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giovedì 6 giugno 2019

Fragalà, il boss diceva: “Riprendiamoci Pomezia”. Con l’aiuto del consigliere del Pd oggi assunto alla Regione. - Vincenzo Bisbiglia e Marco Pasciuti

Fragalà, il boss diceva: “Riprendiamoci Pomezia”. Con l’aiuto del consigliere del Pd oggi assunto alla Regione

Alessandro Fragalà, capo della presunta associazione mafiosa smantellata dalla Dda di Roma, puntava a mettere i suoi uomini in comune. Al progetto, secondo i magistrati, partecipava Omero Schiumarini, "uno di casa", nel 2013 candidato sindaco sconfitto al ballottaggio da Fabio Fucci del M5s. E oggi consigliere comunale dem e dipendente per chiamata diretta della presidenza del consiglio della Pisana.

Il boss nel 2015 puntava a “riprendersi il comune di Pomezia“, conquistato due anni prima dal M5s, e a farlo con l’aiuto di un esponente del Partito democratico. Che oggi è dipendente a chiamata diretta della presidenza del consiglio della Regione Lazio. Dalle carte dell’inchiesta della Dda di Roma che ha portato all’arresto di 31 persone per una lunga serie di accuse tra cui l’associazione di tipo mafioso, emerge la “zona grigia” in cui nell’area sud della Capitale gli interessi di politici e professionisti si mescolano a quelli della criminalità organizzata.
Oggi è consigliere comunale, eletto con il Pd. Nel 2013 Omero Schiumarini aveva corso e perso per diventare sindaco Pomezia in una lista civica appoggiata dai dem. Tra i Fragalà si autodefinisce “uno di casa“. Non risulta indagato, ma secondo i magistrati nel 2015 era “interlocutore privilegiato sin dal momento della detenzione domiciliare” del boss Alessandro, finito di nuovo in manette ieri perché ritenuto capo dell’associazione mafiosa. Mentre quest’ultimo era costretto tra le mura domestiche Omero era andato a trovarlo almeno due volte, il 12 giugno e l’8 settembre, entrambe in compagnia di Astrid, che di Alessandro è figlia e che nel 2009 grazie al politico era diventata presidente di Confcommercio Roma Sud. “L’ho protetta come una sorella – racconta Schiumarini, un passato politico anche in Forza Italia – l’ho nominata presidente dei Commercianti”.
Ma non solo: secondo i pm Schiumarini, che in quella tornata era stato sconfitto al ballottaggio da Fabio Fucci del Movimento 5 stelle, aveva provato a imporre Astrid come assessore in un comune poco distante dove il cognome Fragalà non era noto: “Tu sei stata in lista per fare l’assessore ad Anzio – ricorda il politico alla figlia del boss, finita agli arresti questa mattina – tu quello che sei qui è una cosa, a … a quaranta chilometri … non c’è il collegamento!”. E la famiglia ringraziava sentitamente: “Io ti devo dire ‘Omero grazie’ – gli dice papà Alessandro quel 12 giugno – perché hai preso per mano una ragazza che meritava di essere presa per mano”. E soprattutto perché Schiumarini era un tassello fondamentale del suo piano: “Posizionare membri del sodalizio più ‘presentabili’ – annotano i magistrati – al fine di ottenere ruoli di carattere politico-amministrativo“.
Il disegno dei Fragalà, gente capace secondo gli inquirenti di stipulare un patto “federativo” con i Casalesi, i Fasciani e Senese, è chiaro. Lo illustra il boss in prima persona, e del progetto deve far parte anche un ex consigliere comunale di Pomezia, Fiorenzo D’Alessandri, già consigliere dei Democratici di Sinistra e più volte candidato dal Pd: “Devo dire a Omero che deve collaborare con lui – spiega Alessandro ad Astrid – deve collaborare con lui per riprendersi il comune di Pomezia”.
