Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
sabato 29 maggio 2010
Andavo alle elementari e non ho mai manifestato per Saccucci - Marco Travaglio
29 maggio 2010
Marco Travaglio replica alle accuse di Graziano Milia,dopo l'articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano mercoledì 26 maggio.L’altro giorno, sulla prima pagina del Fatto, mi sono occupato del presidente Pd della Provincia di Cagliari, Graziano Milia, ricandidato a quella carica da tutto il centrosinistra nonostante la recente condanna in appello a 1 anno e 4 mesi per abuso d’ufficio nell’ambito di un mega-scandalo di licenze edilizie facili, sanatorie indebite e autorizzazioni paesaggistiche fuorilegge perpetrate tra il 1999 e il 2003. Il signor Milia mi ha così graziosamente replicato sulla sua pagina Facebook e la sua replica è stata ripresa da un giornale vicino al Pde da vari siti internet e organi di stampa locale: “Non accetto critiche da un ex militante dell' Msi. Il valore dell'antifascismo per me è discriminante. Travaglio faceva parte della falange pura e dura (come oggi) contro gli Ebrei... Se ha cambiato idea mi fa piacere... anche se non dimentico quando manifestò contro l'arresto diSaccucci, deputato dell' Msi accusato di aver ucciso un giovane comunista a Sezze Romano… Io non me ne strafotto se uno difendeva Saccucci, ex parlamentare Msi che uccise un mio compagno di partito… Dice bugie? Sì! L’unica motivazione che oggi si conosce sulla mia vicenda mi assolve, aspettiamo le motivazioni della seconda. Ergo il fascista Travaglio parla senza cognizione di causa. Possiamo chiamarlo a confrontarsi con me, ma chi paga il cachet delle sue esibizioni? Poi non vorrei che facesse come Grillo che firmò una petizione a favore dello scempio dell’Anfiteatro romano di Cagliari”.
Andiamo con ordine.
1) Se anche fosse vero che sono un fascista, missino, falangista e tutto il resto, o un “ex” di tutte queste robacce, il signor (si fa per dire) Milia rimarrebbe un condannato in appello per abuso d’ufficio a 1 anno e 4 mesi e, siccome si ricandida alla presidenza della Provincia di Cagliari, l’argomento del contendere non è il mio presunto passato, ma la sua condanna in appello.
2) Non ho mai militato nell’Msi, né l’ho mai votato, anzi l’ho sempre aborrito, essendo sempre stato un antifascista convinto.
3) Non ho mai fatto parte di falangi, né dure e pure, né molli e impure, né tantomeno contro gli Ebrei, essendo fra l’altro notoriamente un amico dello Stato di Israele.
4) Non ho “cambiato idea” perché, per mia fortuna, non ho mai dovuto pentirmi delle mie idee, diversamente dal signor Milia che milita in un partito che ha dovuto abiurare al proprio passato e cambiare quattro o cinque nomi.
5) Non vedo come questo signore possa “non dimenticare” che io avrei “manifestato contro l’arresto di Saccucci accusato di aver ucciso un giovane comunista a Sezze Romano”, visto che io non ho mai manifestato contro l’arresto di Saccucci, anche perché all’epoca di quel fatto di sangue (28 maggio 1976) avevo 11 anni, abitavo a Torino e frequentavo la quinta elementare.
6) In questa storia c’è soltanto una persona che “dice bugie” e “parla senza cognizione di causa”. E questa persona è il signor (si fa per dire) Milia.
