Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
lunedì 6 agosto 2012
Olimpiadi Londra - Campriani, settimo oro per l'Italia con la carabina.
Niccolò Campriani conquista l'oro dopo aver vinto l'argento (Getty Images)
http://sport.sky.it/sport/olimpiadi/londra_2012/2012/08/06/londra_2012_italia_oro_campriani_carabina_bronzo_morandi_anelli.html
Caro Emanuele, questa non me la bevo. - Giuseppe Casarrubea
Nella recente controversia tra Ingroia e Macaluso sulla trattativa Stato-mafia, ci sono diversi punti non chiariti. Forse vale la pena tentare di renderli meno confusi. Con una pregiudiziale sulla quale non si può discutere: i magistrati facciano il loro dovere, come stanno facendo. E quelli che si dilettano con la penna in disquisizioni varie, utilizzino come gli pare il loro tempo. Ma senza prendere persone e cose sottogamba o, peggio ancora, a pedate o a scappellotti come facevano i maestrini, quando usavano la bacchetta. E’ troppo comodo farlo. E anche disdicevole per molti pennivendoli che, oggi più che mai, si dànno a delegittimare il prezioso lavoro dei magistrati, fondamentale alla nostra democrazia. Come aveva previsto e scritto Giovanni Falcone.
A Emanuele Macaluso, che conosco dai miei tempi di militanza nel Pci negli anni Settanta, devo dire che i suoi recenti articoli su Ingroia non mi hanno aiutato nella direzione sperata e per questo vengo a interrogarmi e a interrogarlo.
Perchè tentare di sminuire i caratteri e la consistenza della trattativa tra Stato e mafia è irragionevole. Fa a pugni con la storia che è sempre maestra di vita. Così un vecchio militante del Pci come lui, non può alterare il senso delle cose. Dovrebbe dare ad esse il giusto peso, la direzione che hanno avuto, visto, peraltro, che il nostro ex senatore è stato un dirigente nazionale del Pci e direttore de l’Unità.
Per questo non può venirci a raccontare che “il grande compromesso tra mafia e Dc” risale al 1948. A quella data i giochi erano stati già fatti. Bastò un anno, come egli stesso fa notare. Dalle regionali siciliane del 1947, quando il Blocco del popolo ebbe la maggioranza relativa dei voti, alle politiche del 1948, quando la Dc sfiorò la maggioranza assoluta. In Italia. Ma anche in Sicilia, dove si sarebbe dovuto formare, già dall’anno precedente, un governo di centro-sinistra con il contributo del partito di Sturzo, e invece ci furono prima la strage di Portella della Ginestra e, dopo, il governo di centro-destra. La sequenza fu questa: strage, rinvio all’opposizione della sinistra, che aveva vinto le elezioni regionali, sbarco dei comunisti dal governo di De Gasperi.
Ma ci fu di peggio al momento del trionfo della democrazia cristiana: la completa decapitazione del movimento sindacale siciliano. Dalla strage di Alia (settembre 1946) alle stragi di Messina (marzo 1947) e di Partinico (22 giugno 1947).
Macaluso sa bene che non furono quattro, dunque, i sindacalisti ammazzati, come incredibilmente scrive su l’Unità del 1° agosto scorso. La mafia, con l’accordo della Dc, provvide a una loro decapitazione sistematica. Il che è cosa ben diversa da quella che egli narra. Tanto più se si pensa che per diversi di loro, come Accursio Miraglia di Sciacca e Calogero Cangelosi di Camporeale, non si arrivò neppure a una fase processuale. Si faceva così allora, nel silenzio generale: socialisti e comunisti venivano ammazzati e i tribunali non arrivavano neanche a istruire un processo. Tutti contenti. Mi sono sempre interrogato su questo punto e sempre mi sono dato una sola risposta. I morti, i caduti venivano richiamati nei comizi. Ma nulla di più. Non servivano per la verità e la giustizia. La prima veniva deviata, la seconda resa impossibile.
