martedì 31 agosto 2021

Pil: Istat, nel secondo trimestre +2,7%, +17,3% annuo.

 

Crescita acquisita 2021 al 4,7%.


Nel secondo trimestre del 2021 il prodotto interno lordo, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, è aumentato del 2,7% rispetto al trimestre precedente e del 17,3% nei confronti del secondo trimestre del 2020. Lo comunica l'Istat.

Il dato conferma le stime preliminari e vede per l'ano in corso una crescita già acquisita del 4,7%. La crescita annua, spiegava Istat durante la diffusione delle stime preliminari, e' la piu' alta mai registrata dall'inizio delle serie storiche nel 1995.

Il rialzo del Pil registrato dall'economia italiana nel secondo trimestre del 2021 pari a +17,3% è il più alto su base tendenziale mai registrato dall'inizio delle attuali serie storiche, ovvero dal 1995. Lo spiegava l'Istituto diffondendo alla fine del mese scorso il dato preliminare confermato oggi e spiegando che l'incremento deriva dal confronto con il punto di minimo toccato nel secondo trimestre dello scorso anno in corrispondenza dell'apice della crisi sanitaria

Prezzi. ad agosto +0,5% mese, +2,1% anno, top da 2013.

Ad agosto accelera l'inflazione con l'indice nazionale dei prezzi al consumo per l'intera collettività (NIC), al lordo dei tabacchi che segna un aumento dello 0,5% su base mensile e del 2,1% su base annua (da +1,9% del mese precedente). Lo rileva l'Istat sottolineando che il livello è top dal gennaio 2013 (quando si registrò un aumento dei prezzi del 2,2%. L'accelerazione tendenziale dell'inflazione si deve prevalentemente a quella dei prezzi dei Beni energetici (da +18,6% di luglio a +19,8%) e in particolare a quelli della componente non regolamentata (da +11,2% a +12,8%). 

Ue-19: boom inflazione ad agosto, tasso schizza al 3%.

Continua a salire l'inflazione nella zona euro. Secondo la stima flash di Eurostat il tasso è salito al 3% ad agosto, in aumento dal 2,2% di luglio. A pesare soprattutto l'energia (15,4%, rispetto al 14,3% di luglio), seguita dai beni industriali al netto dell'energia (2,7%, rispetto allo 0,7% di luglio), alimentari, alcolici e tabacco (2%, rispetto all'1,6% di luglio) e servizi (1,1%, rispetto allo 0,9% di luglio). Il tasso più elevato è in Estonia (5%), Lituania (4,9%) e Belgio (4,7%). In Italia è a 2,6%. 

ANSA

Reddito di cittadinanza, i percettori e il lavoro: “Continuo a cercare, offerte solo in nero e non più di 700 euro al mese. E sono laureato”. “Un posto ce l’ho, ma prendo 290 euro”

 

Ilfattoquotidiano.it ha ricevuto decine di storie di percettori. Tra chi è in grado di lavorare il desiderio di sostituire il sussidio con uno stipendio - e il disagio provato nel sentirsi definire "fannulloni" - è una costante. Ma i centri per l'impiego quasi mai aiutano. E molti beneficiari sottolineano la necessità di rendere efficienti le politiche attive i meccanismi di incrocio tra domanda e offerta. Altrimenti, spesso, l'unica alternativa è il lavoro irregolare (e chi lo rifiuta viene bollato come "infame", racconta Danilo). Poi c'è chi ha un'occupazione ma guadagna talmente poco che senza un aiuto non ce la farebbe. Raccontate le vostre storie scrivendo a redazioneweb@ilfattoquotidiano.it.

Il lavoro che non si trova perché “troppo vecchi“. O perché il curriculum è troppo brillante e “nessuno vuole un cameriere con il dottorato“. Le offerte in nero, 10 ore al giorno per poche centinaia di euro al mese. I lavoretti accettati comunque, anche se a 60 anni il facchinaggio e la raccolta delle olive o dei pomodori sono pesanti. Il desiderio di sostituire il sussidio con uno stipendio – e il disagio provato nel sentirsi definire “fannulloni” – è una costante nelle decine di testimonianze di percettori di reddito di cittadinanza raccolte da ilfattoquotidiano.it (ne aspettiamo altre a redazioneweb@ilfattoquotidiano.it). Se servisse una nuova smentita alla narrazione del divano, queste storie dicono che chi è in grado di lavorare fa di tutto per farlo. Ma i centri per l’impiego quasi mai aiutano. E molti beneficiari, a partire da quelli con esperienza e competenze che sulla carta li renderebbero facilmente ricollocabili, sottolineano la necessità di rendere efficienti le politiche attive i meccanismi di incrocio tra domanda e offerta.