7) Non so a quali mie “esibizioni” e a quali “cachet” si riferisca questo tizio. Se parla del mio lavoro di giornalista free lance, è retribuito dai giornali per cui scrivo; se parla dello spettacolo teatrale di impegno civile Promemoria, in cui racconto da tre anni la storia della Seconda Repubblica, è tutto molto semplice: chi vuole viene a vederlo e paga il biglietto; se parla delle conferenze che tengo in giro per l’Italia, le faccio gratis, mai chiesto un “cachet” in vita mia. L’anno scorso, ad assistere a Promemoria all’anfiteatro romano di Cagliari, vennero 1500 persone (ricordo, incidentalmente, che mi pronunciai in pubblico contro quello che lui definisce “lo scempio dell’anfiteatro romano”); quest’estate, quando tornerò a Cagliari per chi non riuscì a entrare un anno fa, avrò un promemoria in più da raccontare. Così i cagliaritani distratti sapranno chi è il presidente della loro Provincia e chi è il soggetto che il Pd ricandida per quella poltrona.
Da il Fatto Quotidiano del 29 maggio
Cei, azione zero sui pedofili - Marco Politi
29 maggio 2010
Abusi. La Chiesa italiana fa la sua scelta: azione zero. Sugli stupri del clero l’assemblea dei vescovi decide che un intervento collettivo non serve. Niente “tolleranza zero” come negli Usa, niente linee guida come quelle che autorizzano in Germania a chiamare a rapporto il singolo presule disattento, niente commissione d’inchiesta come in Austria, niente numeri verdi né referenti cui possa rivolgersi la vittima. L’esempio inglese citato dal direttore dell’Osservatore Romano – una task force in ogni parrocchia–viene definito “non un’indicazione per l’Italia”. Troppo persino per una giornalista cattolica, che in conferenza stampa ha chiesto al cardinal Bagnasco: “Scusi Eminenza, ma allora uno deve chiamare il centralino della diocesi dicendo: sono una vittima, mi passi il vescovo?”.Il comunicato dell’assemblea esalta il “coraggio della verità che, anche quando è dolorosa e odiosa, non può essere taciuta e coperta”: proclamazione surreale mentre i vertici ecclesiastici negano chiarimenti all’opinione pubblica su chi sono e che fine hanno fatto i cento preti delinquenti (numero fornito dalla Cei) già coinvolti in un procedimento. È un fossato tra l’invito di papa Ratzinger all’azione per dare voce a quanti per decenni non sono stati ascoltati, portando i colpevoli in tribunale, e l’inazione della Cei come organismo collettivo.
Evidentemente prevale nelle gerarchie la paura di scoperchiare il vaso delle violenze. Sostiene Bagnasco che, date le autorevoli indicazioni dei testi vaticani, “non è necessario né opportuno” prendere altri provvedimenti. Tutto è lasciato al “discernimento” dei singoli vescovi. Esattamente ciò che per secoli ha prodotto insabbiamenti e ritardi, che lo stesso Bagnasco ammette “possibili”. Riproporre questo sistema è attendismo e si paga sempre.
da Il Fatto Quotidiano del 29 maggio 2010
Mussolini ieri, oggi, e pure domani
Beh, non c’è che dire, da quando l’altro giorno il Premier ha citato i diari di Mussolini - Vertice Ocse di Parigi - Maurizio Belpietro ha dato una bella sferzata alla promozione dei Dvd del Duce, che Libero regala ai propri lettori dal 22 maggio. La campagna era partita un po’ in sordina, nelle ultime settimane il succoso regalo era stato stato pubblicizzato solo con piccoli trafiletti, o riquadri interni a Libero, ma dall’exploit Papal-Mussoliniano di Parigi ogni freno storico-inibitorio è crollato, Belpietro ha preso coraggio, sì, evvai, siamo sulla strada giusta, nessuno ora ci potrà fermare, "Berlusconi: mi sento come Mussolini", "Io come Mussolini", "Pd contro Libero sui Dvd Fascisti", "A chi fa paura il Fascismo", "Il Fascismo fa ancora paura?", "I Dvd ai lettori, iniziativa da veri liberali", e così via. Come ben sapete mi ero permesso di chiedere a quelli di Libero chi finanziasse questo preziosissimo dono editoriale - già, mi seccherebbe