Portella è una cartina di tornasole. Macaluso ci dice poco in merito. Dovrebbe ricordare gli articoli di prima pagina de l’Unità del 1947 usciti nel primo semestre di questo fatidico anno di piombo. Non c’era compagno che non sapesse che dietro figure losche come il bandito di Montelepre si annidavano le fecce più nauseabonde della Rsi e del neofascismo dell’epoca. E Macaluso sa bene che il suo dovere di militante storico della sinistra gli impone di dubitare di molte versioni propalate dal sistema di potere come verità indiscusse, specie quando fondate su falsi rapporti, su depistaggi, su conflitti mai avvenuti, sulla distorsione intenzionale della verità. Cosa che fecero ampiamente uomini dell’Arma che nulla avevano da invidiare a Mori o Subranni, come il colonnello Ugo Luca e il capitano Antonio Perenze, un agente segreto attivo già all’epoca del nazifascismo.
E’ strano perciò che egli releghi ancora oggi la vicenda di Portella o gli assalti alle Camere del lavoro all’esclusiva responsabilità di Giuliano. Furono opera di un accordo in cui mafia, Servizi e Stato agirono all’unisono. Come cercò di spiegare Gaspare Pisciotta quando disse al giudice di Viterbo Tiberio Gracco D’Agostino: “Siamo una cosa sola come il padre, il figlio e lo spirito santo”.
Non capisco, quindi, come egli possa scrivere: “Non ci furono trattative: le grandi famiglie mafiose benestanti, notabili rispettati nei grandi paesi della Sicilia occidentale e di Palermo, erano grandi elettori e frequentavano familiarmente i capi della Dc siciliana”.
Questi amici che si incontrano per caso nei salotti dei palazzi nobiliari sono gli stessi che stipulano accordi a Roma, con criminali e banditi, sono l’aristocrazia nera, criminali che si dànno appuntamento nei pressi delle abitazioni del principe Borghese e di Nino Buttazzoni, o del segretario monarchico Covelli, al bar del Traforo (ancora esistente fino a qualche anno fa), a piazza San Silvestro o in via dei Due Macelli e che poi decidono al Viminale o nelle sedi romane della Dc, o in qualche convento, come meglio fare a evitare che l’Italia sia consegnata ai comunisti, alla sinistra.
Come è pensabile che una vecchia volpe come Macaluso non sappia queste cose? E come può egli ritenere che stragi di quelle proporzioni non avessero una copertura internazionale per un Paese strategico della guerra fredda? Eppure il Nostro scrive: “Senza trattative la mafia, che aveva sostenuto i liberali, i separatisti, i monarchici transitò nel partito che ormai deteneva il potere. Con la benedizione del cardinale Ruffini. La rivista di Giuseppe Dossetti ‘Cronache sociali’ documentò il transito guidato dalla mafia di elettori dai collegi di Vittorio Emanuele Orlando, nel palermitano, alla Dc”.
Per questo il vecchio senatore si riferisce al blocco anticomunista del 1948 che vedeva la mafia “parte del sistema, nel ‘quieto vivere’”. E aggiunge che i democristiani di spicco pensavano “di poter ‘governare’ una convivenza con la mafia nella ‘legalità’ consentita dai tempi”. Ma quale metro avevano i comunisti come lui per valutare il superamento del grado di ‘legalità’ consentito dai tempi? Certo è che Macaluso non era Pio La Torre, la cui tolleranza della ‘convivenza con la mafia’ era zero. Pio La Torre che contro i latifondisti e gli agrari aveva combattutto e che per queste lotte aveva fatto la galera, per poi morire ammazzato assieme a Rosario Di Salvo negli anni della guerra contro i missili atomici a Comiso. E il varo della prima legge antimafia, quando l’associazione mafiosa diventa un crimine per lo Stato (1982).
Resta un’altra piccola questione che Macaluso dovrebbe spiegare. Questo ‘quieto vivere’ interessava solo la Dc o faceva parte di una strategia politica generale che investiva anche certi ambienti del Pci? Voglio dire i vertici comunisti. Perché, analogamente a quanto avveniva con i carabinieri, per lo più giovani ragazzi del Nord, mandati al macello in una vera e propria guerra che essi combattevano per un ideale e per un pezzo di pane, allo stesso modo forse si realizzava, a livello territoriale, una carneficina di teste pensanti e oneste del sindacalismo di sinistra, mentre ai piani alti si sognava il processo democratico. La mia non è un’affermazione, né tanto meno una provocazione, ma una domanda che è mio dovere pormi, per saperne un po’ di più di questa nostra storia nazionale in parte retorica e in gran parte a colabrodo. E senza verità.
