore simbolico, che dovrebbe segnalarne alcune gravi carenze strutturali. Questo per far sì che la meritoria scelta di donare sia auspicabilmente accompagnata da una maggiore comprensione del quadro di insieme e soprattutto che accanto al sentimento di compassione suscitato dalla fruizione degli spot sorga un ancor più profondo senso di indignazione per lo stato attuale delle cose, ancor meglio se canalizzato verso chi quelle cose dovrebbe avere la responsabilità di cambiarle.

Venendo subito al nocciolo della riflessione, può una civiltà auto proclamatasi progredita come quella contemporanea accettare di buon grado che la vita di una povera creatura come quella ritratta nel primo post condiviso sia appesa all’esito di una catena di Sant’Antonio sponsorizzata da un’impresa privata e veicolata attraverso un social network privato? Che la risoluzione dei problemi di malnutrizione e assenza di cure mediche nelle zone più svantaggiate del pianeta sia affidata al buon cuore di privati cittadini e alla loro disponibilità e propensione ad attingere ai propri risparmi per partecipare a collette estemporanee promosse mediaticamente? Come si può affidare al randomico senso di pietas dei potenziali donatori la sorte di bambini e intere popolazioni? Sono domande non certo originali, che verosimilmente a molti è capitato almeno una volta di porsi, ma che troppo spesso si accetta di ignorare.
Ancora, come si possono tollerare livelli sempre più oppressivi e assillanti di estetizzazione della sofferenza, delle malattie, della povertà, in una deriva quasi iconoclasta caratterizzata da una progressiva scomparsa del senso del pudore? Secondo chi promuove questo tipo di marketing comunicativo, il fine ultimo di massimizzare i fondi raccolti giustificherebbe qualsiasi mezzo utile a suscitare il più alto senso di pietà, commozione, compassione nei destinatari dei messaggi. Ma, oltre il piano estetico, quei messaggi mirano soprattutto a generare, seppur in maniera subliminale, un profondo senso di colpa, che aumenta ulteriormente la propensione all’atto di beneficienza. Questo processo di colpevolizzazione di massa è perfettamente funzionale all’affermazione del pensiero oggi dominante, che induce a fare paragoni al ribasso piuttosto che al rialzo (ricordando che c’è sempre qualcuno che sta peggio), a considerare i diritti fondamentali un privilegio calato dall’alto per cui essere grati e riverenti, contribuendo in tal modo a inibire ogni moto di indignazione per le condizioni di degrado che vengono così brutalmente spettacolarizzate.

Gli spot umanitari sono fredda registrazione del fatto, scevra da ogni giudizio di legittimità o giustizia: come da ossessivo mantra contemporaneo, povertà e carenza di risorse sono elevati al rango di totem, esistono in natura, sono un tratto ineludibile del sistema economico, cui non si può porre rimedio in via permanente attraverso azioni collettive sul piano politico, ma che va affrontato all’insegna della contingenza, caso per caso, con il decisivo apporto dei più “fortunati”, i quali hanno l’implicito obbligo morale di mettersi una mano sulla coscienza e supportare quel singolo bambino o quella singola regione o quella singola causa, lasciando che (forse, se capita, ove esista l’interesse dell’organizzazione umanitaria di turno) altri si occupino delle altre.