un tantino pagare l’operazione di tasca mia, che un po’ già è così - ricevendo in risposta un secco "non possiamo dire nulla, su questo non possiamo rispondere". Ma ora gli interrogativi passano ad uno step successivo, l’economia domestica lascia tristemente il passo a megadomandoni etico-politico-morali, mentre il Parlamento lavora di notte per minare alcuni cavilli costituzionali, libertà d’informazione, indipendenza della Magistratura, mentre l’imperativo è sempre più limpido, spompare, svuotare da dentro gli strumenti che garantiscono al cittadino sicurezza e conoscenza, lasciando sul terreno istituzionale involucri vuoti e pericolosi, di facciata, perfetti per garantire l’impunità della cricca. Mussolini ieri, oggi, fa quasi chic parlare di Mussolini, non ci si vergogna nemmeno più, pronunciare quel nome infame, accostarlo al nostro Presidente, persino, quasi volessero esorcizzarne le affinità, mettere le mani avanti, contemporanei bavagli, pillole da addolcire, massì, che volete che sia, il Duce non ha mai fatto male a nessuno, guardate che belli quei pargoli in divisa, "Berlusconi come Mussolini", e allora?, e se fosse così?, e via di paralleli, di diari, falsi magari, ma che importa, Mussolini ieri, oggi, di nuovo sulla scena, senza timori, senza remore, Mussolini ieri, oggi, ma domani?
Caso Ruffini, sconfitti i gerarchi del Sultano - Giuseppe Giulietti
Alla Rai, per esempio, Berlusconi ha inviato pessimi gerarchi che gli stanno combinando un sacco di guai.
Dentro e fuori al telefono gli avevano promesso che si sarebbero sbarazzati di Ruffini, l'ex direttore di Rai Tre, di Santoro, della Dandini, della Gabanelli, di Ballarò e via discorrendo.
Presi da euforia crescente e da servilismo manifesto hanno cominciato a lasciare le impronte ovunque, a sporcarsi le mani di marmellata, ad annunciare scalpi che ancora non avevano conquistato.
Ora più che mai ci auguriamo che Michele Santoro li mandi a quel paese e annunci che il prossimo anno continuerà Annozero, anche perché i patti con questi signori hanno lo stesso valore della carta straccia.
L'ultima clamorosa conferma è arrivata dal tribunale di Roma che, con una clamorosa sentenza, ha imposto alla Rai il reintegro di Paolo Ruffini. Ma quello che è ancora più clamoroso è la motivazione con la quale il giudice ha disposto il provvedimento. Ci sembra utile riportarla per intero.
IL TESTO DELLA SENTENZA
"Indizi gravi, precisi e concordanti'' che collegano la sostituzione di Paolo Ruffini alla direzione di Raitre all'aperta critica al contenuto di alcuni programmi della rete. Ragion per cui la ''delibera di sostituzione del vertice di Raitre non appare dettata da reali esigenze di riorganizzazione imprenditoriale presentando invece un chiaro connotato di motivazione discriminatoria e quindi illecita''. Sono punti centrali dell'ordinanza con cui è stato accolto il ricorso dell'ex direttore di Raitre che aveva lamentato che la soluzione individuata non rispondeva al suo profilo professionale e alle responsabilita' fino ad allora ricoperte. Il giudice del lavoro di Roma Eliana Pacia (RPT Pacia) (terza sezione del tribunale civile), con provvedimento di urgenza ''fa ordine alla Rai di adibire il ricorrente'', Paolo Ruffini, ''all'attività lavorativa come dirigente editoriale direttore di Raitre con adibizione alle mansioni svolte prima del 25/11/2009'', giorno in cui il Cda Rai adottò la delibera di nomina alla direzione di Raitre di Antonio Di Bella, ''sino all'assegnazione di mansioni equivalenti''. La delibera di sostituzione, si legge nell'ordinanza, ''non appare dettata da reali esigenze di riorganizzazione imprenditoriale, presentando invece un chiaro connotato di motivazione discriminatoria e quindi, in quanto tale, illecita ai sensi dell'articolo 15 legge 300/1970''. Questo tenuto conto del ''collegamento'' tra le molte frasi della maggioranza e del Governo sulla ''faziosità'' dei