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lunedì 25 febbraio 2019

BBC – L’occupazione britannica tocca un altro record. - Rododak

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Un articolo della BBC riporta – con una certa qual cautela – i nuovi, ottimi dati sul record di occupati nel Regno Unito, che hanno toccato il livello più alto dal 1971, con un effetto particolarmente favorevole sulla disoccupazione femminile. Naturalmente, i commenti – in casi come questo – sottolineano che gli effetti della Brexit non si fanno ancora sentire (fossero dati negativi, però, sarebbero stati attribuiti alla Brexit senza fallo) e non demordono dal lanciare fosche previsioni per i prossimi mesi. Ma continuare a discutere di ipotesi è ormai diventato perfino noioso: limitiamoci ai fatti, che oggi dicono che la disoccupazione nel Regno Unito è calata e – soprattutto – che i salari di conseguenza crescono al di sopra del livello dell’inflazione, più di quanto è avvenuto negli anni scorsi. Il potere d’acquisto dei lavoratori quindi aumenta, i salari reali hanno raggiunto il livello più alto da marzo 2011: non è interessante? 

Il numero di persone che lavorano nel Regno Unito ha continuato a salire, con un record di 32,6 milioni di occupati tra ottobre e dicembre, come mostrano le ultime cifre dell’Ufficio per le statistiche nazionali.

La disoccupazione è variata di poco nel trimestre, attestandosi a 1,36 milioni.

Il tasso di disoccupazione, fermo al 4%, è al livello minimo dall’inizio del 1975.

I salari medi settimanali sono aumentati del 3,4% toccando le 494,50 sterline, calcolando fino a dicembre, – tenuto conto dell’aggiustamento per l’inflazione, è il livello più alto dal mese di marzo 2011.

I salari reali più alti da marzo 2011. Salario medio settimanale, aggiustato per l’inflazione. Fonte: Office for National Statistics, UK.

Il numero delle persone occupate tra ottobre e dicembre è aumentato di 167.000 unità rispetto al trimestre precedente, e di 444.000 unità rispetto allo stesso periodo del 2017.

Il tasso di occupazione – definito come la percentuale di persone di età compresa tra 16 e 64 anni che hanno un lavoro – è stato stimato pari al 75,8%, superiore al tasso del 75,2% registrato l’anno precedente e a pari livello con il tasso più alto mai toccato da quando si è iniziato a confrontare i livelli di occupazione in modo comparabile, nel 1971.

Il ministro per l’Occupazione Alok Sharma ha dichiarato: “Mentre l’economia globale sta affrontando diverse sfide, in particolare nei settori come il manifatturiero, queste cifre mostrano la resilienza di fondo del nostro mercato del lavoro – che ancora una volta offre livelli record di occupazione”.

Matt Hughes, vice capo del settore che si occupa del mercato del lavoro dell’ONS (Office for National Statistics, l’istituto nazionale di statistica britannico, ndt) ha dichiarato: “Il mercato del lavoro rimane solido, con il tasso di occupazione rimasto ai massimi livelli e le posizioni vacanti che raggiungono un nuovo livello record. Anche il tasso di disoccupazione è diminuito, e per le donne è sceso sotto il 4% per la prima volta in assoluto.”

Tasso di occupazione massimo dal 1971. Percentuale della popolazione UK tra 16-64 anni con un lavoro. Fonte: Office for National Statistics, UK. Margine di errore: +/- 0.4%

Tuttavia, Andrew Wishart, economista britannico di Capital Economics, ha avvertito che i dati del mese prossimo potrebbero non essere così vivaci:

“I dati sul mercato del lavoro, con l’occupazione in aumento, non rispecchiano lo scivolone registrato nelle inchieste sulle assunzioni a dicembre “, ha affermato.

“Tuttavia, i risultati delle indagini sono peggiorati in modo più marcato a gennaio, quindi un effetto Brexit potrebbe iniziare a indebolire la crescita dell’occupazione nella prossima serie di dati ufficiali”.

Analisi. 

di Dharshini David, giornalista economico della BBC. 
Il mercato del lavoro rimane in forma robusta nonostante la perdita di slancio dell’economia verso la fine dello scorso anno – tuttavia l'”effetto nebbia” della Brexit potrebbe non essere ancora stato registrato.

Proseguendo le recenti tendenze, la maggior parte di coloro che sono entrati nel mercato del lavoro erano precedentemente inattivi (studenti, persone a casa per accudire familiari, malati a lungo termine ecc.).