“Non si può neanche immaginare quanto sia umanamente frustrante“, racconta Teresa, due figli piccoli, che un posto ce l’aveva ma l’ha perso con il Covid e ora non trova nulla. Danilo è stato licenziato quando il datore ha scoperto che aveva chiesto il reddito: temeva controlli, visto che il contratto era “di quattro ore settimanali a fronte delle dieci giornaliere lavorate”. Ora lui e la moglie si sono abituati a sentirsi bollare come sfaticati perché – è l’unico paletto – i lavori in nero non li accettano più. Tiziano un lavoro nel suo campo ora l’ha trovato: ha vinto un bando internazionale, tra poco si trasferirà in Belgio. Negli ultimi mesi ha vissuto grazie al reddito, chiesto con “vergogna” perché “uno che ha potuto arrivare a fare il dottorato è stato certamente più fortunato degli altri”. Non per questo non voleva sporcarsi le mani: ha cercato lavoro come cameriere, l’esperienza ce l’aveva perché da studente si era mantenuto così. Ma davanti al curriculum con i suoi titoli accademici “scoppiavano letteralmente a ridere”. Poi c’è Laura, che il lavoro ce l’ha: in mensa. Dalle 11 alle 16, per 290 euro al mese. Senza il reddito, con due figli di cui uno disabile, non vivrebbe. Come Raffaele, che fa i turni in una società di security e prende 800 euro al mese. Ne ha 500 di affitto, ha anche lui due figli. “Solo grazie al reddito (che accetto con mortificazione) posso fare la spesa”, scrive. “Vorrei dire ai Renzi e ai Salvini di farsi un giro tra la gente come me che non sta sul “divano” ma lavora per un misero stipendio. Se venisse abolito il reddito qui al sud le alternative sono rubare o suicidarsi”.

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Siamo una coppia della provincia di Bari, io 39 anni, mia moglie 43 anni, una figlia di quasi tre. Siamo entrambi laureati, parliamo fluentemente più di una lingua. Dal 2019 percepiamo il Reddito, 943 euro: è stata una boccata d’ossigeno legati come eravamo al lavoro agricolo stagionale con i caporali o altri lavori in nero da cui tra tutti e due non abbiamo mai ottenuto più di 900 euro al mese. Gli affitti nella nostra zona non sono mai inferiori a 400 euro. Il mio ultimo lavoro con un contratto di quattro ore settimanali a fronte delle dieci giornaliere lavorate per 850 euro al mese l’ho perso quando il mio datore di lavoro ha scoperto che avevamo fatto domanda per Rdc, spaventato da eventuali controlli. Stessa sorte per mia moglie che per di più era rimasta incinta. Ad oggi NASCONDIAMO di percepire Rdc nella ricerca di un eventuale lavoro anche se ormai siamo bollati come “infami’ e “sfaticati” in quanto non accettiamo lavori in nero o irregolari. Nessuno dei quali fra l’altro retribuito con più di 700 euro. Anche trovare casa è impossibile e la nostra attuale padrona di casa cerca di mandarci via perché noi “infami con il Reddito” paghiamo con bonifico, non in contanti e vogliamo un contratto regolare.
Danilo G, Triggiano

Ho 61 anni e dopo un periodo tra i 40 e i 50 in cui ho trovato solo lavori mal pagati, con agenzie interinali, nessuno mi ha voluto più. Parlo tre lingue, sono interprete parlamentare, ma sono vecchia. Quando ho avuto il reddito di cittadinanza ho almeno eliminato l’angoscia del frigo vuoto. Ma adesso, nemmeno Inps sa perché, scaduti i primi 18 mesi risulto percepire il reddito ma non è così. Ho trovato, dopo tre mesi, un Caf che se ne occuperà, sperando che la falla digitale per cui sono bloccata si possa risolvere. Non mangio se non grazie agli amici e da tre mesi sono tornata a chiedere la carità a chiunque conosco.
Federica R.

Ho 56 anni e faccio il procacciatore d’affari per un’agenzia immobiliare che negli ultimi anni ha visto calare enormemente il suo già esiguo fatturato. E’ l’unico posto che sono riuscito a trovare dopo essermi distrutto fisicamente facendo vari lavori, non ultimo il cameriere presso hotel dove si facevano anche 14 ore senza giorno libero. Con un reddito bassissimo e una famiglia mi sono visto concedere poco più di 500 euro di reddito (non ho l’aiuto per l’affitto perché il proprietario non mi ha mai voluto fare il contratto) che ho utilizzato quasi esclusivamente per le sedute di cura di mio figlio che ha il disturbo dello spettro autistico: è stato messo in lista per i centri convenzionati ma per scalare la graduatoria passano 2-3 anni. Se non vuoi che si aggravi devi andare a pagamento, quattro volte a settimana. Tanti dicono che a causa del reddito nessuno vuole lavorare. La realtà è che già a 35 anni sei considerato vecchio per fare il cameriere e se proprio trovassi qualche opportunità dovresti andare al nord dove non ti forniscono più neanche vitto e alloggio. Qui in Sicilia per accedere anche al lavoro più umile ci vuole il Santo in paradiso. Per parecchi anni ho provato ad entrare alla forestale ma tra sbagli, graduatorie da rifare e qualche minaccia pseudomafiosa non ci sono riuscito. E ho vari attestati ma non riconosciuti da nessuno: perché lo Stato dà finanziamenti per realizzare corsi che non ti danno nessuna qualifica valida?
Fabio G., Palermo

Ho lavorato per quasi 20 anni nel settore della ristorazione per pagarmi gli studi. Dopo due lauree, un dottorato ed essere stato direttore di un progetto di ricerca finanziato da un prestigioso istituto statunitense, mi sono ritrovato completamente disoccupato in Italia. Per quasi 3 anni ho continuato a partecipare a bandi e progetti senza arrivare mai ad avere una minima speranza di uno stipendio. A febbraio, con un po’ di vergogna, mi sono deciso a chiedere il reddito di cittadinanza. Con quei circa 500 euro al mese ho potuto sopravvivere continuando a lavorare ai miei progetti, riuscendo a sottoporli a un bando di mobilità internazionale in Belgio che ho stravinto (inquietante il confronto tra i giudizi finali nelle “bocciature” italiane e i toni entusiasti della valutazione internazionale dello stesso progetto) e che inizierò a fine estate con uno stipendio che in Italia non mi sarei potuto sognare nemmeno tra vent’anni. Senza i sussidi non mi sarebbe proprio stato possibile nemmeno sopravvivere qua in Italia: ho continuato a cercare lavoro come cameriere, ma tutti i datori a cui ho mostrato il mio curriculum alla lettura di “Dottorato di Ricerca” e “Principal Investigator” scoppiavano letteralmente a ridere e mi comunicavano che “nessuno assume un cameriere col dottorato”.
Tiziano F.