programmi di Raitre e la sostituzione di Ruffini. A ''conferma di tale stretto collegamento - si legge - proviene dal tenore delle dichiarazioni rilasciate dal direttore generale della Rai il 23/09/2009 alla Commissione di Vigilanza sull'attività della Rai nel corso della quale egli ha espresso un aperto disappunto sul fatto che reti del servizio pubblico e quindi pagate dai cittadini fanno - diversamente a suo dire da tutti gli altri Paesi del mondo trasmissioni 'politicamente contro' (il Governo). E se è vero che il Direttore generale non delibera ma ha potere di nomina, tenuto conto delle reiterate e varie dichiarazioni espresse da esponenti del governo, come detto mai smentite, e dalla vicinanza temporale della delibera di novembre - seguita alle dichiarazioni del Direttore generale - può sicuramente affermarsi, sulla base di un giudizio di verosimiglianza, in sussistenza di indizi gravi, precisi e concordanti circa un obiettivo di collegamento tra la sostituzione del ricorrente e l'aperta critica al contenuto di alcuni programmi voluti e potenziati dal medesimo''. Una sostituzione illecita, quella di Ruffini, si legge nell'ordinanza del Tribunale civile di Roma, terza sezione lavoro, ''ancor prima e a prescindere da ogni considerazione su quanto può desumersi dal tenore della notizia dell'intercettazione telefonica riguardante la conversazione tra Innocenzi e il Dr Masi, riportata nell'articolo del quotidiano La Repubblica del 17/03/2010 versato in atti, che riferisce dell'allontanamento del ricorrente da Raitre, quale mezzo di aggiustamento della Rai, tenuto conto della inutilizzabilità, allo stato delle intercettazioni telefoniche in giudizi diversi da quello in cui le stesse sono state raccolto e del fatto che vi sarebbero indagini in corso presso la Procura della Repubblica di Trani proprio sulla diffusione delle notizie oggetto delle varie intercettazioni''. Il giudice parla anche della ''violazione del diritto alla libertà d'informazione e di critica del giornalista'' che risulta come ''mero riflesso dell'intera vicenda sullo stesso Ruffini seppure è vero, fa notare, che è da condividere quanto sostenuto dalla Rai, ''parte resistente", sul fatto che ''la rete non è assimilabile ad una testata giornalistica seppure essa e' composta anche da giornalisti''. Per il giudice sussiste ''anche il danno grave e irreparabile nel tempo occorrente a far valere il diritto del ricorrente in via ordinaria''. Se è vero, come sostiene la Rai, che occorre ''ancorare il danno irreversibile al depauperamento del proprio acquisito bagaglio professionale'' per il giudice questo pericolo non riguarda tanto ''le materie ad elevato spessore tecnologico o scientifico ma alla qualità e varietà delle mansioni svolte anche in connessione con il ruolo rivestito dal lavoratore nel contesto aziendale e produttivo''. Di fatto Ruffini, si legge ancora nell'ordinanza ''non è stato preposto ad alcuna struttura'' e ancora oggi ''si reca tutte le mattine in Rai dove non gli è affidata alcuna mansione'' (....). Il giudice, prosegue l'ordinanza considera il ricorso ''fondato'' e lo accoglie sostenendo ''sotto il profilo della verosimiglianza del diritto vantato'' che ''sussiste un concreto demansionamento ai sensi dell'articolo 2103 del Codice civile perche''' dopo la delibera di sostituzione Ruffini ''non ha ricevuto sino al 27 aprile 2010'' - quando è stata formalizzata la nuova proposta con Raipremium e Rai educational - ''alcun incarico ed è rimasto del tutto inattivo''. L'incarico di direttore di Raitre conferito nell'aprile del 2002 non prevedeva ''termini di durata''. Nè consta che prevedesse ''una regola implicita di breve durata'' o che l'incarico ''sia venuto meno per ragioni connesse ad esplicite responsabilità professionali nello svolgimento dell'incarico o a ragioni collegate al mancato raggiungimento di risultati obiettivi editoriali''.
