Alessandro Fragalà, capo della presunta associazione mafiosa smantellata dalla Dda di Roma, puntava a mettere i suoi uomini in comune. Al progetto, secondo i magistrati, partecipava Omero Schiumarini, "uno di casa", nel 2013 candidato sindaco sconfitto al ballottaggio da Fabio Fucci del M5s. E oggi consigliere comunale dem e dipendente per chiamata diretta della presidenza del consiglio della Pisana.
Il boss nel 2015 puntava a “riprendersi il comune di Pomezia“, conquistato due anni prima dal M5s, e a farlo con l’aiuto di un esponente del Partito democratico. Che oggi è dipendente a chiamata diretta della presidenza del consiglio della Regione Lazio. Dalle carte dell’inchiesta della Dda di Roma che ha portato all’arresto di 31 persone per una lunga serie di accuse tra cui l’associazione di tipo mafioso, emerge la “zona grigia” in cui nell’area sud della Capitale gli interessi di politici e professionisti si mescolano a quelli della criminalità organizzata.
Oggi è consigliere comunale, eletto con il Pd. Nel 2013 Omero Schiumarini aveva corso e perso per diventare sindaco Pomezia in una lista civica appoggiata dai dem. Tra i Fragalà si autodefinisce “uno di casa“. Non risulta indagato, ma secondo i magistrati nel 2015 era “interlocutore privilegiato sin dal momento della detenzione domiciliare” del boss Alessandro, finito di nuovo in manette ieri perché ritenuto capo dell’associazione mafiosa. Mentre quest’ultimo era costretto tra le mura domestiche Omero era andato a trovarlo almeno due volte, il 12 giugno e l’8 settembre, entrambe in compagnia di Astrid, che di Alessandro è figlia e che nel 2009 grazie al politico era diventata presidente di Confcommercio Roma Sud. “L’ho protetta come una sorella – racconta Schiumarini, un passato politico anche in Forza Italia – l’ho nominata presidente dei Commercianti”.
Ma non solo: secondo i pm Schiumarini, che in quella tornata era stato sconfitto al ballottaggio da Fabio Fucci del Movimento 5 stelle, aveva provato a imporre Astrid come assessore in un comune poco distante dove il cognome Fragalà non era noto: “Tu sei stata in lista per fare l’assessore ad Anzio – ricorda il politico alla figlia del boss, finita agli arresti questa mattina – tu quello che sei qui è una cosa, a … a quaranta chilometri … non c’è il collegamento!”. E la famiglia ringraziava sentitamente: “Io ti devo dire ‘Omero grazie’ – gli dice papà Alessandro quel 12 giugno – perché hai preso per mano una ragazza che meritava di essere presa per mano”. E soprattutto perché Schiumarini era un tassello fondamentale del suo piano: “Posizionare membri del sodalizio più ‘presentabili’ – annotano i magistrati – al fine di ottenere ruoli di carattere politico-amministrativo“.
Il disegno dei Fragalà, gente capace secondo gli inquirenti di stipulare un patto “federativo” con i Casalesi, i Fasciani e Senese, è chiaro. Lo illustra il boss in prima persona, e del progetto deve far parte anche un ex consigliere comunale di Pomezia, Fiorenzo D’Alessandri, già consigliere dei Democratici di Sinistra e più volte candidato dal Pd: “Devo dire a Omero che deve collaborare con lui – spiega Alessandro ad Astrid – deve collaborare con lui per riprendersi il comune di Pomezia”.
La strategia è delineata: “Omero si deve mettere da parte – prosegue il patriarca – deve comandare lui però con la faccia di un altro (D’Alessandri, ndr), marcarlo stretto ci favorisce a noi“. Noi inteso come Fragalà. E il nome deve pesare: “A me interessa che lui (D’Alessandri, ndr) c’abbia un Fragalà là dentro, cioè mia figlia”. Perché in questo modo “chiunque va là, vede a mia figlia là dentro dice ‘è coperto’. Chiunque si avvicina a Fiorenzo (dice) ‘cazzo, ho visto Astrid là dentro, ma che ci sta Alessandro dentro?'”. Tradotto: con la presenza di Astrid nei suoi uffici, tutti avrebbero capito che l’ex consigliere comunale era passato sotto la protezione dei Fragalà.
Gli effetti della vicinanza con la famiglia del boss si facevano vedere in breve tempo: “Persone che manco mi guardavano in faccia, che ora salutano, che vanno verso mia moglie a salutare”, confida D’Alessandri a Fragalà l’11 novembre 2015. Ma la presenza non basta. Il capo clan punta più in alto, a entrare nella stanza dei bottoni: vuole che Astrid diventi membro della giunta. “Sceglierà e dirà ‘questa è l’assessore al commercio‘. Perché? Perché sta già là dentro”. In tutto questo Schiumarini ha un ruolo preciso: “Omero deve fare solo praticamente quello che io gli dico di fare – spiega intercettato il 16 ottobre 2015 – Omero deve fare quello che gli dico di fare”. Repetita iuvant, non si sa mai.
Secondo i magistrati il boss poteva stare tranquillo, perché la fedeltà di Schiumarini “non era solo a parole”: “L’ascesa di Astrid Fragalà – annotano i pubblici ministeri nella richiesta delle misure cautelari – era frutto dell’aiuto prestato da Omero, che naturalmente lo rivendicava davanti al capo clan al punto da definirsi ‘uno di casa‘”. E Alessandro delineava i contorni del circolo della fiducia: “Per famiglia io intendo non solo quelli che si chiamano Fragalà e basta, per famiglia intendo persone che possono stare al tavolo con me e possono stare seduti al divano con me”.
Oggi Schiumarini lavora alla Regione Lazio. Dal 1° gennaio 2019 stato assunto con chiamata diretta (articolo 12 del regolamento del Consiglio regionale) a tempo determinato nell’Ufficio Tecnico Europa, che si occupa della gestione dei fondi europei. L’ufficio è di diretta competenza del presidente del Consiglio, che all’epoca dell’inizio del contratto era Daniele Leonori, oggi vice.
Eppure Schiumarini non è un nome sconosciuto, specie negli ambienti giudiziari. Nel 2001 era stato arrestato nell’ambito dell’operazione “Bignè“, la cosiddetta “tangentopoli pometina”, con l’accusa di corruzione in concorso tra gli altri con D’Alessandri, all’epoca capogruppo dei Ds. Nella stessa inchiesta era finito coinvolto Alessandro Fragalà con l’accusa di estorsione aggravata. Nel 2009 il processo finì nel nulla per intervenuta prescrizione e l’intera vicenda si concluse nel 2014, quando la Corte d’Appello di Roma respinse il ricorso presentato da alcuni imputati per vedersi riconosciuta l’assoluzione con formula piena: il tribunale, scrivevano i giudici motivando il rigetto, “ha chiaramente motivato che (…) vi era adeguata prova della reità di tutti gli imputati”.
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