Ho 54 anni e percepisco il reddito da novembre 2020. Dopo 30 anni di lavoro nel 2018 l’azienda ha dichiarato fallimento e dopo la Naspi se non ci fosse stato il reddito avrei dovuto mettere in vendita la casa (Aler) per cui sto pagando il mutuo. Sono tre anni che sono alla ricerca disperata di un lavoro: ho seguito l’iter per i percettori del reddito, iscrizione al centro dell’impiego, al Comune di residenza e invio quotidiano delle candidature. Vorrei uno stipendio, da utilizzare come voglio. Ma le “politiche attive sul lavoro” sono al contrario passive, specialmente per gli over 50. Chi pensa che l’aiuto non serva, come Renzi, dovrebbe provare quella angoscia che ti sale quando non riesci a pagare il mutuo/l’affitto, le spese condominiali e tutto il resto.
Lucia S.

Siamo in quattro: io, mia moglie e due figli maggiorenni, tutti e due diplomati ma purtroppo ancora senza lavoro. Come mia moglie che lavorava in una ditta di pulizie e a causa della pandemia è stata licenziata. Fino a 10 anni fa lavoravo in una grande società di vigilanza che mi permetteva di vivere dignitosamente, poi purtroppo l’azienda cessò l’attività e da quel momento è iniziato il mio inferno. Adesso lavoro in una società di security a 800 euro al mese, con turni che arrivano fino a 12 ore al giorno. Tolto l’affitto di 500 euro e le utenze non mi rimane niente e solo grazie al reddito (che accetto con mortificazione) posso fare la spesa. Vorrei dire ai Renzi e ai Salvini di farsi un giro tra la gente come me che non sta sul “divano” ma lavora per un misero stipendio. Se venisse abolito il reddito qui al sud le alternative sono rubare o suicidarsi.
Raffaele B., Giugliano

Ho 63 anni e percepisco 580 euro di reddito da qualche mese. E’ stato un sollievo: sono separato e finalmente con quei soldi posso aiutare la mia famiglia. Posso testimoniare la latitanza dell’ufficio per l’impiego. Ho chiamato per fare la dichiarazione di immediata disponibilità e non sono nemmeno riuscito ad avere un appuntamento. Neppure l’ombra di un supporto per la ricerca di un impiego. Ho spedito curriculum attraverso piattaforme come Indeed che non hanno dato nessun feedback. L’età non aiuta, per quanto io sia piuttosto attivo e uscito da una esperienza trentennale di alto livello come consulente nell’area del marketing e della comunicazione offline e digitale. Sarei disponibile sostanzialmente a valutare qualsiasi proposta di lavoro: ho mandato CV per richieste come magazziniere, autista, aiuto giardiniere. Ma l’unica offerta che ho avuto è stata dalla piattaforma di food delivery Just Eat. Ho ricevuto un contratto nel giro di un paio di giorni: 6,75 euro all’ora. Ho preferito non iniziare.
Andrea C., Bologna

Ho due figli e la casa all’asta. Lavoro nelle mense e prendo 290 euro al mese lavorando dalle 11 alle 16. Prendo il reddito per supplire. Fra poco saremo in mezzo ad una strada, anche se ho anche un figlio disabile. I miei genitori sono morti e il mio ex ha due condanne per maltrattamenti in famiglia e stalking. L’Aler e il comune dove abito non ci dà una casa popolare/comunale nonostante ce ne siano tantissime vuote.
Laura R., Treviolo

Ho 63 anni e dal 2019 percepisco il reddito: inizialmente erano 354 euro, poi sono scesi a causa di un errore, ora con il nuovo Isee sono 442. In casa siamo io e mia moglie anche lei disoccupata. Fortunatamente non paghiamo affitto e ogni tanto c’è un aiuto dal suocero. A Renzi e Salvini vorrei dire che non stiamo a poltrire sul divano: da quando prendo il rdc, prima della pandemia ho fatto un tirocinio con un’agenzia per 6 mesi 3 giorni a settimana (facchinaggio) per 300 euro mensili e poi sono andato a raccogliere le olive. E gli ulivi non crescono in salotto.
Renato M., Perugia

Ho 41 anni e 2 piccoli. Dopo la separazione dal mio convivente ho lasciato la Germania dove lavoravo. Arrivo in Italia con la speranza di ricostruire la mia vita, trovo lavoro e un appartamentino…e scoppia la pandemia. Al CAF mi comunicano che non mi accettano la domanda di rdc perché dovevo essere residente in Italia da almeno 2 anni. Ottengo il reddito di emergenza e grazie all’aiuto del Comune per l’affitto vado avanti. Mi trasferisco in un paese più grande con la speranza di trovare un lavoro ma tornano le restrizioni. Per fortuna inizio a ricevere il rdc per pagare affitto e luce e dare da mangiare ai miei figli. Non si può neanche immaginare quanto sia umanamente frustrante non lavorare. Vogliono abolire il reddito? Bene, ci diano la possibilità di lavorare. Questo io voglio, un lavoro.
Teresa G.