Che altro aggiungere? Non si potrebbe descrivere meglio la natura e il putridume del conflitto di interessi, la volgarità delle parole e delle azioni dei moderni gerarchi sempre pronti ad interpretare e a soddisfare le peggiori voglie del vecchio capo. Adesso cosa racconteranno al Sultano che aspettava la testa delle vittime? Quale altro imbroglio si inventeranno? Tenteranno di mettere sotto tutela Antonio Di Bella minacciandolo di espulsione se non manderà via Dandini, Floris, Gabanelli, Bertolino, Iacona e via discorrendo?
Per altro lo stesso direttore in carica ha già annunciato al Fatto che non ha intenzione alcuna di obbedire al comando del duce e dei gerarchi.
Per quanto ci riguarda, come Articolo21, a costo di farlo da soli, continueremo a reclamare le dimissioni di chi ha ideato, progettato e portato a compimento il piano di espulsione di Ruffini e vorrebbe ora mettere definitivamente le mani sul palinsesto di Raitre.
Non si tratta di solidarizzare con questo o quel giornalista, questo o quell'autore, ma di impedire che il piano di oscuramento politico e mediatico in stato di avanzata attuazione colpisca a morte una delle ultime isole sopravvissute nel sistema mediatico nazionale.
Un ringraziamento, infine, lo vogliamo rivolgere all'avvocato D'Amati, presidente del collegio dei legali di Articolo21 che, anche in questa occasione, ha difeso le ragioni della libertà di informazione infliggendo una bruciante sconfitta al duce, ai gerarchi, ai loro squadristi.
Giuseppe Giulietti
(29 maggio 2010)
Il premier a casa sua - Paolo Ojetti
29 maggio 2010
Tg1 Per darsi conforto dopo le gaffe sparpagliate fra Roma e Parigi (di cui il Tg1 non ha dato né mai darà conto), il “premier” sceglie una sede ancora più sicura, il suo Canale 5, angolo ombroso e quieto con Maurizio Belpietro che dirige Libero, ma ha tempo e collaborazioni a disposizione. Ebbene, come dubitare che Berlusconi non dica bene di se stesso? La “manovra” (ormai sembra di parlare di un treno in stazione o di una nave all’ormeggio) è magnifica, raddrizza la barca, ritrova la giusta via, non mette le mani nelle tasche degli italiani (e via, basta con questi riferimenti a un frugare in posti poco decenti) e poi ce la chiede l’Europa, come dirle di no? Se la presidentessa Marcegaglia non apprezza e non vuole fare la ministra, affari suoi, significa che non ha capito il momento magico. Nicoletta Manzione, la conduttrice acqua e savon (in francese), dall’andamento sempre sul filo dell’ansia, è rilassata, sorprese non sono annunciate, riferimenti a Hitler eStalin (quelli sì che avevano potere, altro che Berlusconi) non erano in vista.
Tg2
Siccome il “premier” non sbaglia mai, ciò vuol dire che l’errore sta da qualche altra parte. Forse sono gli industriali “che non hanno letto con attenzione” gli articoli della “manovra”. Anche il Tg2, che parte così, omette di ricordare le gaffe parigine sul Duce e passa oltre, forse per un senso di misericordia e di pietà umana. Il resto è tiritera: la barca è sulla rotta giusta, l’Ocse approva con giubilo, non abbiamo messo le mani nelle solite tasche, eccetera. Che strani concetti sulla natura delle “tasse” : cos’altro sono i tagli agli stipendi, la compressione dei servizi pubblici; cosa comportano – se non una diminuzione della capacità di spesa e di consumo – i rinvii di diritti acquisiti o di rinnovi contrattuali? Pescando altrove, si possono evitare le impopolari “tasche”.