Come sono certamente i casi di: Moro, Chinnici, Terranova, Mattarella, Boris Giuliano, Costa, Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino.
Nel 1993 succede qualcosa di analogo al 1947. La sinistra vince in quasi tutti i grandi Comuni italiani. A Palermo Leoluca Orlando ottiene il 70% dei consensi. Si intravede la vittoria politica delle sinistre sul piano nazionale. Invece arriva Berlusconi. E’ di nuovo la paura a trionfare, dopo il segnale dell’uccisione di Lima, il pupillo di Andreotti in Sicilia. E così tornano gli anni di piombo che questa volta sono al tritolo. Macaluso stranamente nega la trattativa e dice che manca questa volta la “contropartita”. Ma come si fa a credergli? Non c’è solo il 41 bis. C’è qualcosa di più grave, di pesante. Il potere, la legittimazione al potere che Cosa Nostra aveva sempre avuto. E’ possibile che Macaluso non lo sappia?
Giuseppe Casarrubea
L'Italia brucia, in azione elicotteri e canadair.
Almeno 30 incendi hanno richiesto l'intervento aereo.
Sono 30 gli incendi che oggi hanno richiesto l'intervento, in supporto alle squadre di terra, di elicotteri e Canadair della flotta dello Stato. Il maggior numero di richieste al Dipartimento della Protezione Civile è arrivato dalla Sicilia, con nove richieste di intervento, seguita da Campania e Lazio (6), Puglia (3), Abruzzo (2), Basilicata, Calabria, Sardegna e Umbria (1). Al momento risultano spenti o sotto controllo 13 roghi mentre su altri 17 stanno lavorando undici Canadair, otto fire-boss, tre elicotteri S64, un Ab412 e un CH47.
Un vasto incendio che si è sviluppato a Castelluzzo, frazione di San Vito Lo Capo (Tp), bruciando alberi e macchia mediterranea, ha anche circondato alcuni tratti della strada che porta alla località turistica impedendo per ora i collegamenti. Alcuni automobilisti impauriti hanno lasciato l'auto e si sono allontanati a piedi per paura di finire avvolti dalle fiamme.
Un incendio è divampato nella riserva naturale dello Zingaro nel Trapanese. E' in corso l'evacuazione del villaggio turistico Calampiso. Alle operazioni antincendio partecipano forestali, vigili del fuoco, polizia, carabinieri. Sono in azione anche mezzi aerei.
Fuochi di mafia in Lombardia. - Silvia Truzzi
La civile Lombardia (quanto poi sarà “civile” una Regione al cui governo siedono 14 indagati per una gamma variopinta di reati, dalla corruzione, alla truffa al favoreggiamento della prostituzione?) brucia: dal 2010 sono stati 300 i roghi di automobili, cantieri edili, macchinari. Lo spiega la relazione della Commissione antimafia del Comune di Milano voluta dal sindaco Pisapia. Uno dirà: avranno fatto il conto delle denunce. Invece no, il monitoraggio è frutto del lavoro dei Carabinieri dell’hinterland milanese. Nessuno tra le vittime ha fatto denuncia, perché nessuno ha ricevuto “pressioni, ricatti, minacce”. Niente estorsione, niente denuncia. Tanto che – riporta un articolo del fattoquotidiano.it – un inquirente così si sfoga: “Sembra di indagare contro le vittime”.