Sono padre di 4 figli e finalmente grazie al reddito ho potuto comprare loro gli occhiali da vista e tante altre cose utili. Ma adesso è il momento che diano lavoro per avere un po’ di dignità, non un sussidio. Voglio lavorare con tutti i diritti. Il motivo per il quale ho fatto domanda del reddito è per poter avere un lavoro più sicuro per dare un futuro ai miei figli.
Ignazio M.

Sono un operatore sociosanitario, lavoravo in Francia ma mi hanno riscontrato una brutta malattia al fegato e ho dovuto lasciare il lavoro e rientrare in Calabria, dove ci sono mia moglie e mio figlio di 15 anni. L’unico reddito era il mio e adesso sono tre anni che non lavoro. Sono disabile al 75% e prendo 285 euro di pensione. Vista la mia situazione non riesco a lavorare e da maggio mi hanno dato il reddito di cittadinanza. Almeno posso comprare un pantalone a mio figlio e mandarlo a scuola a Catanzaro. Vogliono toglierlo? Vorrei vedere loro ad andare avanti con 285 euro al mese invece che i loro 8-10mila euro.
Giovanni P, Caraffa di Catanzaro

Sono vittima non della pandemia ma della crisi economica del 2009. Ho lavorato per 15 anni in due emittenti televisive locali a Salerno, facevo il cameraman per le riprese dei tg e servizi e produzioni in studio. L’ultima emittente mi aveva fatto prima un co.co.pro e poi un contratto a tempo determinato, che a volte scadeva e lo rinnovavano dopo 5 o 6 mesi durante i quali continuavo a lavorare dalla mattina alla sera e anche il sabato e a volte la domenica per 650 euro. Da febbraio 2010 non ci hanno più pagati per poi dichiarare fallimento. Da allora non ho trovato più nulla, la prima cosa che mi dicevano era “lei ha 47 anni, e quanto le devo dare? No io cerco giovani!”. Grazie al reddito di cittadinanza io e mia moglie, che ha una malattia neuro degenerativa ereditaria per cui è necessaria riabilitazione tre volte alla settimana, prendiamo 700 euro.
Giovanni P., Salerno

Mi sono laureata in Storia a marzo e da quel momento non ho mai smesso di inviare cv, senza ricevere quasi mai risposta. Il silenzio più totale da parte di chi millantava di offrire lavoro. Cerco costantemente di continuare con il mio grande amore, il giornalismo, ma dopo anni passati a scrivere gratis non riesco a trovare qualcuno che paghi e sia disposto a farmi prendere il tesserino. Essendomi pure sposata ho avuto la necessità di richiedere il Reddito, ma ho continuato a cercare un impiego. Idem mio marito, il quale parla quattro lingue, ha una laurea, una specializzazione e vari corsi professionalizzanti conseguiti all’estero. Un giorno mi arriva un’offerta di lavoro di un’azienda di Catania, sollecitata dall’Unict che aveva segnalato il mio profilo. 300 euro al mese, full-time. Con quei soldi, forse, mi pagherei soltanto la benzina per arrivare nel luogo di lavoro. Sto progettando di trasferirmi in Francia tra un mese.
Emanuela L., Sicilia

Ho 59 anni e tre anni fa ho perso il lavoro. Nessuno mi vuole più. Sono andato anche a raccogliere i pomodori. Grazie al reddito di cittadinanza sopravvivo abbastanza bene, se me lo tolgono per me è finita.
Stefano, Spoleto

Percepisci o hai percepito il reddito di cittadinanza? Racconta la tua esperienza scrivendo a redazioneweb@ilfattoquotidiano.it e indicando nell’oggetto dell’e-mail “reddito di cittadinanza”.

ILFQ

Il Catasto batte i prezzi di mercato. Tasse al top in 10 città. Ecco la mappa. - Cristiano Dell'Oste

 

A Pordenone e in altri nove capoluoghi l’imponibile Imu è in media superiore al prezzo di mercato. Pesano gli estimi non aggiornati e la crisi da Covid. A Imperia i vantaggi maggiori, bene anche Milano.

Avere una casa a Imperia può essere un affare, almeno sotto il profilo fiscale: si paga l’Imu su un valore catastale medio di 73.600 euro a fronte di un valore di mercato di 202mila euro. In pratica, un rapporto di uno a 2,75. A Pordenone, invece, il risultato è ribaltato: si viene tassati su 125.300 euro, mentre il prezzo si ferma sotto i 90mila euro. Non è una lotteria, perché non ci sono premi in palio. Ma l’incrocio tra imponibile Imu e prezzi di mercato riserva più di una sorpresa. Ed evidenzia, oltre ai difetti del catasto, le fragilità dei mercati immobiliari locali e l’impatto della crisi da Covid-19 sui prezzi delle case.

L’elaborazione del Sole 24 Ore, in collaborazione con Nomisma, confronta il valore catastale medio (abitazioni in categoria A/2 e A/3, il 79% del totale) e le quotazioni medie di fine 2020 (per un appartamento di 90 metri quadrati, tipologia usato civile). Sui 103 capoluoghi rilevati dalle statistiche catastali, ce ne sono dieci in cui il prezzo medio di mercato scende sotto l’importo figurativo fiscale. Non solo Pordenone, ma anche Alessandria, Taranto, Mantova e Viterbo. Altri nove capoluoghi, tra cui Venezia e Milano, hanno invece un rapporto superiore a due e sono, per così dire, i più “avvantaggiati” dal catasto.