La domanda di lavoro continua a sostenere la crescita dei salari. I salari reali sono aumentati di oltre l’1% all’anno, complessivamente meglio rispetto agli ultimi anni, sebbene ancora circa la metà rispetto all’era pre-crisi.

Finora quindi non ci sono grandi tracce del fatto che l’incertezza sulla Brexit ostacoli le assunzioni – ma va detto anche che la domanda nel mercato del lavoro ha una marcata tendenza a non tenere il passo con le variazioni della produzione.

Indagini più recenti sull’occupazione mostrano un deciso deterioramento a gennaio, quindi l’effetto Brexit potrebbe iniziare a indebolire la crescita dell’occupazione nella prossima serie di dati ufficiali.

E la produttività – produzione oraria – è diminuita dello 0,2% nel quarto trimestre del 2018 rispetto a un anno prima, poiché la produzione è aumentata più lentamente dell’occupazione. La mancanza di progressi in questo settore potrebbe pesare sulla crescita dei salari nel lungo periodo.

Carenza di specializzazione. 

Guardando le cifre medie dei guadagni, Samuel Tombs, capo economista britannico di Pantheon Macroeconomics, ha dichiarato: “Con un surplus di lavoro estremamente scarso e le offerte di lavoro che toccano un nuovo massimo storico, i lavoratori hanno più successo nell’ottenere aumenti salariali al di sopra dell’inflazione. Guardando al futuro, dubitiamo che la crescita dei salari scivolerà al di sotto del 3% quest’anno”.

Nonostante gli aumenti salariali e il basso tasso di disoccupazione, Suren Thiru, capo del settore economico delle Camere di commercio britanniche, non ritiene che una High Streets in difficoltà ne trarrà benefici.

Ha affermato: “L’aumento della spesa dei consumatori derivante dal recente miglioramento della crescita dei salari reali sarà probabilmente limitato dalla scarsa fiducia dei consumatori e dagli elevati livelli di debito delle famiglie. L’aumento del numero di posti vacanti a un nuovo massimo storico conferma che la carenza di manodopera e di competenze specializzate è destinata a rimanere un significativo ostacolo per le attività economiche per un certo tempo a venire, impedendo la crescita e la produttività del Regno Unito”.

mercoledì 13 aprile 2016

Italia inferno dei lavoratori: tasse sul lavoro in crescita, salari bassi e occupazione stagnante. Ecco i dati. - Marta Panicucci

