mercoledì 28 ottobre 2020

Veneto, il contagio sono i clan. - Filippomaria Pontani

 

Il mito produttivo - Anche in pieno lockdown le imprese sono riuscite a moltiplicarsi. E con esse il dominio della criminalità. Dall’edilizia alla ristorazione, dai rifiuti alle vongole. Nel placido regno del doge Zaia.

Il Veneto che produce, e non si ferma. Nel pieno del lockdown, tra marzo e maggio, su 2700 imprese nate in Veneto oltre un terzo aveva ai vertici persone con precedenti per usura, riciclaggio, frode fiscale o mafia.

Pochi mesi prima, il procuratore Bruno Cherchi aveva dichiarato che “esiste un sistema omertoso ormai diffuso nel mondo imprenditoriale veneto”, e che “il Veneto è un luogo di investimento dei proventi delle attività criminose”. Di “piena infiltrazione” per il Friuli-Venezia Giulia parlava nel 2019 il procuratore di Trieste Carlo Mastelloni. Sabato scorso sono stati messi i sigilli a diverse grosse aziende di logistica e di lavorazione del porfido nella valle dell’Adige, sospettate di inquinamento mafioso. Ma l’estate è stata anche più traumatica: il 3 giugno a Verona – provincia dove sin dal 2019 era acclarata la perniciosa presenza del clan Multari – l’operazione “Isola Scaligera” ha portato in manette l’ex presidente dell’azienda dei rifiuti, e indagato l’ex sindaco Flavio Tosi e altre decine di persone (15 i milioni confiscati) nell’àmbito dell’inchiesta su un sistema ramificato all’estero (Albania), guidato dalle ’ndrine ma gestito da un avvocato massone del Polesine. Il 15 luglio, poi, l’operazione “Taurus” ha visto 33 arresti e 100 avvisi di garanzia (e il sequestro di beni per 3 milioni di euro) per estorsione, usura, riciclaggio, fatture false, traffico di droga, furto, e associazione di stampo mafioso, tra Lazise, Sommacampagna e Villafranca: legami solidi con Gioia Tauro e con le famiglie calabresi, ma anche vistoso coinvolgimento di imprenditori e professionisti veronesi scesi a patti coi clan (salvo poi pentirsene) per il recupero crediti. E basta percorrere il territorio per rendersi conto che il business delle ecomafie non sembra perdere colpi nemmeno dopo inchieste giudiziarie a largo raggio come la famosa “Cassiopea”, peraltro finita nel 2011 con un’accorante prescrizione. Ne fanno fede i continui roghi di capannoni abbandonati e riempiti di rifiuti più o meno tossici: solo negli ultimi 12 mesi due incendi alla Futura srl di Montebello Vicentino e due alla Snua di Aviano (gli ultimi il 12 e 18 settembre), un altro il 18 maggio a Sandrigo, per non parlare dei 46 episodi registrati e documentati dal 2009 al 2016 tra Zevio, Boara Polesine, Motta di Livenza… insomma ai quattro angoli della regione.

Non è certo un caso che proprio nell’àmbito dei rifiuti gravitino i più grossi scandali scoppiati dal 2000 in poi, come quello della Ramm di Alessandro Rossato attiva tra Venezia e la Calabria (dove era in affari con la costa Alampi-Libri), quello del trevigiano Stefano Gavioli arrestato per la gestione dei rifiuti di Napoli e della Calabria (ma poi assolto da ogni addebito, e ora di nuovo in pista in quel di Teramo), quello del consulente della sottosegretaria leghista all’ambiente Fabrizio Ghedin che l’anno scorso cercava di corrompere Fanpage.it per tacitare una veemente inchiesta sulle ecomafie a Nord-est, o ancora quello dell’alto dirigente regionale Fabio Fior, condannato in Cassazione a 4 anni e da più parti indicato come referente della “cricca dei rifiuti” nei 15 anni di controllo decisionale sulle politiche ambientali del Veneto. A leggere il libro di Luana de Francisco e Ugo Dinello Crimini a Nord-Est (Laterza 2020) si ricava l’impressione che le società criminali più varie abbiano trovato tra Veneto e Friuli un terreno fertile e pronto a una sollecita connivenza. Spesso la propaganda leghista si concentra, con facili quanto ipocrite filippiche (chi si fa di coca? chi compra le finte borsette Gucci? chi paga le signorine in tangenziale? per chi lavorano gli operai-schiavi?), sulle attività tenute prevalentemente dagli stranieri: dal traffico di oggetti contraffatti in mano alla mafia cinese dello Zheijang a quello della droga che fa capo (per lo più) ai nigeriani, dalla prostituzione gestita dai clan albanesi e kosovari (pure attivi nella tratta di esseri umani sul confine orientale) alle pratiche di caporalato di bengalesi e albanesi nei cantieri navali di Porto Marghera e Monfalcone – ma i confini fra queste aree di competenza sono porosi, e non di rado generano sanguinosi conflitti tra le bande.