La strategia è delineata: “Omero si deve mettere da parte – prosegue il patriarca – deve comandare lui però con la faccia di un altro (D’Alessandri, ndr), marcarlo stretto ci favorisce a noi“. Noi inteso come Fragalà. E il nome deve pesare: “A me interessa che lui (D’Alessandri, ndr) c’abbia un Fragalà là dentro, cioè mia figlia”. Perché in questo modo “chiunque va là, vede a mia figlia là dentro dice ‘è coperto’. Chiunque si avvicina a Fiorenzo (dice) ‘cazzo, ho visto Astrid là dentro, ma che ci sta Alessandro dentro?'”. Tradotto: con la presenza di Astrid nei suoi uffici, tutti avrebbero capito che l’ex consigliere comunale era passato sotto la protezione dei Fragalà.
Gli effetti della vicinanza con la famiglia del boss si facevano vedere in breve tempo: “Persone che manco mi guardavano in faccia, che ora salutano, che vanno verso mia moglie a salutare”, confida D’Alessandri a Fragalà l’11 novembre 2015. Ma la presenza non basta. Il capo clan punta più in alto, a entrare nella stanza dei bottoni: vuole che Astrid diventi membro della giunta. “Sceglierà e dirà ‘questa è l’assessore al commercio‘. Perché? Perché sta già là dentro”. In tutto questo Schiumarini ha un ruolo preciso: “Omero deve fare solo praticamente quello che io gli dico di fare – spiega intercettato il 16 ottobre 2015 – Omero deve fare quello che gli dico di fare”. Repetita iuvant, non si sa mai.
Secondo i magistrati il boss poteva stare tranquillo, perché la fedeltà di Schiumarini “non era solo a parole”: “L’ascesa di Astrid Fragalà – annotano i pubblici ministeri nella richiesta delle misure cautelari – era frutto dell’aiuto prestato da Omero, che naturalmente lo rivendicava davanti al capo clan al punto da definirsi ‘uno di casa‘”. E Alessandro delineava i contorni del circolo della fiducia: “Per famiglia io intendo non solo quelli che si chiamano Fragalà e basta, per famiglia intendo persone che possono stare al tavolo con me e possono stare seduti al divano con me”.
Oggi Schiumarini lavora alla Regione Lazio. Dal 1° gennaio 2019 stato assunto con chiamata diretta (articolo 12 del regolamento del Consiglio regionale) a tempo determinato nell’Ufficio Tecnico Europa, che si occupa della gestione dei fondi europei. L’ufficio è di diretta competenza del presidente del Consiglio, che all’epoca dell’inizio del contratto era Daniele Leonori, oggi vice.
Eppure Schiumarini non è un nome sconosciuto, specie negli ambienti giudiziari. Nel 2001 era stato arrestato nell’ambito dell’operazione “Bignè“, la cosiddetta “tangentopoli pometina”, con l’accusa di corruzione in concorso tra gli altri con D’Alessandri, all’epoca capogruppo dei Ds. Nella stessa inchiesta era finito coinvolto Alessandro Fragalà con l’accusa di estorsione aggravata. Nel 2009 il processo finì nel nulla per intervenuta prescrizione e l’intera vicenda si concluse nel 2014, quando la Corte d’Appello di Roma respinse il ricorso presentato da alcuni imputati per vedersi riconosciuta l’assoluzione con formula piena: il tribunale, scrivevano i giudici motivando il rigetto, “ha chiaramente motivato che (…) vi era adeguata prova della reità di tutti gli imputati”.