Le «Raccomandazioni specifiche per Paese» del 2019 della Ue, citate nel Pnrr, suggeriscono una «riforma dei valori catastali non aggiornati». La revisione, però, non rientra nel menu della riforma fiscale il cui disegno di legge delega è atteso a settembre in Consiglio dei ministri. L’atto d’indirizzo approvato a fine giugno dalle commissioni Finanze di Camera e Senato su questo punto non prende posizione, e il silenzio è quanto mai indicativo: nonostante le ipotesi circolate in precedenza, la volontà parlamentare è quella di non riaprire un dossier così delicato.

A riportare l’attenzione sul tema è piuttosto l’atto di indirizzo 2021-23 del ministero dell’Economia, che ha sollecitato maggior aggiornamento e integrazione dei database immobiliari «anche nell’ottica di una più equa imposizione immobiliare» (si veda Il Sole 24 Ore del 20 agosto scorso).

Ecco perché è interessante, intanto, inquadrare la situazione. Il raffronto con il valore di mercato mostra quanto possa essere diverso il peso dell’Imu, a parità di delibera: la classica aliquota del 10,6 per mille, applicata da moltissimi Comuni, può tradursi in un tax rate più o meno pesante. Si può passare così dallo 0,4% di carico fiscale sul valore di mercato effettivo a Imperia fino ad arrivare all’1,2% di Pordenone (dove comunque pure l’aliquota ordinaria si ferma all’8,85 per mille). E anche l’11,4 per mille di Milano si traduce in uno 0,5%, distante dai carichi fiscali più pesanti.

Dietro i divari tra le città non c’è mai una spiegazione unica. Gli estimi attuali fotografano il mercato di fine anni ’80 e da allora ci sono città e quartieri in cui i prezzi sono cresciuti o diminuiti. Padova, ad esempio, è penalizzata anche da rendite catastali tra le più elevate d’Italia, superate solo da Siena e Roma.

Bisogna ricordare poi che si parla sempre di dati medi. Con innumerevoli eccezioni, anche all’interno dello stesso Comune: case in centro con pochi vani hanno rendite più basse, ma se sono in categoria signorile (A/1) il discorso si ribalta; abitazioni di nuova costruzione sono in genere più quotate dal catasto, ma una villetta può pagare di più se è iscritta come A/7 anziché A/2; molti immobili ristrutturati – ma non tutti – hanno visto crescere la rendita (e i contribuenti che sfruttano i bonus sui lavori sono ormai 10,3 milioni). E ancora: alcuni Comuni come Roma, Milano, Bari e Lecce sono stati oggetto di revisioni delle rendite più o meno estese, mentre nella maggioranza degli altri non si è intervenuti.

In generale, fuori dai capoluoghi è probabile che il catasto sia più penalizzante per i proprietari, perché nei piccoli centri i valori di mercato riflettono di solito le minori possibilità di affitto e rivendita.

Illustrazione di Giorgio De Marinis/Il Sole 24 Ore

IlSole24Ore

Tensione sui prezzi: sarà inflazione? Il rebus d'autunno in sei grandi indizi. - Michela Finizio

 

La bolletta del gas è salita del 15,3%, quella dell’elettricità del 9,9%. Il petrolio ha raggiunto i 71 dollari al barile, la benzina 1,65 euro al litro. Alle stelle grano (+32%) e caffè (+49%), allarme sui chip. Ma le fiammate potrebbero essere transitorie. 

Prodotti e servizi travolti dalle recenti fiammate inflazionistiche: i rincari, già rilevati dagli osservatori o previsti per il prossimo autunno, sfiorano diversi comparti. Aumentano le bollette di gas e luce, rispettivamente del +15,3% e del 9,9% per una famiglia tipo in regime di tutela nel terzo trimestre 2021. Così come tutti gli altri beni energetici, trainati dal prezzo del petrolio che la scorsa settimana ha superato i 71 dollari al barile (+56,7% su base annua). Tanto che il pieno di benzina è salito del 18% rispetto all’estate scorsa.

Anche l’agroalimentare affronta le ricadute del boom delle materie prime. Le quotazioni del grano hanno raggiunto i 245 euro per tonnellata (+32%) ed è solo un questione di tempo prima che le quotazioni dell’arabica (184 centesimi di dollari per libbra, ai massimi dal 2014) impattino sul prezzo della tazzina di caffè.

Ma quali sono le variabili che influenzeranno i rialzi dei prezzi al consumo nei prossimi mesi? Si possono riassumere in sei punti i fattori che animeranno la rinegoziazione dei listini, tra tensioni salariali e costi di produzione in molti casi lievitati. Un trend che preoccupa ma che «potrebbe rivelarsi transitorio», ha affermato venerdì scorso il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, nel suo video-discorso al simposio di banchieri di Jackson Hole, negli Usa.

1) IL PESO DELL’ENERGIA.

Il rimbalzo rispetto ai mesi di lockdown.

I recenti rialzi dei prezzi potrebbero non rappresentare le premesse di un ingresso in un ciclo inflazionistico. È possibile che le impennate registrate negli Usa e in Europa abbiano carattere transitorio, legato a più fattori concomitanti. Il primo è un effetto statistico: i tassi d’inflazione recenti sono calcolati confrontando i livelli dei prezzi attuali con quelli dei mesi immediatamente successivi al lockdown, che in diversi casi registravano contrazioni anomale. Un fenomeno molto marcato ad esempio sul petrolio e sui prodotti energetici, dove i rincari di oggi in parte recuperano le precedenti riduzioni.