Tg3
Mussolini torna nel Tg3, ma nella versione berlusconiana, un pover’uomo che non poteva decidere niente perché il vero potere “ce l’avevano i gerarchi”: Starace,Ricci, Federzoni, Bottai, Balbo, Pavolini o Farinacci? Chi lo sa. O forse – come suggerisce Pierluca Terzulli – Berlusconi intendeva riferirsi allo strapotere dei gerarchi contemporanei, Tremonti per esempio? In studio, l’uomo che vede il federalismo, complice la manovra, a rischio aborto: Roberto Formigoni. E messo al punto giusto, arriva anche Gianfranco Fini, che di fascismo se ne intende , in gioventù l’avrà certamente studiato: oggi non c’è la dittatura – ha detto – ma ci “sono altre insidie dalle quali ci protegge proprio la Costituzione”. Servizio “vivo” a contatto con gli statali: una corsa al pensionamento prima che la “manovra” li congeli sulla soglia.
da Il Fatto Quotidiano del 29 maggio 2010
Spie di Casa Nostra - Gianni Barbacetto
29 maggio 2010
Dall’ufficio Affari Riservati “amico” dei terroristi alla “strategia della tensione” del ‘92-‘93.“Strategia della tensione”. Così la chiama il procuratore antimafia Pietro Grasso: e si riferisce alla stagione delle bombe 1992-‘93, in cui il terrorismo di Cosa Nostra si è saldato con l’eversione di apparati dello Stato, con gli interventi di un’altra “entità”. Come spiegare, altrimenti, la scelta dei raffinati obiettivi delle stragi in continente, il misterioso black-out a Palazzo Chigi del 27 luglio 1993, l’ambigua comparsa della Falange armata? “Strategia della tensione”: ovvero il dispiegamento di un progetto eversivo a cui danno il loro contributo, insieme, gruppi criminali e apparati istituzionali.
Il precedente più eclatante, nella storia italiana, è la stagione 1969-1974, la stagione delle stragi che si apre il 12 dicembre in Piazza Fontana a Milano. Protagonista di quella prima “strategia della tensione” è Federico Umberto D’Amato, il poliziotto gourmet che ha diretto per anni l’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno. A lui è dedicato un volume appena arrivato in libreria (Giacomo Pacini, Il cuore occulto del potere, Nutrimenti editore), che contiene non poche novità e soprattutto ci aiuta a capire come, nella storia italiana, gli apparati dello Stato abbiano una consolidata tradizione eversiva: che evidentemente non è morta con D’Amato.
Agente, durante la guerra, del mitico James Jesus Angleton, capo dell’Oss (Office of strategic services , la struttura d’intelligence che precedette la Cia), nel dopoguerra D’Amato divenne l’uomo forte di un servizio così segreto che ufficialmente non esisteva. Eppure l’Ufficio affari riservati era un apparato potentissimo, articolato in tutto il paese, con a disposizione molti uomini e molti soldi. Nel libro di Pacini sono riportate le rivelazioni fatte nell’ultima inchiesta sulla strage di Brescia da Filippo Barreca, uomo della ’Ndrangheta diventato collaboratore di giustizia. A fine anni Settanta, Barreca aveva dato ospitalità al neofascista Franco Freda, latitante. Questi gli aveva confidato non solo di avere avuto un ruolo nella strage di Piazza Fontana, ma anche di aver goduto di appoggi eccellenti: “Freda mi parlò anche del coinvolgimento di un prefetto del ministero dell’Interno”, racconta Barreca, “mi aveva precisato che era a capo dell’Ufficio affari riservati... In sostanza, mi disse che il D’Amato era un mandante, un responsabile morale della strage”. Sul ruolo eversivo dell’apparato di D’Amato non mancano testimonianze provenienti dall’interno del servizio militare (il Sifar, poi