domenica 25 novembre 2018

Veneto, sequestrate 2 cave con 280mila tonnellate di rifiuti: “Erano contaminati, li miscelavano per fare lavori stradali”. - Giuseppe Pietrobelli

Veneto, sequestrate 2 cave con 280mila tonnellate di rifiuti: “Erano contaminati, li miscelavano per fare lavori stradali”

Secondo la Dda di Venezia, dopo anni di indagini condotte dalla Guardia di finanza e dai carabinieri forestali, le società che gestivano i siti 'depuravano' l'immondizia contaminata da metalli pesanti e amianto grazie alla miscelazione con altri rifiuti. E invece di smaltirla, la utilizzavano poi nell'edilizia o nelle grandi opere stradali. L'accusa è traffico illecito di rifiuti.

Non è facile immaginare 280mila tonnellate di materiale. E neppure diecimila tir, allineati uno dietro all’altro, necessari per trasportare montagne di rifiuti. La Direzione distrettuale antimafia di Venezia, dopo due anni di indagini coordinate dal pubblico ministero Giorgio Gava e condotte dalla Guardia di finanza e dai carabinieri forestali, ha chiesto e ottenuto il sequestro di due cave, riempite di immondizia. Si trovano a Noale, in provincia di Venezia, e a Paese, in provincia di Treviso.
In quest’ultima località il territorio comunale è stato trasformato in un autentico gruviera dallo scavo di cave nel corso dei decenni. Una di queste ospita una delle due discariche finite sotto sequestro perché il materiale contaminato da metalli pesanti e da amianto, sarebbe stato utilizzato per sottofondi stradali. Una procedura che avrebbe dovuto prevedere la pulizia. Invece, grazie alla miscelazione con altri rifiuti provenienti dal Veneto e dalle regioni vicine, vi sarebbe stato l’utilizzo per lavori stradali.
La competenza della procura distrettuale è scattata a causa dei reati ambientali connessi al traffico illecito di rifiuti. Le due discariche sono utilizzate dalla società Cosmo Ambiente di Noale, che è specializzata nel recupero e nello smaltimento di rifiuti speciali pericolosi nonché nella realizzazione di discariche e manufatti in calcestruzzo. I responsabili della società risultano indagati da un anno. A suo tempo vennero effettuate perquisizioni che sono servite ad acquisire i documenti riguardanti la movimentazione dei rifiuti e il loro eventuale utilizzo per lavori stradali.
Sono poi stati eseguiti campionamenti e verifiche sulla composizione dei rifiuti. E così si è chiuso il cerchio attorno a un impianto di trattamento a Noale, dove sono stoccate circa 80mila tonnellate, e alla cava Campagnole in località Padernello di Paese, dove si trova il quantitativo più imponente, circa 200mila tonnellate. Questa cava è di proprietà della ditta Canzian, ma è stata data in concessione alla Cosmo. Sono centinaia le aziende del Nord Est – e non solo – che vi trasportano rifiuti inquinati e contaminati.
Secondo gli investigatori – hanno operato anche i tecnici dell’Arpav – non sarebbe stato rispettato l’obbligo di trattare i rifiuti, eliminando amianto e metalli pesanti come rame, nichel, piombo e selenio. Vi sarebbe stata una semplice miscelazione con altri rifiuti, meno inquinati, così da ridurre la percentuale di contaminazione. Sarebbero stati poi aggiunti calce e cemento per produrre un amalgama da utilizzare nell’edilizia o nelle grandi opere stradali. Il provvedimento di sequestro è stato firmato dal gip Luca Marini. Le inchieste proseguono per verificare quale sia stato e dove sia avvenuto l’utilizzo del materiale.
Il gruppo Cosmo è il frutto dell’evoluzione di un’impresa familiare fondata più di cinquant’anni fa da Gino Cosmo. Oltre a Cosmo Ambiente, comprende Cosmo Scavi e Cosmo Servizi Ambientali. Tra i lavori effettuati, vi sono il Passante di Mestre, il casello autostradale di Noventa di Piave, l’aeroporto Marco Polo di Venezia e il parco San Giuliano di Mestre.
Mentre la sede centrale è a Noale, la discarica di Paese si trova in provincia di Treviso. Quest’ultima località conta la bellezza di 29 cave, che ne fanno il Comune più scavato della Marca. In una decina di casi le cave sarebbero a diretto contatto con la falda, in una zona ambientale particolarmente sensibile, perché a pochi chilometri vi sono le sorgenti del fiume Sile, costituite da risorgive, in un’area di grande bellezza naturalistica.
Fonte: ilfattoquotidiano del 23 novembre 2018

lunedì 23 giugno 2014

Mafia, oltre 90 arresti a Palermo. Messineo: “Blitz su mandamento strategico”.