Tuttavia, oltre agli innegabili legami – non sempre pacifici – tra questi cartelli e le organizzazioni nostrane (che per lo più mirano oggi ad attività meno “sporche” e più redditizie), ciò che emerge in modo più preoccupante dal dossier di De Francisco e Dinello – come già dalle mirabili indagini di Gianni Bellonni – è l’allignare in diverse zone di una criminalità italiana stanziale capace di produrre focolai endemici, e di diffondere a largo raggio quel contagio sommerso dell’omertà e dell’illegalità (rare le denunce di operazioni sospette; rarissime quelle di capannoni occupati, pur certo non poco visibili), che parrebbe aver superato ormai il punto di non ritorno. Con tanto di colletti bianchi, commercialisti, mediatori autoctoni pronti a riciclare denaro, oggi come ieri, approfittando delle imprese in difficoltà. È balzato agli onori delle cronache nazionali il consolidato strapotere di una fazione del clan camorristico dei Casalesi nel litorale veneziano, dall’edilizia alla ristorazione, dal narcotraffico al voto di scambio alla distrazione dei fondi europei: il processo contro 26 imputati, tra i quali il boss di Eraclea, Luciano Donadio da Giugliano (amico di Sandokan: “Infórmati chi sono, ti sparo in bocca”, soleva dire per persuadere), è attualmente in corso nell’aula-bunker di Mestre, e perfino il teste-chiave nel dibattimento, l’ex ragioniere della banda, il veneto Christian Sgnaolin, dichiara di avere paura. Ma non è inutile ricordare che per anni il business dei lancioni turistici al Tronchetto di Venezia è stato in mano al boss dell’Acquasanta Vito Galatolo (custode designato dell’esplosivo destinato a Nino Di Matteo, e cugino del regista dell’attentato all’Addaura), che negli anni 2000 l’usura campana (la famigerata società Aspide, che ha dato il nome all’omonimo processo) teneva in scacco il Padovano, e che sin dagli anni 90 la mafia siciliana – poi largamente scalzata dalla ’ndrangheta – aveva messo le mani, per lo più tramite prestanome, sul turismo, sul settore agroalimentare e della ristorazione, perfino sulla stabulazione e la raccolta delle vongole. Tutti settori oggi in crisi, in attesa di ristori e rilanci.

Questa scalata delle organizzazioni criminali, se pure – come molti amano ripetere con fare autoassolutorio – ha avuto origine nei contatti tra criminalità locale e mafiosi spediti al soggiorno obbligato dagli anni 80 in poi (da ultimo, fino al 2017, il figlio di Totò Riina; ma tra Abano Terme e il Vicentino latitarono alcuni dei protagonisti della stagione stragista, da Piddu Madonia ai fratelli Graviano), di certo ha esplicato e radicato tutto il suo potere negli ultimi due decenni: né risulta che la questione – al di là dei consueti proclami – sia mai stata in cima ai programmi delle numerose giunte leghiste e forzitaliote succedutesi a Palazzo Ferro Fini. A tener desta l’attenzione sul tema, anzitutto a livello di informazione, è sempre stata l’opposizione: il LeU Piero Ruzzante, qualche volonteroso 5stelle (per esempio Patrizia Bartelle, che ha poi abbandonato il MoVimento), e soprattutto, storicamente, gli infaticabili consiglieri e deputati pd Alessandro Naccarato e Nicola Pellicani: quest’ultimo nel luglio scorso, dopo lo scoppio di “Taurus”, ha vanamente chiesto l’insediamento di una Commissione regionale d’inchiesta, proprio in previsione dei pericoli di ulteriori infiltrazioni dovute alla crisi economica post-pandemia (crisi di liquidità, soldi a pioggia e controlli allentati); l’Osservatorio per il Contrasto alla Criminalità della Regione ha invece allineato nel suo recente rapporto, accanto a un’interessante analisi storica del consigliere pd Bruno Pigozzo, anche le paginette sbrigative e un po’ sbagliate del senatore leghista Giovanni Fabris.

È in questa luce che può leggersi lo sgomento di chi vede oggi il trionfale 76% del governatore Zaia tradursi in un 41 (maggioranza) a 9 (opposizione) nel Consiglio regionale: tra quegli sparuti nove, senz’altro, vi saranno nuovi alfieri di questa imprescindibile battaglia sia nel Pd sia (la sola e combattiva Erika Baldin) nel M5S: ma non sarebbe male che, sia pur tardivamente, pensassero almeno a unire le forze.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/28/veneto-il-contagio-sono-i-clan/5982221/

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