Ma i destinatari degli spot non sono solo coloro che si trovano all’apice della piramide sociale. Gli spot sono rivolti indistintamente a tutti, quindi il “fortunato” chiamato a donare è di fatto chiunque abbia il “privilegio” – nientepopodimeno – di non fare la fame come i bambini esibiti negli spot. Ora, esattamente con quale faccia, in tempi caratterizzati da un progressivo impoverimento di fasce sempre più ampie di popolazione anche nei paesi sviluppati e da un trend di polarizzazione nella distribuzione della ricchezza senza precedenti, si ha l’audacia di chiedere a persone che vivono sulla soglia di sussistenza, con una capacità di risparmio ridotta al minimo, di risolvere problemi sistemici la cui competenza spetterebbe al piano politico? Spesso quelle persone, smosse da un nobile altruismo unito ai sensi di colpa e pietas sapientemente innescati dagli spot, accettano di prestarsi al gioco e donare quelle che vengono definite piccole somme ma che per loro significano magari rinunciare a una serata al teatro o al cinema o al ristorante con la famiglia. Il problema è che molte di quelle persone lo fanno essendo completamente ignare dei distorti meccanismi di funzionamento dei sistemi monetari e finanziari internazionali; delle facoltà di intervento che governi e banche centrali avrebbero; dell’esistenza di decine di trilioni di dollari che giacciono inoperosi nelle borse mondiali, destinati a un mero gioco speculativo fra i detentori della ricchezza con impatto quasi nullo sull’economia reale; delle numerose voci scettiche sulla reale efficacia del sistema della cosiddetta carità internazionale e sull’effettivo contributo fornito alla risoluzione delle criticità nelle zone di intervento.

E’ questo da sempre l’effetto collaterale dei movimenti per la beneficienza: pur a fronte di innegabili meriti e buoni intenti, essi concorrono involontariamente a smorzare ogni riflessione sulla iniqua bestialità di un sistema sociale dove non sia assicurata senza se e senza ma alla bambina ritratta nel primo post condiviso la possibilità di curarsi, dove non sia inconcepibile l’esistenza di trattamenti sanitari “troppo dispendiosi”, dove la presenza di condizioni di cronica povertà sia tollerata.
L’idea che garantire condizioni di vita e di cura dignitose sia un obbligo di cui ci si debba far carico strutturalmente come comunità umana e come singole comunità nazionali attraverso l’azione degli Stati democratici resta dunque sempre più sfocata, sullo sfondo di un’epoca che al contrario sta rapidamente approdando alla istituzionalizzazione della filantropia, in una distopica transizione dalle socialdemocrazie novecentesche a quella che con un terribile neologismo si potrebbe definire “filantrocrazia”: da una parte, infatti, si chiede alla diffusa platea delle vittime del menzionato processo di polarizzazione della ricchezza di raschiare il fondo dei suoi sempre più esigui risparmi, dall’altra si assurgono i membri del ristretto circolo dei vincitori del processo al ruolo di salvatori dell’umanità. Lungi dall’essere identificati come parte integrante del problema o come illegittimi detentori di risorse che – ove distribuite più equamente – contribuirebbero a estendere il benessere collettivo e porre rimedio alle numerose derive di degrado, i nuovi ultramiliardari (billionaires) vengono oggi ammirati, se non addirittura venerati. Essi sono posti al centro della riproduzione sociale, gli viene affidato un ruolo quasi istituzionale, ma rigorosamente facoltativo: non c’è alcun obbligo a loro carico – anzi si moltiplicano le opportunità di sottrarre le loro oscene accumulazioni di ricchezza a ogni intervento redistributivo sul piano fiscale – ma c’è una grazia volontaria “postuma” (intesa come successiva all’accumulazione semi indisturbata) concessa dall’alto, per il tramite delle loro fondazioni, spesso collegate alle stesse organizzazioni internazionali protagoniste nel settore della carità. Guarda caso, più o meno tutti i suddetti billionaires scelgono di concedere all’umanità la loro grazia (sembra quasi che ci sia un’automatica folgorazione filantropica intorno al raggiungimento del primo miliardo di patrimonio), consci del sommo status sociale oggi riconosciuto alla figura del miliardario benefattore, ma soprattutto consapevoli dell’importanza di dare l’impressione di restituire qualcosa alla collettività (anche perché quello che di fatto restituiscono nell’ambito del loro impegno filantropico è comunque una porzione infinitesimale rispetto a quanto accumulato e a quanto una maggiore equità distributiva imporrebbe), nel malcelato tentativo di inibire o ritardare una generale presa di coscienza sul fatto che “una società che ha bisogno di filantropi e benefattori è una società in cui regnano la diseguaglianza e l’ingiustizia”.