«L’inflazione italiana registrata a luglio 2021 (+1,9% su base annua, ndr) è comunque più contenuta del +5,4% degli Stati Uniti - spiega Fedele De Novellis, economista di Ref Ricerche - Il nostro dato per ora è soprattutto legato al rincaro dei beni energetici e della benzina, e per gran parte deriva dall’incremento del prezzo del petrolio. Queste voci erano crollate in modo consistente durante il picco dell’emergenza sanitaria».

Basta fare un esempio con i dati dell’osservatorio del ministero dello Sviluppo economico sul prezzo dei carburanti: la benzina, che a luglio 2019 costava 1,594 euro al litro, l’estate scorsa era scesa a 1,403 euro come conseguenza diretta del recente blocco degli spostamenti, mentre a luglio di quest’anno è risalita a 1,650 euro al litro.

2) CATENA DELLE FORNITURE.

Materie prime e cicli industriali interrotti.

Il mercato delle materie prime, sia industriali che agricole, sembra aver accusato il colpo. Il boom dei costi di alcune importazioni è strettamente correlato alle scorte erose durante il precedente periodo di crollo dei consumi e al successivo rapido recupero della domanda per la ripresa dell’industria mondiale. Gli stop and go imposti per contenere i contagi hanno stravolto alcune filiere. «Le condizioni di diversi settori sono variate in base alle disposizioni normative spesso in modo repentino, determinando sforzi organizzativi importanti con inevitabili riflessi sui rifornimenti e sui costi di produzione», spiega De Novellis. Era dunque prevedibile che oggi, di fronte alla ripresa economica e ai piani di investimento volti a far ripartire la produzione, si generassero pressioni sui prezzi. «Fa impressione guardare le variazioni - aggiunge l’economista di Ref Ricerche - ma in realtà le regole del gioco non sono cambiate. Per questo l’inflazione potrebbe essere solo un fenomeno transitorio. La sfuriata sembra già che stia rientrando».

Ad esempio i prezzi del legname, dopo essere triplicati, nelle ultime settimane sono crollati. Anche l’acciaio, dopo il picco, ha iniziato a scendere. «Certamente potremo assistere anche ad altre sorprese, ma le ricadute sui prezzi freneranno una volta che i cicli industriali si saranno assestati. E addirittura alcuni prezzi potrebbero mostrare delle riduzioni», dice il responsabile dei report congiunturali di Ref Ricerche. Tra le altre materie prime sotto i riflettori c’è anche il rame (+43% su base annua), l’alluminio (+47%), ma anche alcuni prodotti agricoli che potrebbero avere riflessi diretti sul carrello della spesa, come il grano, la soia (le cui quotazioni però iniziano a ridimensionarsi), mentre il caffè ha toccato i 184 centesimi di dollari per libra con un incremento del 49% rispetto ad agosto dello scorso anno.

3) COLLO DI BOTTIGLIA.

La logistica chiede il conto dopo gli sforzi.

Va monitorata, inoltre, la ricaduta sui prezzi finali al consumatore del caro della logistica: i noli marittimi per i carichi alla rinfusa sono ai massimi da undici anni (il Baltic Dry Index è oltre 4mila punti) e quelli per i container sono decuplicati rispetto all’anno scorso sulle principali rotte dall’Asia (per spedire un container da 40 piedi dalla Cina all’Europa oggi si spendono più di 14mila dollari). Anche in questo caso il recupero della domanda, insieme al disallineamento geografico tra domanda e disponibilità di container e di navi cargo, hanno generato un collo di bottiglia.

L’offerta inadeguata ha fatto schizzare i prezzi alle stelle e, in questo caso, si rischiano ritardi nei rifornimenti. Una congestione che, se non verrà presto riassorbita, potrebbe minacciare il ritorno alla normalità di alcuni cicli produttivi e di conseguenza l’alleggerimento delle pressioni sui prezzi.

4) TENSIONI SALARIALI.

La grande riallocazione della manodopera.

Il potere d’acquisto dei consumatori è strettamente connesso alle dinamiche del mercato del lavoro e le tensioni salariali si riflettono sui cicli produttivi. «Negli Usa - racconta De Novellis - sono emersi problemi di reperimento di manodopera in alcuni settori, soprattutto nella ristorazione dove molti licenziati avevano trovato posto nella logistica o nei trasporti (dove i salari sono più alti). In Italia le aziende turistiche in alcuni casi hanno faticato a trovare stagionali. Interi comparti potrebbero risentire di questa scarsità di manodopera: non si trovano informatici, così come autisti per guidare i camion».

Siamo,in una fase di riallocazione e riorganizzazione della forza lavoro per cui potrebbero esserci tensioni sui costi. «Non è una situazione da boom economico: non assisteremo ad aumenti generalizzati sui salari, ma piuttosto a incrementi retributivi su alcune professionalità specifiche», conclude.

5) I NUOVI TREND.

La domanda cambia e si adatta al post Covid.

Alcuni cambiamenti della domanda cui stiamo assistendo sono strutturali. La pandemia ha ribaltato e rimescolato le priorità e le scelte dei consumatori. Lo dimostra la corsa ai personal computer e il boom dell’informatica sulla spinta della digitalizzazione imposta dal Covid in tutti i comparti e tra le mura domestiche. La filiera ha faticato a star dietro alla domanda e la crisi dei microchip che oggi si registra sui mercati internazionali ne è un risultato: i componenti introvabili bloccano i cicli produttivi e questo si riflette, inevitabilmente, sui prezzi. Dall’altra parte c’è la crisi dell’abbigliamento e delle calzature che soffre per una domanda che si è quasi azzerata durante le chiusure.