La mafia, anzi la ‘ndrangheta, quassù non spara: lo si sente dire spesso, quasi fosse un vanto. In realtà spara poco perché non ce n’è bisogno. Ma se in due anni 150 cantieri vengono sequestrati per infiltrazioni mafiose nelle imprese e se nel 2009 vengono emesse 110 condanne in capo ad affiliati della ‘ndrangheta dal tribunale di Milano, è la matematica a dirci che non è il caso di girarsi dall’altra parte. Di pensare, non senza uno strisciante razzismo, che non è cosa nostra. Invece è proprio un affare nostro perché in ognuno di quei roghi c’è la fiammella di un sentimento che paralizza la vita. E si chiama paura.
I fuochi non ardono solo in Lombardia. In luglio è toccato ai terreni di Libera, a Isola Capo Rizzuto in Calabria: due incendi hanno distrutto una parte del raccolto ottenuto dalle terre confiscate al clan Arena. In quegli stessi giorni, a molti chilometri di distanza nella sonnecchiosa Mantova, è esplosa una bomba. Alle due di notte il quartiere Dosso del Corso è stato svegliato da un boato, il suono di un ordigno piazzato davanti all’abitazione di un magistrato. Il dottor Giulio Tamburini, che indaga su reati ambientali (processo Montedison) e sulla criminalità organizzata, ha detto ai cronisti: “Non parlo, cercate di capirmi. Questa volta prima della mia professione c’è di mezzo la mia famiglia”. Come si fa a non capirlo? In casa dormivano con lui la moglie e i figli, i vetri rotti hanno invaso le stanze.
La minaccia vuole sempre piegare la coscienza, la dignità del lavoro, delle idee, dei valori, vuole sempre insinuarsi in una decisione: aprire o no un’inchiesta, scrivere o no un nome sul giornale, pagare o no il pizzo. I metodi sono quelli, dai terroristi alla malavita: proiettili nelle buste anonime, telefonate mute nella notte, fiamme alle auto o ai negozi. Non ci sono estintori che possano spegnere l’inquietudine profonda generata da questi “avvisi”: il pericolo è un odore preciso che gli tutti gli animali riconoscono; né basta il disprezzo della ragione per la viltà del gesto. Perché nessun uomo è un’isola e tutti, oltre a se stessi, hanno qualcuno da proteggere. Però si può cercare di essere meno soli: oggi sono molte le associazioni di volontari che lottano contro le mafie, insegnando a dire no. Quali armi contro la paura? La condivisione, la denuncia pubblica, l’isolamento di una cultura criminale che non conosce onore anche se ne fa una biglietto da visita. E quella frase famosa di Paolo Borsellino: “Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”. Senza più ceneri sulla strada.
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Scotta il telefono. - Antonio Padellaro
Guido Bertolaso non è certo un amico del “Fatto”, che lui ha ricoperto di cause civili con richieste di risarcimenti milionari. Ma, accettando di parlare con Malcom Pagani sulla sua triste istoria di ex potente (per lunghi anni come dominus della Protezione Civile, il più potente dopo Berlusconi) travolto dallo scandalo della cricca, ha voluto chiarire le circostanze di due telefonate avute con il presidente Napolitano nel marzo-aprile 2009, prima e dopo i giorni del terremoto dell’Aquila, finite agli atti dell’inchiesta di Firenze sul G8 alla Maddalena. Bertolaso chiede che quelle intercettazioni siano rese pubbliche, affinché dai dialoghi “con il primo cittadino italiano si capisca chi era davvero il mio referente nei momenti di difficoltà e di emergenza”. Una richiesta più che legittima da parte di un personaggio che, sentendosi ingiustamente dipinto “come lo scherano di Berlusconi e Letta”, vuole dimostrare che altri e più alti erano i suoi interlocutori istituzionali.
Ma di quelle telefonate molto si è parlato a proposito di altre, quelle tra Mancino e Napolitano, intercettate dalla Procura di Palermo nell’indagine sulla trattativa Stato-mafia. Come mai, ci siamo chiesti pressoché isolati, Napolitano ha sollevato presso la Consulta il conflitto di attribuzioni contro i pm palermitani, ma non contro quelli di Firenze e Perugia (dove il processo passò per competenza e, diversamente da Palermo, le sue intercettazioni indirette furono trascritte e allegate agli atti)? Forse perché le conversazioni con Bertolaso non erano scottanti come quelle con Mancino? A maggior ragione, dopo le affermazioni dell’ex capo della Protezione civile, la questione delle telefonate presidenziali non può essere liquidata dai giuristi di corte come una sorta di sacrilegio contro un potere inviolabile. E in ogni caso, adesso, per il Quirinale sarà più difficile sfuggire alla domanda sul conflitto sollevato in un caso e non nell’altro. Se poi fosse lo stesso inquilino del Colle a rivelarci ciò che si dicevano lui e Bertolaso e che Bertolaso non vuole svelare, sarebbe ancora meglio.
