giovedì 27 agosto 2020

Bonomi “chiagni e fotti”: batte cassa, ma vuole far fuori Conte. - Salvatore Cannavò

Bonomi “chiagni e fotti”: batte cassa, ma vuole far fuori Conte

Matteo Salvini, da buon populista, ha introdotto nel sistema politico il modello del vittimismo a prescindere. Lagnarsi, lamentarsi, gridare allo scandalo per emergere e darsi un tono. Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, adotta lo stesso modello.
In un’intervista monstre concessa ieri a La Stampa, ha mescolato cospicue dosi di vittimismo – “Non ci vogliono mai ascoltare, abbiamo presentato piani che non vengono letti, le nostre proposte giacciono nei cassetti” – con una poco commendevole richiesta finale: dateci un tavolo in cui anche noi possiamo contare, ergo “un patto per l’Italia”.
La modalità di Bonomi non è nuova, semmai lo è la virulenza con cui presenta ogni sua nuova incursione.
L’intervista concede molto alla demagogia spicciola: “Il governo ha varato le misure anti-crisi, ma mancano oltre 400 decreti attuativi”; ovvio, le misure risalgono a poche settimane fa. “Ci avevano detto che ad agosto avrebbero lavorato alla stesura del piano di riforme per il Recovery fund e invece è tutto fermo”: neanche per sogno, il governo ha istituito l’apposito comitato istituzionale presieduto dal ministro Vincenzo Amendola e a settembre si vedranno i primi risultati. Ancora: “Ci avevano detto che avrebbero presentato progetti per il Mes e l’emergenza sanitaria e invece è tutto fermo”. Sarebbe interessante sapere chi gliel’aveva detto, visto che il governo non ha, al momento, intenzione di ricorrere al Mes, come è noto.
Ma Bonomi è imperterrito e mette sul tavolo la vera pistola carica di cui dispone: “Un milione di posti di lavoro bruciati resta un numero purtroppo molto credibile”. Capito? Quello che ha il potere, via imprese, di mettere per strada un milione di lavoratori “avverte” il governo che la cosa potrebbe succedere. Non a caso sul divieto di licenziamento nel “decreto Agosto” si è sviluppata una lotta interna in cui il M5S ha cercato di estendere la protezione dei lavoratori mentre tutti gli altri hanno provato ad abolirla.
Lamentarsi (senza argomenti), minacciare i licenziamenti (con un chiaro ricatto) per chiedere un banale “patto per l’Italia” cui solo i sindacati più accondiscendenti possono abboccare. E sciorinando tre punti che, come sempre, vengono definiti “essenziali”: “Un piano di riforme strutturali” (che vuol dire?); “Un piano di politica industriale di mercato rinunciando a ogni disegno statalista” (questo si capisce, lasciateci fare i fatti nostri in pace); “Terzo punto: operazioni di fiducia sulle imprese”, cioè, fateci fare i fatti nostri.
L’arroganza si mescola alla spocchia, perché Bonomi è convinto che la parziale ripresa economica, in gran parte dipesa dalla manifattura, sia stata “generata da noi imprenditori che ci siamo rimboccati le maniche”. Nella sua visione delle cose i lavoratori non esistono. E da questo punto di vista “padronale” prova a mettere in riga il governo che, evidentemente, non deve ascoltarlo troppo.
Confrontando l’intervista al resto della rassegna stampa si coglie il parallelismo tra l’insofferenza confindustriale e i ripetuti appelli affinché il Pd molli i 5Stelle. “Il Pd deve valutare se stare al governo sia una ragione sufficiente per deflettere dalla propria identità” (Claudio Tito su Repubblica); “Un partito che coltiva l’orticello di sinistra rischia di essere non tanto una roba vecchia, ma una roba poco utile” (Claudio Cerasa sul Foglio: il partito centrista, invece è stato utile); “Prima di avventurarsi a costruire un’alleanza organica con il M5S dovrebbe essere in grado di diventare un riferimento stabile per la sinistra di LeU e Italia Viva, ma anche per le formazioni guidate da Carlo Calenda e Emma Bonino” (Paolo Mieli sul Corriere della Sera: hai detto un prospero, si dice a Roma). L’ipotesi di un “nuovo centrosinistra” M5S-Pd non piace alla stampa liberal e non piace a Confindustria. Uniti come non mai.
Abituati com'erano a dare ordini al governo, non accettano che il governo si occupi di governare il paese, invece di assecondare le loro pretese.

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