Associazione mafiosa, estorsione, danneggiamento alcuni dei reati contestati. Una cimice ha svelato dopo più di 100 anni il killer del poliziotto italo-americano Joe Petrosino. Dal profilo Facebook un presunto capo cosca insultava i pentiti e chiedeva l'amnistia. Tra gli indagati per voto di scambio anche un candidato alle ultime amministrative che chiedeva revoca vitalizio per condannati per mafia.
A Palermo l’operazione antimafia “Apocalisse” ha  sgominato la nuova Cupola del mandamento di San Lorenzo e Resuttana portando all’arresto di 95 “uomini d’onore”, accusati a vario titolo di associazione mafiosaestorsione, danneggiamento e altri reati. Nel corso dell’operazione eseguita dai carabinieri, polizia e guardia di finanza di Palermo sono anche stati sequestrati complessi aziendali per diversi milioni di euro. 
Le indagini, che sono state coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, hanno consentito di ricostruire il nuovo organigramma dello storico mandamento mafioso alla periferia occidentale della città. Gli investigatori hanno individuato capi e gregari, accertando numerose estorsioni praticate in modo capillare e soffocante da cosa nostra ai danni di imprese edili ed attività commerciali del territorio e riscontrando un diffuso condizionamento illecito dell’economia locale.
Secondo le indagine a capo del mandamento di San Lorenzo e Resuttana c’era Girolamo Biondino, fratello di Salvatore, l’autista di Totò Riina. L’uomo era stato da poco scarcerato ed era già tornato alla guida del clan; per evitare di tornare nuovamente in prigione, Biondino faceva il pensionato, girava solo in autobus ed evitava di farsi vedere in giro con altri uomini d’onore. Dopo la scarcerazione, infatti, l’uomo doveva ancora scontare un residuo di pena con la misura di prevenzione della ‘casa lavoro’ al Nord. Secondo gli investigatori era lui a tenere le fila e imporre il pizzo a tappeto nel mandamento. 
A distanza di oltre un secolo l’operazione “Apocalisse” ha portato alla luce anche il nome dell’assassino di Joe Petrosino, il poliziotto italo-americano venuto a Palermo per sgominare una banda di mafiosi, ucciso il 12 marzo 1909. Il particolare è emerso da una conversazione telefonica captata da una delle cimici degli investigatori.  A rivelarlo è stato Domenico Palazzotto, 29 anni, che si vantava con gli amici che il killer di Petrosino era stato uno zio del padre: “Ha fatto lui l’omicidio del primo poliziotto ucciso a Palermo. Lo ha ammazzato lui Joe Petrosino”, aveva detto agli amici mentre le microspie lo registravano. Joe Petrosino venne ucciso alle 20.45 del 12 marzo 1909, tre colpi di pistola in rapida successione e un quarto sparato subito dopo, suscitarono il panico nella piccola folla che attendeva il tram al capolinea di piazza Marina a Palermo. 
Gregorio Palazzotto, secondo gli investigatori il capo della cosca dell’Arenella che si trova in carcere, aveva aperto un profilo Facebook da dove insultava i pentiti. “Non ho paura delle manette, ma di chi per aprirle si mette a cantare”. Attraverso la pagina sui social faceva rivendicazioni contro il sovraffollamento delle carceri e chiedeva l’amnistia.
“È un’operazione molto importante, perché incide su un mandamento da sempre strategico per Cosa nostra e un tempo regno incontrastato dei Lo Piccolo e da sempre al centro delle attività di controllo di Cosa nostra” dice all’Adnkronos il procuratore capo di Palermo Francesco Messineo commentando la più grande operazione antimafia degli ultimi anni a Palermo. “Si tratta di un’operazione interforze gestita di comune accordo e in piena sintonia e condivisione delle tre più importanti forze di polizia – dice ancora Messineo -. È la dimostrazione di un forte impegno dello Stato e della totale assenza di divisioni e conflitti e di un efficace coordinamento assicurato dalla Dda”. Nell’operazione non ci sono stati contributi dei pentiti: “Ciò non vuol dire che i collaboratori non siano importanti, ma questa è un’operazione gestita con metodi assolutamente tradizionali, con accertamenti diretti sul campo”.
Tra gli indagati c’è anche un candidato alle ultime amministrative per l’Udc (non eletto) che chiedeva con forza la revoca del vitalizio dei deputati e senatori condannati per mafia e che adesso si ritrova indagato per voto di scambio. Nei giorni scorsi aveva parteicpato al flashmob organizzato davanti a Montecitorio per chiedere la revoca del vitalizio ai condannati per reati mafiosi, come l’ex senatore Salvatore Cuffaro. La Procura aveva chiesto il suo arresto ma il gip ha concesso il divieto di dimora a Palermo. Secondo gli investigatori avrebbe chiesto i voti alla cosca mafiosa dell’Arenella.

venerdì 17 maggio 2013

Amministrative 2013, Nettuno: escludono il ‘suo’ candidato, lui si vendica in piazza. - Andrea Palladino




Gli investigatori stanno cercando di fare chiarezza sulla trovata di un imprenditore indagato per 'ndrangheta e poi archiviato: a bordo di un camion munito di altoparlante, ha raccontato una serie di affari sospetti e fatto i nomi di esponenti politici accanto, molti dei quali inseriti nelle liste elettorali del centrodestra.