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Curiosity è sbarcata su Marte.
Tutto secondo previsioni: la sonda Curiosity, il rover-laboratorio della Nasa realizzato nell’ambito della missione Mars science laboratory (Msl) ha toccato il suolo di Marte alle 7.31 italiane. Un viaggio iniziato il 26 novembre scorso dalla base Nasa di Cape Canaveral, in Florida. 570 milioni di chilometri dalla Terra per raggiungere il pianeta rosso.
In realtà, il contatto con il pianeta dove “vivono” i marziani è avvenuto alle 7.17, ma il segnale elettromagnetico inviato dal robot della Nasa impiega 14 minuti per percorrere i 100 milioni di chilometri che separano Marte dalla Terra.
Il robot più pesante (899 kg, compresi 80 kg di strumenti scientifici) e il più complesso mai inviato verso il pianeta rosso è giunto nel cratere Gale, da dove ha iniziato la sua missione di due anni. Obiettivo: stabilire se c’è stata vita su Marte nella sua prima giovinezza, vale a dire 4 miliardi di anni fa. Al momento dell’atterraggio, il tempo era bello sul luogo d’arrivo e la missione (che costa oltre 2,5 miliardi di dollari), si è svolta secondo il programma.
Tutto a bordo ha funzionato perfettamente. La sequenza finale è iniziata 10 minuti prima dell’atterraggio col distacco dalla sonda del ‘cruise stage’, lo stadio con gli apparati necessari al lungo viaggio Terra-Marte.
Su Curiosity anche un microchip con il Codice del volo degli uccelli, del 1505 di Leonardo da Vinci, custodito alla Biblioteca Reale di Torino, e di cui Charles Eliachi , direttore del Jet Propulsion Laboratory di Nasa che ha realizzato il Curiosity, si è letteralmente innamorato durante una visita alla biblioteca stessa.
Tutto a bordo ha funzionato perfettamente. La sequenza finale è iniziata 10 minuti prima dell’atterraggio col distacco dalla sonda del ‘cruise stage’, lo stadio con gli apparati necessari al lungo viaggio Terra-Marte.
http://oltrelostretto.blogsicilia.it/curiosity-e-sbarcatao-su-marte/96496/
domenica 5 agosto 2012
Pintabona, il “ricattatore di B.” con l’onorificenza del Quirinale. - Giuseppe Lo Bianco
La storia dell'ingegnere arrestato con l’accusa di aver provato a ricattare Berlusconi assieme a Lavitola: "Dobbiamo parlare con il nano maggiore". Tra l'altro fu portato in tribunale per aver copiato il nome di un'associazione siciliana. Ma il Colle lo decorò con una stella della solidarietà. Su richiesta del ministro Frattini.
Sogna di sedersi al tavolo con Putin, Lula e Condoleeza Rice, e fa da autista all’avvocato Fredella per le strade di Buenos Aires. Si dice amico dell’ambasciatore Curcio e della presidente dell’Argentina, che sta per presentare (o ha già presentato) a Berlusconi. Intanto fissa appuntamenti con i dirigenti del Milan per promuovere giovani promesse del pallone; progetta piantagioni di colza da 600mila ettari (!) in Argentina ma riesce a procurare i tabulati dell’utenza di Buenos Aires utilizzata da Lavitola per chiamare Berlusconi il 17 luglio 2011. “Non so – dice l’imprenditore Mauro Velocci – come se li è procurati”.