Se la digitalizzazione appare un processo irreversibile, alcuni di questi cambiamenti potrebbero essere però transitori. Come ad esempio il boom dei prezzi delle auto usate che si è registrato negli Stati Uniti dopo le riaperture, sostenuti da gruppi di consumatori che si riversavano sull’automotive per paura di usare i mezzi di trasporto pubblico. «Una volta contenuto il fenomeno - spiega De Novellis - la domanda si raffredderà nuovamente e i prezzi si normalizzeranno».

6) LA SPINTA AI CONSUMI.

I rischi di politiche di sostegno eccessive.

Alcuni mesi fa, all’interno del dibattito sulla manovra di bilancio voluta dal presidente Usa Joe Biden, alcuni economisti sollevarono l’obiezione che l’entità dell’espansione fiscale programmata per quest’anno fosse eccessiva, tanto da rischiare un rialzo sull’inflazione. Secondo i sostenitori della tesi “inflazionista”, in estrema sintesi, un impulso fiscale di dimensioni così rilevanti, sovrapponendosi all’effetto positivo sui consumi legato alla rimozione delle misure di distanziamento, produce un incremento della domanda tale da superare il livello del Pil potenziale, generando così spinte sui prezzi. «Tuttavia - spiega il ricercatore di Ref - la relazione fra impulso fiscale e consumi non si esplica in genere con immediatezza, ma tende a materializzarsi gradualmente. Tanto più se si considera che molte delle risorse stanziate spesso sono circoscritte nel tempo, valgono per l’anno in corso».

È cruciale capire come nei prossimi mesi, in base all’evoluzione dell’emergenza sanitaria, i governi, anche quello italiano, intenderanno ridurre i sostegni all’economia.

Illustrazione di Laura Cattaneo/Il Sole 24 Ore

IlSole24Ore

Debito record, così i bond sono saliti al 75% del Pil mondiale. - Vito Lops

Illustrazione di Maria Limongelli/Il Sole 24 Ore

Un mare di debiti. Il valore delle obbligazioni in circolazione è pari a tre quarti del Pil globale. Boom di acquisti anche se i prezzi corrono.

«L’inflazione è alta ed è causa di preoccupazione ma continuiamo a credere che sia transitoria». È un mantra che il governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, recita da tempo. E che ha ripetuto venerdì nel tanto atteso discorso di Jackson Hole. Parole rassicuranti per gli investitori, che sono tornati a comprare Treasury e altre obbligazioni con conseguente calo dei rendimenti. Nei prossimi mesi scopriremo se Powell avrà ragione o se invece (ci si augura di no) l’inflazione scapperà di mano alle banche centrali. Resta il fatto che la fotografia attuale – eredità della pandemia e dei lockdown – indica che negli Stati Uniti l’inflazione viaggia al 5,4%, come non accadeva dal 2008, e soprattutto che quella core (depurata cioè delle componenti più volatili, come alimentari ed energia) ha toccato a giugno il 4,3% annuo, il massimo dal 1992.

Tassi dei titoli di Stato e inflazione di solito hanno un andamento correlato, proprio perché nel rendimento dei bond è incorporata, oltre al rischio emittente, anche la componente inflattiva. Ma in questa fase l’inflazione Usa si è totalmente sganciata dall’andamento delle obbligazioni, replicando graficamente uno schema visto prima d’ora solo negli anni ’70 quando la crisi petrolifera fece balzare del 300% il prezzo del greggio.

Va detto che l’inflazione corre un po’ dappertutto. Persino nell’Eurozona – da anni alle prese con il rischio contrario di “giapponesizzazione” di tassi ed economia – ha superato il mese scorso la soglia di attenzione del 2% portandosi al 2,2%. Ma mentre i prezzi al consumo corrono gli investitori anziché vendere le obbligazioni, riportando i tassi più in alto in armonia con il crescente rischio inflattivo, li acquistano. Ce lo dice il dato sulla capitalizzazione dei bond globali, sia governativi che corporate, che ormai sfiora la soglia dei 70mila miliardi di dollari, pari a circa tre quarti del Prodotto interno lordo globale (che nel 2020 è stato di 84mila miliardi, mentre per il 2021 è stimato intorno a 93mila miliardi): un dato senza precedenti per questa classe di investimento, aggravato dalla quota di bond che viaggiano a tassi negativi (chi li compra paga un interesse al debitore anziché riceverlo) che si attesta intorno ai 17mila miliardi. Nel 2010 il valore delle obbligazioni in circolazione era 35mila miliardi, pari al 53% del Pil.

Il Covid – stimolando l’emissione di nuovo debito con acquisti foraggiati dalle banche centrali, i cui bilanci hanno superato 30mila miliardi di dollari – ha accentuato contraddizioni che il mondo finanziario stava già sperimentando. E che adesso rischiano di trasformarsi in pericolose bolle. La grande domanda è cosa accadrà alla montagna di bond in circolazione se e quando le principali banche centrali inizieranno a rialzare i tassi. Su questo fronte siamo sul filo del rasoio. Non a caso Powell due giorni fa ha comprato altro tempo indicando che, anche se la Fed avvierà entro fine anno il tapering (il piano di riduzione degli stimoli monetari), questo non implica un automatico rialzo dei tassi. Si temporeggia nella speranza che l’economia si riprenda e metta una toppa alle bolle finanziarie che sono state create. Gran parte della partita si giocherà proprio sul trend dell’inflazione: sarà davvero transitoria come professano i banchieri centrali?

