La scelta di apparire quasi a reti unificate e di usare un linguaggio incattivito come mai rischia di essere un favore ai suoi detrattori.
Ho passato un bel pezzo della mia vita a difendere come potevo e sapevo Berlusconi, a cui ho sempre riconosciuto, in amicizia militante e mai servile, grandissimi meriti storici nel tentativo di tirare fuori l’Italia dalla crisi della Repubblica e dalla rovina della giustizia, e una simpatia di tratto liberale e scanzonato senza eguali; e quando non ero d’accordo, è successo spesso, riprendevo forza ed energia dal modo disgustoso scelto dai suoi avversari per combatterlo.
La mostrificazione, la teoria del nemico assoluto,l’orrore del guardonismo giornalistico, della faziosità dispiegata, le accuse forsennate di stragismo, di mafia, accompagnate dalla totale resa al più sinistro spirito forcaiolo: questo mi è sempre bastato per dirmi senza problemi berlusconiano e per prendere il mio posto, costante negli anni, nella battaglia contro la deriva ideologica e di stile della sinistra più scalcinata e ipocrita del mondo, prigioniera di una cultura demagogica che la divorava.
Vorrei continuare la corsa, ma se la strada è quella dell’invadenza arrogante a reti unificate, del monologo che umilia gli interlocutori e gli elettori, del semplicismo e del baby talk arrangiato, sciatto, poveramente regressivo, mi manca il fiato.
Va bene che Enzo Biagi faceva i suoi show elettorali con Benigni per bastonare il Cav sotto elezioni quando era capo dell’opposizione, ma quale esperto impazzito di marketing politico ha suggerito al premier di presentarsi in tutti i tg come un propagandista, di diminuire la sua autorità e credibilità di presidente del Consiglio e di leader del partito di maggioranza relativa di una grande nazione occidentale con discorsi da bettola strapaesana?
Chi gli ha consigliato di perdere all’istante i voti dei cattolici diocesani abbracciando a Milano, dove le intemerate leghiste più sprovvedute non hanno mai attratto consensi, la crociata della lotta a zingaropoli o il trucchetto del trasferimento in terra meneghina di alcuni ministeri romani, subito contraddetto dal sindaco della Capitale?
Che cosa può portare il capo di una classe dirigente che dovrebbe puntare su libertà e responsabilità ad avallare, dopo la magra figura dell’attacco ad personam a Pisapia, e senza le dovute scuse, l’idea che la vittoria dell’avversario nella lotta per il Municipio porterebbe terrorismo e bandiere rosse a Palazzo Marino?
Perché farsi del male con parole d’ordine primitive, giocando irresponsabilmente la carta dei cosiddetti «valori conservatori» in una offensiva lanciata da gente di governo contro «gay e drogati», una caricatura del motto Dio-patria-e-famiglia, quando quella carta è sempre stata pudicamente scartata quando si doveva giocarla con sensibilità e intelligenza nelle occasioni giuste e per motivi giusti?
Spero che la Moratti vinca e che Pisapia perda il ballottaggio, per ovvie e argomentate ragioni politiche e amministrative che si stanno perdendo nei fumi sulfurei di un incendio ideologico senza senso.
Ma intanto non voglio che Berlusconi perda la faccia nella contesa, che il suo comprensibile radicalismo politico, il suo accento popolare e diretto nel linguaggio, diventino un incattivito vaniloquio della disperazione.
Non lo merita lui e non lo meritano coloro che si sono battuti e si battono per ciò che lui ha rappresentato.
Ero incuriosito dal suo silenzio prolungato, dopo il primo turno elettorale, mi auguravo fosse indizio di un ripensamento dopo l’ozio della ragione di questi ultimi tempi, e i vizi e le sconfitte che quell’ozio ha generato.
Chiunque conosca Berlusconi e la storia del berlusconismo sa quel che manca a questo punto della parabola: mancano la sicurezza di sé, un minimo di ottimismo, la capacità originaria di sfidare le convenzioni, di fare cose nuove e liberali, di smascherare le ipocrisie altrui, di parlare pianamente e urbanamente anche il linguaggio più irriducibile e aspro, manca il gentile «mi consenta», manca il Berlusconi ilare e sapido che rompe il monopolio dell’informazione, che disintegra ogni forma di conformismo, che spiazza e interloquisce con la società italiana alla sua maniera originaria.
Vedo in questa deriva la vittoria dell’avversario di tutti questi anni, e di quello più incarognito e miserabile. Farsi simili alla caricatura che il nemico fa di te è il peggiore errore possibile per un leader politico. È l’errore che può cagionare «l’ultima ruina sua», che lo isola con le tifoserie, che ne avvilisce l’indipendenza intellettuale e di tono, la credibilità personale.