Viaggia tra l’Italia e il Sudamerica a cavallo tra sogni di grandeur, il millantato credito e probabilmente qualche amicizia inconfessabile l’ingegner Carmelo Pintabona, l’uomo che parlando di Berlusconi usa la frase: “Dobbiamo parlare con il nano maggiore, una volta che lui è fuori dobbiamo sederci a tavola per giocare una briscola ed è una briscola che perde di sicuro”, è stato arrestato venerdì dai pm di Napoli con l’accusa di aver ricattato l’ex premier per estorcergli 5 milioni. Pintabona ha sessant’anni, è siciliano di Piraino (Messina), il suo passpartout è la presidenza della Fesisur, la Federazione delle Associazioni Siciliane in Sud America, l’atout è l’amicizia con Valter Lavitola.
In Sicilia lo conoscono bene i dirigenti dell’istituto Fernando Santi, costretti a ricorrere al tribunale di Palermo per proteggere il nome dell’istituto, intestato allo storico cofondatore della Cgil, copiato da Pintabona in Argentina attestando, per registrarlo, che si trattava di una denominazione “innovativa e di fantasia”.
Trucchi da prestigiatore che non hanno impedito alla Regione Siciliana di assegnargli nel 2006 un milione di euro, per lo svolgimento delle “attività indicate dallo stesso Pintabona al periodico Voce d’Italia, connesse all’apertura della sede del Ciapi di Palermo a Buenos Aires”, come ha denunciato il vero istituto Fernando Santi in una nota in cui invita la Regione a vigilare sulla destinazione delle somme ricevute, puntando il dito anche sul percorso politico dell’ingegnere messinese, candidato nel 2008 nelle fila del Pdl nella circoscrizione estera, definito “piroettante” e quindi “inaffidabile sul piano politico”: “L’inclusione nella lista del PdL dell’ing. Carmelo Pintabona – era scritto nella nota – rappresenta l’ulteriore tentativo da parte dello stesso di utilizzare e strumentalizzare le comunità siciliane in Argentina e nel Continente dell’America del Sud a fini personali”.
E non ha impedito neanche al Quirinale di insignirlo nell’ottobre del 2010, su richiesta del ministero degli Esteri (all’epoca era Franco Frattini), dell’ordine della Stella della solidarietà italiana, una delle onorificenze distribuite dallo Stato. Eppure l’istituto presieduto da Luciano Luciani aveva denunciato “la spregiudicata condotta sul piano personale, morale e politico dell’ing. Pintabona, il quale, in più circostanze, ha mostrato odio e ha diffamato dirigenti del mondo associativo siciliano che godono di prestigio presso le Istituzioni e le comunità siciliane” ed è forse anche per questa ragione che il 23 aprile 2008 a Rosario, in provincia di Santa Fe, in Argentina, all’ottavo Convegno nazionale di giovani di origine siciliana l’Usef (Unione Siciliana Emigrati e Famiglie) ha ordinato ai suoi ragazzi di non assistere alla chiusura dell’evento “perché c’era come dissertante il Presidente della Fesisur, Carmelo Pintabona”.
Ma se il salotto di casa Lavitola a Panama con lui e Pintabona che dettano e l’imprenditore Mauro Velocci (“ero più veloce di loro al computer”) che scrive la lettera-ricatto a Berlusconi sembra un remake della scena del film “Totò, Peppino e la malafemmena”: punto, punto e virgola punto e punto e virgola. Quella richiesta di estorsione, assai seria, per il gip, è arrivata a destinazione: “Dalla consegna per conto di Berlusconi dei soldi a Craxi in Tunisia durante la sua latitanza riferita da Velocci Mauro, come origine della speciale vicinanza tra Lavitola e Berlusconi, al ruolo svolto dallo stesso Lavitola nel caso Fini-Montecarlo, al traghettamento verso corrispettivo economico di senatori del centrosinistra nel Pdl (caso De Gregorio ed altri); dalla vicenda delle escort diTarantini fino alle ragioni sotterranee dei finanziamenti all’Avanti! da parte di Forza Italia, non si può escludere che il Lavitola effettivamente ritenga, sulla scorta dei segreti di cui è depositario, di poter ricattare Berlusconi ottenendone le rilevantissime somme riferite”.
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