Nonostante il governo continui a parlare di ripresa dell’occupazione e della “più grande operazione di riduzione delle tasse mai vista in Italia” i dati OCSE sulle tasse sul lavoro raccontano un’altra storia. E l’Organizzazione mondiale per la cooperazione e lo sviluppo economico non può essere certo accusata di “gufismo” nei confronti del governo italiano. 
Salari più bassi della media UE e tasse molte più alte dei Paesi dell’OCSE: è questo il cocktail letale che ammazza il mercato del lavoro italiano. Ma il governo, nonostante ogni organizzazione economica mondiale, dalla BCE al Fondo monetario internazionale, abbia più volte consigliato all’Italia di agire sul costo del lavoro, continua a dare mancette e sgravi fiscali temporanei che lasciano il tempo che trovano mentre una generazione di giovani è costretta a vagare per l’Europa e per il mondo alla ricerca di un lavoro, ciò che l’Italia non è più in grado di offrire.
Secondo lo studio “Taxing Wages” dell'Ocse, il cuneo fiscale (ovvero il prelievo fiscale complessivo tra tassazione e contributi previdenziali) nel 2015 è aumentato di 0,76 punti percentuali arrivando così al 49%. L’Italia sale al quarto posto tra i 34 Paesi OCSE per il peso delle tasse sullo stipendio di un lavoratore medio “single” senza figli, arrivando al pari dell'Ungheria, superando la Francia (48,5%) e allontanandosi ancor più dalla media OCSE (35,9%). L’aumento delle tasse sul lavoro in Italia è da imputare alle tasse sul reddito, dal momento che i contributi previdenziali sono rimasti stabili.
Le imposte sul reddito, infatti, nel 2015 sono salite dal 16,7% del 2014 al 17,5% a cui si aggiungono i contributi a carico del dipendente pari al 7,2% e i contributi a carico del datore di lavoro per il 24,3%. Per quanto riguarda le tasse sul lavoro al primo posto tra i Paesi OCSE troviamo la Svizzera, seguita dal Belgio e dalla Germania (dove però lo stipendio lordo è molto più consistente).
Ma l’Italia non solo risulta tra i primi Paesi OCSE per la tasse sul lavoro, ma occupa anche gli ultimi posti in classifica per quanto riguarda il reddito medio. Secondo i dati del JobPricing nel Salary Outlook 2016 (anticipati dal Sole 24 Ore), nel 2015, la retribuzione annua lorda di un dipendente in Italia era di 28.693 euro. Circa 3.700 euro in medio rispetto alla media UE di 32.419 euro.Con questo dato l’Italia si posiziona al nono posto con un forte distacco dalla Francia (37.427 euro) e dalla media tedesca (45.953 euro). Non solo i lavoratori in Italia incassano uno stipendio medio nettamente inferiore rispetto ai loro colleghi europei, ma viene anche eroso da una tassazione sul lavoro tra le più alte dei 34 Paesi dell’OCSE.
Come se non bastasse questa mattina è arrivato anche l'ultimo rapporto trimestrale su occupazione e situazione sociale, pubblicato dalla Commissione Ue su dati relativi al terzo trimestre 2015. L'Italia risulta essere il Paese europeo con il tasso più basso di popolazione attiva, l'unico dove rimane sotto il 65% a fronte di una media del 72,8% in costante miglioramento. Il Belpaese detiene anche il primato per il tasso più elevato di 'scoraggiati' (14,4% della forza lavoro), cioè coloro che hanno smesso di cercare lavoro. 
Questi sono numeri, dati, provenienti da fonti internazionali attendibili, non da gufi nostrani e raccontano di un mondo del lavoro italiano tutt’altro che vantaggioso. A cui si aggiunge la difficoltà ad entrare nel mercato del lavoro con un rapporto che non sia precario e magari sottopagato. Il governo Renzi nel momento del suo insediamento ha dichiarato guerra alla disoccupazione, in particolare quella giovanile, promettendo ricette vincenti per ridare slancio all’occupazione messa in ginocchio da 7 anni di crisi economica. Purtroppo, però, i risultati attesi non sono mai arrivati perché l’esecutivo continua a seguire la strada delle mancette e degli sgravi fiscali una tantum anziché imboccare la strada di una riduzione strutturale e permanente delle tasse sul lavoro.
La scorsa settimana anche il Fondo monetario internazionale è tornato per l’ennesima volta a ribadire l’importanza della riduzione del cuneo fiscale in Paesi che ancora hanno problemi di occupazione. “Le riforme che comportano uno stimolo fiscale sono le più preziose, compresa la riduzione cuneo fiscale e l'aumento della spesa pubblica per le politiche attive del mercato del lavoro” scrive il FMI nel suo World economic outlook.“Ora – prosegue - è il momento giusto in molte economie avanzate per portare avanti ulteriori riforme dei prodotti e del mercato del lavoro: c'è un forte bisogno e c'è margine sostanziale per riformare, il contesto politico è favorevole, e tali riforme possono aumentare i potenziali livelli di produzione e di occupazione nel medio termine”.
Insomma il messaggio è chiaro e corretto, ma il governo proprio non ci sente. Gli 80 euro ai dipendenti per aumentare i consumi non hanno sortito l’effetto sperato perché i lavoratori hanno considerato questo bonus una mancetta passeggera e se lo mettono da parte. Stesso discorso per gli sgravi fiscali per le assunzioni: hanno fatto registrare un aumento dei contratti a tempo indeterminato nel 2015, ma già nei primi mesi del 2016 quando gli sgravi di sono dimezzati nel valore economico e nella durata, i contratti sono crollati, così come l’occupazione.
Il vero problema del mercato del lavoro italiano, è bene ripeterlo fino allo sfinimento, sono le tasse sul lavoro. Un cuneo fiscale troppo alto impedisce ai datori di lavoro di assumere e frena i consumi perché la maggior parte dei lavoratori a conti fatti si mette in tasca un magro stipendio.Una diminuzione consistente e strutturale delle tasse sul lavoro per alleggerire il carico sui datori di lavoro e mettere in tasca dei lavoratori più soldi e un piano serio di investimenti per ridare slancio alla produttività: questa è l’unica strada da seguire per dare una possibilità all’Italia. Peccato che il governo le abbia girato le spalle.