E’ un rap tutto particolare quello che a Nettuno ha creato un terremoto politico. Scandisce nomi, sospetti, accuse precise di corruzione. E’ stato diffuso per qualche ora a fine aprile per le strade del centro da un camion telonato, di quelli usati per portare la verdura ai mercati, guidato da tale Ferdinando Mancini. Occhiali a specchio, piccolo orecchino, capelli rasati e faccia imperturbabile. Scandisce con chiarezza le parole: allacci abusivi di acqua, gestione dei rifiuti, mega appalti per il porto, abusivismi edilizi, amicizie sospette. Con nome e cognome di esponenti politici accanto, molti dei quali inseriti nelle liste elettorali del centrodestra. Il video è sparito da Youtube pochi giorni dopo la diffusione, mentre le forze dell’ordine stanno cercando di capire che consistenza hanno le accuse cadute sull’unico comune del Lazio dichiarato sciolto per contiguità con le organizzazioni mafiose – era il 2007 – e che oggi si avvia a rinnovare il consiglio comunale, dopo cinque anni di amministrazione del Pd. 
Ad inquietare è il nome dell’improvvisato rapper. Fernando Mancini è un imprenditore con un passato non proprio specchiato. Citato ampiamente nella relazione che la commissione d’accesso consegnò al Prefetto di Roma Achille Serra e che portò allo scioglimento, è stato più volte indagato per reati finanziari. Su di lui si era concentrata anche l’attenzione della Dda di Roma nell’ambito dell’inchiesta Appia, che portò all’arresto di molti esponenti del clan di ‘ndrangheta Gallace-Novella. Ne uscì pulito, con una archiviazione, ma di certo – secondo gli atti delle indagini – la sua carriera di imprenditore ha avuto, almeno nel passato, molti punti d’ombra.
Negli ultimi mesi Mancini ha puntato direttamente alla politica, sostenendo il Pdl locale. Facendolo alla grande, scalando i vertici del partito in vista delle elezioni comunali. In città tante fonti, anche interne al Pdl, raccontano che lo scorso anno riuscì a mettere le mani su almeno cinquecento tessere, controllandole direttamente, pronto a condizionare le scelte in vista del rinnovo del consiglio comunale. Arrivati al momento della stesura delle liste il nome a lui gradito era, però, sparito. Troppo ingombrante la sua storia, si sussurrava negli ambienti del Pdl. La sua risposta è stata eclatante, lavando tutti i panni sporchi nella pubblica piazza, con l’improvvisato rap, che ha come leit-motiv la constatazione che dall’epoca dello scioglimento poco è cambiato nella politica di Nettuno.
“Penso che neanche a Rosarno si siano mai viste cose del genere”, commentano alcuni investigatori, preoccupati per il clima che si è creato a pochi giorni dall’apertura dei seggi elettorali in una zona – quella del litorale romano, compreso tra Anzio e Nettuno – dove la presenza delle organizzazioni criminali è ormai radicata. Qui, come hanno raccontato diversi collaboratori di giustizia della ‘ndrangheta, da decenni è attiva una ‘ndrina, con decine e decine di affiliati. Tra poco il tribunale di Velletri si ritirerà in camera di consiglio per decidere sulla richiesta di centinaia di anni di condanna per molti esponenti della famiglia Gallace, il cui capo Vincenzo Gallace è stato già condannato dalla corte d’assise di Milano per l’omicidio di Carmine Novella. Forte anche la presenza della camorra, che convive senza grandi problemi con gli esponenti della mafia calabrese. Il 25 luglio del 2012 Modesto Pellino, luogotenente del clan Moccia, venne ucciso in un agguato in pieno centro storico. Il comune gli aveva concesso anni prima la residenza, mentre era da tempo nella lista dei principali ricercati.
A preoccupare ora è il silenzio calato sulla vicenda, almeno quello della politica. La campagna elettorale è proseguita come se nulla fosse accaduto. Il sindaco uscente Alessio Chiavetta, Pd, si è detto sicuro che a Nettuno, in fondo, tutto va bene: “Nessuno si permetta più di infangare il nome della nostra città, non c’è nessun allarmismo”, ha dichiarato a fine aprile, pochi giorni dopo il rap di Mancini. Di diverso avviso le associazioni del litorale: “Chiediamo con forza che la Dda di Roma apra subito un’inchiesta su quanto sta avvenendo”, spiega Edoardo Levantini, presidente del coordinamento antimafia di Anzio e Nettuno.