Provocatoriamente, ma non troppo, si potrebbe affermare che quella fin qui descritta è una condizione di barbarie ineguagliata nella storia dell’umanità: in epoche premoderne, la bambina del primo post condiviso avrebbe avuto scarse possibilità di salvezza semplicemente perché non esistevano cure adeguate. Nessuno si sarebbe verosimilmente sognato di mettere ostacoli di tipo economico alla sua cura, ove essa fosse esistita. Al presunto apice della civiltà e del progresso, invece, le cure esistono ma l’intera società accetta senza batter ciglio che la bambina vi acceda solo se per combinazione la colletta per “trovare i soldi” va a buon fine, se il filantropo di turno si appassiona alla causa. Oppure accetta che la ricerca su molte malattie rare, non avendo i crismi per essere condotta in maniera profittevole (“per la ricerca trovare una cura non è vantaggioso economicamente”; “le malattie genetiche rare prese singolarmente non sono statisticamente rilevanti”, per cui esse sono “trascurate dai grandi investimenti pubblici e industriali” e “orfane di ricerca e farmaci”), sia interdetta, rallentata, resa dipendente dai contributi filantropici.

L’orizzonte di immaginazione è ormai atrofizzato: neanche sul piano teorico viene concessa la possibilità di concepire una società dove esistano alcuni diritti e servizi che siano scevri da ogni connotato economico, come peraltro già sancito formalmente da tutte le Costituzioni più evolute, una società in cui a tali diritti e servizi non sia nemmeno associato un prezzo o un qualsiasi valore monetario. Tutto ciò è utopico, hanno insegnato a credere. Probabilmente lo è, ma almeno si comprenda che si tratta di utopia non in sé ma nel contesto dell’odierno squilibrio dei rapporti sociali. Si comprenda che le risorse umane, scientifiche, tecnologiche per garantire diffusamente benessere e condizioni di vita dignitose esisterebbero e che tali obiettivi sarebbero pertanto raggiungibili ove si decidesse di organizzare in maniera più equa e razionale le modalità di allocazione e distribuzione di quelle risorse. In altre parole, la scarsità di risorse così come viene declinata e sfoggiata in quest’epoca, a giustificazione dell’impossibilità di porre rimedio all’enorme mole di ingiustizie sociali che proliferano nel mondo, è in realtà un elemento artificiale, frutto di precise e arbitrarie scelte politiche, compiute in aperto contrasto con i valori universali posti a fondamento della convivenza civile fra uomini e in forza della prevaricazione che alcuni gruppi sociali possono oggi esercitare su altri.

Già riconoscere la brutale e scomoda verità che la bambina del primo spot condiviso, non dovesse malauguratamente riuscire a guarire a causa della mancanza di soldi per pagare le cure, morirebbe non per un tragico caso ma per una precisa scelta politica, sarebbe un primo passo verso l’individuazione dei tratti di profondo regresso che caratterizzano una società in cui tale scelta politica viene consentita, una società in cui si passa da uno spot social su una bambina in fin di vita a quello di un orologio o di un detersivo come se niente fosse. Vale la pena domandarsi: è tutto ciò davvero compatibile con la civiltà e il progresso fieramente ostentati urbi et orbi o si è di fronte a un’inedita frontiera di imbarbarimento? Oppure ancora, che razza di contorto e irrazionale sistema sociale è quello in cui la risoluzione delle situazioni di maggiore ingiustizia e iniquità viene affidata a disorganiche iniziative di soggetti privati, i quali peraltro, nell’intento di massimizzare i fondi raccolti a supporto di tali iniziative, sono costretti a impiegare a loro volta ingenti somme di denaro (nell’ordine dei milioni) per affittare spazi pubblicitari super dispendiosi da altri soggetti privati, somme che per forza di cose vanno a erodere la parte dei fondi devoluti con sacrificio dai donatori che giunge effettivamente a destinazione?