Sid), con cui era spesso in conflitto. Il generale Nicola Falde (membro della P2, dalla quale si distaccò a fine anni Settanta) ha esplicitamente sostenuto che “l’attentato di Piazza Fontana era stato in qualche modo organizzato dall’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno... Il Sid si era poi adoperato per coprire tutto”. E un prefetto in servizio a Roma, Domenico Spinella, ha rivelato che negli anni Settanta l’allora capo dell’Ufficio politico della capitale, Bonaventura Provenza, non sopportava le intromissioni di D’Amato, che a ogni attentato nella Capitale mandava all’Ufficio politico suoi agenti di fiducia “per dare una mano alle indagini”. Faceva di tutto affinché gli uomini di D’Amato non interferissero, poiché temeva che avrebbero potuto attuare “un qualche tentativo di depistaggio delle indagini”. Il prefetto D’Amato è l’unico italiano a cui è stata intitolata, alla memoria, una sala (e una delle più prestigiose) dentro il quartier generale della Nato, a Bruxelles. Aveva una rete di confidenti e infiltrati in tutta Italia, nell’estrema destra fascista come nell’estrema sinistra marxista-leninista, nell’Msi come nel Pci. Uomo dalle molteplici frequentazioni, per anni ha curato una prestigiosa rubrica gastronomica sull’Espresso (Gault & Millau). Nei suoi uffici romani erano di casaStefano Delle Chiaie, il fondatore dell’organizzazione neofascista Avanguardia nazionale, e Delfo Zorzi, il giovane emergente dell’altro gruppo neofascista protagonista della “strategia della tensione”, Ordine nuovo. Ma tra le frequentazioni di D’Amato ora spunta anche Adriano Sofri. Almeno secondo quanto racconta uno degli appunti del prefetto, trovati a casa sua durante una perquisizione ordinata dal pm di Roma Pietro Saviotti nel 1995, ma finora mai utilizzati né resi pubblici.
Nell’appunto, breve e sibillino, D’Amato fa capire di aver avuto rapporti amichevoli con Sofri: “Ci siamo fatti paurose e notturne bottiglie di cognac”. Sofri aveva accennato a un suo contatto con D’Amato, unico, in un paio di articoli pubblicati sulFoglio nel maggio 2007, dopo l’uscita del libro di Mario Calabresi “Spingendo la notte più in là”. A proposito del caso Pinelli e di Piazza Fontana aveva scritto: “Quello Stato era fazioso e pronto a umiliare e violentare. Lo so. Una volta uno dei suoi più alti esponenti venne a propormi un assassinio in combutta noi e i suoi Affari riservati” (26 maggio 2007). Due giorni dopo, aveva precisato: “Una sera D’Amato venne a casa mia. (...) Quando lo invitai a venire al suo proposito, mi disse, con la stessa amabile naturalezza, che si trattava dei Nap. (...) Che era dunque interesse comune toglierli fisicamente di mezzo, ciò che sarebbe potuto avvenire con una mutua collaborazione e la sicurezza dell’impunità. Prima che finisse gli avevo indicato la porta e lui la prese senza battere ciglio. Dunque quel signore non mi propose di prender parte a un omicidio ma, seppure in un linguaggio da dopobarba, e senza avere il tempo di entrare nel dettaglio, un mazzetto di omicidi” (28 maggio 2007). Ma il prefetto gourmet è personaggio dalle mille trappole, dai mille ricatti, dai mille segreti. Tutti finiti con lui nella tomba, nel 1980, per sempre. Uomo dell’eversione, ma anche, a suo modo, delle istituzioni. Come i protagonisti, ancora senza volto, dell’ultima “strategia della tensione”, quella che ha fatto germinare la Seconda Repubblica nel sangue delle stragi.
Da Il Fatto Quotidiano del 29 maggio 2010
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