Si badi bene, non si vuole in alcun modo banalizzare una questione di estrema complessità: è chiaro che non esistono soluzioni magiche facilmente alla portata. Da una parte, è sicuramente doveroso portare il dibattito su una dimensione strettamente politica, invocando il ripristino e la diffusione di modelli di Stato sociale in grado di imporre strutturalmente e in via permanente il rispetto dei diritti fondamentali, di favorire una distribuzione della ricchezza infinitamente più equa di quella che si registra oggi, di rimettere al centro della storia gli Stati sovrani nazionali ridimensionando il ruolo di tutte le proliferanti entità privatistiche sovranazionali; è poi altrettanto importante valutare modalità di intervento nelle zone più in difficoltà alternative rispetto a quelle messe in atto finora sulla base dei protocolli della carità internazionale, la cui efficacia è quanto meno dubbia visto che – come già evidenziato – in molti casi il risultato che ne consegue può essere quello di aumentare la dipendenza dagli aiuti, cronicizzando i problemi piuttosto che risolvendoli. Dall’altra, bisogna tuttavia riconoscere con onestà che molte delle questioni irrisolte riguardano alcuni specifici contesti di epocale, atavica e molteplice criticità, come quella che caratterizza il continente africano. E che l’incapacità di individuare soluzioni organiche e di lungo periodo al riguardo è spesso attribuibile – oltre che a gravi carenze politiche e di sistema – a dinamiche esogene, come ad esempio quella demografica e quella climatica, che complicano ulteriormente la situazione. In un simile scenario – giova ribadirlo dopo averlo già fatto in apertura di articolo – sarebbe pertanto ingeneroso affibbiare alle organizzazioni attive nel settore della carità, pur con tutte le profonde perplessità espresse in merito al modello di intervento da esse promosso e incarnato, responsabilità che esse non hanno o non riconoscerne alcuni indubbi successi ottenuti o, più in generale, sottacerne i meriti in termini di gestione contingente dell’enorme mole di emergenze umanitarie esistenti.

Quello che si sottopone a critica feroce in relazione a tali entità, oltre alle già dibattute dimensioni estetica e subliminale delle loro modalità comunicative, è piuttosto la veicolazione da parte delle stesse di messaggi come questo:

 

 

Spot del genere sanno di odiosa presa in giro se non di infimo inganno: quanto è ipocrita e fuorviante, infatti, associare la sacrosanta lotta “per realizzare quell’idea di sanità gratuita, universale e di eccellenza” citata nel post (così come ogni altra lotta per una “società più giusta”) a un sistema di donazioni volontarie di privati cittadini? Come si può pensare di combattere tali lotte sull’onda della filantropia, a forza di improvvisati atti di carità?
Non è di certo donando all’infinito che i problemi si risolvono, anzi il sempre crescente clamore intorno alla beneficienza – unito alla presentazione della stessa come la soluzione ai mali del mondo invece che come un palliativo buono al più a mettere toppe minuscole a falle gigantesche – ha il solo effetto di contribuire ulteriormente alla narcotizzazione della coscienza collettiva, rimandando in maniera indefinita il momento della lotta vera, quella da condurre sull’unico piano dove ha senso condurla: il piano politico.


https://comedonchisciotte.org/filantrocrazia-e-marketing-della-sofferenza-le-nuove-frontiere-dellimbarbarimento/

Danilo Toninelli.

 

Quattro nostri colleghi eletti in Europa hanno deciso di lasciare il MoVimento 5 Stelle per ragioni di presunta coerenza che sarebbe venuta meno tra noi. Stanno commettendo un grande errore e non sono d'accordo con quanto sostengono.

Il M5S non sarà perfetto ma non si è mai piegato al Sistema politico-affaristico-mediatico che ha distrutto il Paese e che ancora lotta contro di noi.
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Alcune battaglie straordinarie le abbiamo vinte, altre no perché mancavano le condizioni per farlo.
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Siamo la forza politica più onesta e altruista di tutto lo scenario politico.

E lo siamo soprattutto grazie alle regole e ai principi che ci siamo dati. Dal taglio degli stipendi al dimettersi dalla carica in caso di uscita dal Movimento.

Su quest’ultimo nostro principio cardine spero che ci sia la coerenza di farlo. Perché fuori ci sono di certo quattro persone che non vedono l’ora di entrare al Parlamento Europeo per battagliare in favore dei cittadini sotto la bandiera del Movimento.
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Chi si ritira da questa lotta si faccia da parte.
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Altrimenti la più ovvia delle conclusioni è che a trasformarsi non sia stato il Movimento,
che continua ad essere baluardo contro le porcherie del passato,
ma chi ne esce mantenendo poltrona e super stipendio.
Tradendo un patto con gli elettori.

https://www.facebook.com/photo?fbid=1710002249181535&set=a.465946793587093

Conte, non temo il voto sul Mes, sei manager per 60 progetti del Recovery Fund.

 

Renzi, se va sotto sul Mes il premier dovrebbe dimettersi. Di Maio, non diamo il fianco a chi vuole sostituire il presidente del Consiglio.

Siamo in guerra con il virus e "l'Italia partecipa ai processi riformatori europei con un ruolo da protagonista e così sarà fino a quando avrò responsabilità di governo". Lo dice il premier Giuseppe Conte in una lunga intervista con la Repubblica.

"Non temo il voto sul Mes" sottolinea. Il Recovery Fund: 'L'attuazione affidata a una struttura di sei manager che potranno agire con poteri sostitutivi", i progetti "esprimeranno una chiara visione del Paese". A chi ipotizza rimpasti fa sapere: "dovete uscire allo scoperto e chiedere cosa volete".

Secondo Matteo Renzi il voto parlamentare sul Salva-Stati non riserverà sorprese, ma in caso contrario, "è naturale che il presidente del Consiglio si dovrebbe dimettere". Lo dice il leader di Italia Viva in un'intervista con La Stampa. Quello del rimpasto di governo per l'ex premier è un "tema chiuso" dopo l'aver "sentito Conte dire, nel giorno in cui abbiamo avuto mille morti che lui dispone dei migliori ministri. Io ne prendo atto". Quanto a durare fino al 2023 "non so. Se questa è la squadra non ci giurerei, ma magari sarò smentito".

"Ho capito che mi dite che Gualtieri non vi ha dato ascolto in Commissione ma non è che per questo noi andiamo contro il presidente del Consiglio che abbiamo nominato noi. Io non ho paura di tornare al voto. Il problema è che perdiamo Conte. E trovare un altro nome come il suo non ci riusciamo". Così Luigi Di Maio chiudendo l'assemblea M5s dove ha aggiunto: "Io non ho paura neppure di un rimpasto, non ho paura di far un'altra squadra di governo. Ma se diamo il fianco a questa cosa quì, diamo fianco a quella parte delle forze politiche che vuole cambiare il presidente del Consiglio".

https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2020/12/05/conte-non-temo-il-voto-sul-mes-_6c2f86df-f1a3-4aba-82e2-c6e5cc26c619.html

Marcucci contro la stretta sugli hotel: è nel cda di 2 società che li gestiscono. - Stefano Vergine

 

Il re della protesta. Il dem ha criticato le chiusure serali a dicembre e chiesto deroghe “per gli alberghi il 31”.

La critica principale contro il nuovo Dpcm è arrivata dall’uomo del Pd più fedele a Italia Viva: Andrea Marcucci, ex renziano e attuale capogruppo dei dem al Senato. “Mi rivolgo al premier Conte: cambi le norme sbagliate inserite nel decreto sulla mobilità comunale del 25, 26 e 1 gennaio. Lo chiedono le Regioni e 25 miei colleghi senatori del Pd”, ha detto due giorni fa il senatore toscano. Nelle proposte fatte al governo dalla fronda interna che guida, Marcucci ha poi voluto specificare quale aspetto in particolare vorrebbe modificare: le chiusure dei ristoranti il 31 dicembre. “Per ora restano alle 18, noi abbiamo chiesto di verificare per gli alberghi”. La richiesta non verrà ricordata per l’assenza di interessi personali.

Una delle misure contenute dal nuovo Dpcm prevede che i ristoranti all’interno degli alberghi non possano servire il cenone di Capodanno al tavolo. Dovranno chiudere al pubblico esterno, sarà consentito solo il servizio in camera. Non proprio la notizia che si aspettavano a Barga, borgo lucchese a metà strada tra la città e la Garfagnana, da sempre terra dei Marcucci. Tra i vari settori economici in cui è attiva la famiglia del senatore dem c’è infatti quello dell’ospitalità, con hotel e ristoranti, e il divieto di offrire il cenone a clienti esterni non potrà che peggiorare i conti delle società di famiglia. L’affare principale dei Marcucci è di gran lunga la sanità: Kedrion, oltre 2mila dipendenti, multinazionale dei vaccini e prodotti medicinali derivati da plasma umano. Ma la famiglia del senatore ha sempre avuto anche il pallino dell’ospitalità, hotel e ristoranti. Due anni fa ha siglato una partnership con il Gruppo Marriott, multinazionale americana con strutture di lusso in mezzo mondo. Ne è nata una società per gestire insieme il Renaissance Tuscany Il, un mega resort con 600 ettari di terreno nel cuore della Garfagnana. La società della partnership si chiama “Shaner Ciocco Srl”: i Marcucci hanno la minoranza del capitale (40%) e il capogruppo del Pd al Senato siede nel consiglio d’amministrazione. L’ultimo bilancio disponibile, quello del 2019, dice che le cose vanno piuttosto bene. La società ha fatturato 9 milioni di euro, riuscendo a chiudere con un piccolo utile netto (16mila euro). Merito dei tanti clienti accorsi al Renaissance Tuscany Il, l’enorme complesso ricettivo tra le colline lucchesi, con piscine, spa e tre ristoranti. Che, la notte di San Silvestro, difficilmente faranno il tutto esaurito.

È messa invece molto meno bene la società che i Marcucci controllano al 100%, senza partner esterni. Si chiama “Il Ciocco Spa”, anche questa ha sede a Barga e conta su un ricco patrimonio turistico tra le colline lucchesi: tre alberghi per un totale di 58 camere, cui si aggiungono 12 chalet, 29 appartamenti e un lido sulla spiaggia di Viareggio. A differenza della joint venture con Marriott, qui il bilancio segna profondo rosso. L’anno scorso, a fronte di un fatturato di 3,2 milioni, “Il Ciocco Spa” – nel cui cda siede il senatore – ha chiuso in perdita per 2,5 milioni di euro. Un buco che si accumula a quello dell’anno precedente, quando il rosso era stato di 4,2 milioni, e a quello dell’anno prima ancora, quando le perdite erano state pari a 2,7 milioni.

Il risultato finale è scritto alla voce debiti: continuano ad aumentare, e alla fine del 2019 erano arrivati a 17,2 milioni, per più della metà nei confronti di banche. L’anno del Covid, e il divieto di ospitare a cena clienti esterni a San Silvestro, non potranno che far peggiorare le cose. Ma sicuramente, quando ha chiesto al governo di cambiare l’orario di chiusura dei ristoranti degli alberghi il 31 dicembre, Marcucci non ci stava pensando.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/12/05/marcucci-contro-la-stretta-sugli-hotel-e-nel-cda-di-2-societa-che-li-gestiscono/6027312/