In un recente report intitolato «Rientro nell’orbita» Mark Haefele, chief investment officer di global wealth management di Ubs, scrive che «l’inflazione diminuirà nel corso del 2022 e la crescita economica si manterrà robusta». La pensa così anche la maggioranza degli investitori, dato che osservando i tassi a lungo periodo – stime di inflazione a 5 anni e per i successivi 5 – il dato si ammorbidisce al 2,3% negli Usa e all’1,7% nell’Eurozona. Ma le incognite restano. E viaggiano di pari passo con le incertezze legate alla pandemia e ai numerosi colli di bottiglia che ha generato nelle catene di rifornimento. Secondo indiscrezioni circolate nei giorni scorsi, il maggior produttore mondiale di chip, la taiwanese Tsmc, con una quota del 65% del mercato, intende aumentare i prezzi fino al 20%. È uno dei motivi per cui anche all’interno della Fed c’è spaccatura sul tema: per il governatore della Fed di Philadelphia, Patrick Harker, «ci sono evidenze che l’inflazione possa perdurare più a lungo delle attuali stime». Rick Rieder, capo degli investimenti di BlackRock, ha esortato la banca centrale Usa a ridurre gli stimoli quanto prima: «È ora di iniziare, la liquidità è troppa».

Non preoccupano solo i prezzi al consumo. Il segnale d’allarme arriva dai prezzi alla produzione, con l’indice in rialzo del 7,8% negli Usa, del 9% in Cina e del 10,2% nell’Eurozona. Le imprese potranno evitare di scaricare i costi extra sui consumatori? E che ne sarà, nel caso, dei loro utili? Domande micro che rimbalzano sullo scenario macro e poi a cascata sui mercati finanziari.

Va detto che l’inflazione è come il colesterolo. C’è quella buona (da domanda) e quella cattiva (da offerta). Questo lineare schema di pensiero – che da tempo aiuta gli economisti a filtrare i dati sui prezzi dei beni e servizi – è diventato più complesso nell’era Covid. La pandemia con i primi lockdown ha mandato KO tanto la domanda quanto l’offerta, creando uno scenario paragonabile a una guerra mondiale. In seguito le riaperture a macchia di leopardo hanno creato un forte disallineamento tra domanda (tornata tonica) e offerta, messa al palo dalla mancanza di scorte in magazzino e da problemi logistici e di produzione legati allo sviluppo di nuovi focolai e varianti del virus. Sono questi enormi colli di bottiglia creatisi in alcuni settori chiave (come quello dei chip, da cui dipende non solo la produzione di computer e smartphone ma anche di auto e molti altri beni) a creare i disagi più grandi e a lasciare incertezze sulla ripresa e sull’inflazione che verrà. E poi c’è il tema dei vaccini.

«Siamo di fronte a una doppia situazione sanitaria tra i Paesi occidentali che procedono spediti con le vaccinazioni, e quindi con l’economia in piena riapertura, e i Paesi orientali, che hanno enormi difficoltà di accesso ai vaccini, in cui si trovano però molte unità di produzione, elemento fondamentale della supply chain – spiega Yannick Lopez, head of fixed income di Ofi asset management –. Questo sta facendo salire i prezzi. Al momento queste tensioni sono viste in gran parte come temporanee. Tuttavia, la vaccinazione a due livelli può comportare il rischio di successive ondate di varianti, con il pericolo di mettere l’economia occidentale in una modalità permamente di stop-and-go. Ciò porterebbe a una disorganizzazione globale della catena di rifornimento e manterrebbe per un periodo di tempo più lungo le pressioni inflazionistiche».

Il risultato è che si naviga a vista. Le rassicurazioni di Powell sulla transitorietà del fenomeno servono a spegnere le improvvise fiammate di volatilità sulle Borse. Ma per ora sono solo parole. Per i fatti bisognerà aspettare ancora qualche trimestre.

IlSole24Ore

domenica 29 agosto 2021

Monoclonali: La cura c’è, tutto il resto invece manca. - Thomas Mackinson

 

Autunno. Medicina territoriale e alti costi: perché quella che può essere una svolta stenta a partire.

La sola cura per il Covid-19 fino a oggi ufficialmente riconosciuta è finita dentro un imbuto tipicamente italiano da cui esce col contagocce.

A sette mesi dall’autorizzazione all’uso, i pazienti trattati con farmaci a base di anticorpi monoclonali sono infatti stati soltanto 7.500 sparsi tra tutte le regioni d’Italia.

Alcune come Lazio, Veneto e Toscana svettano nella classifica; altre non brillano affatto come l’Umbria, che in una settimana ha registrato 800 nuovi contagi e un solo monoclonale somministrato.

Usa e Germania corrono Noi siamo in ritardo.

Nel complesso, la via italiana ai monoclonali – unica cura autorizzata al mondo – procede tra strappi e ritardi. Si era aperta l’8 febbraio 2021 quando, superando molte resistenze, l’Agenzia italiana del farmaco ne aveva infine autorizzato l’uso, anche se soltanto in emergenza. Le aspettative però si sono presto infrante sui numeri: in questo lasso di tempo li abbiamo usati cinque volte meno che gli Stati Uniti, tre volte meno della Germania. E vai a sapere quanti pazienti si sarebbero potuti curare e salvare.

Il sottoutilizzo, va detto, non è dovuto alle risorse, perché già a febbraio il ministero della Salute aveva reperito quelle necessarie agli acquisti a valere su un fondo da 400 milioni: con una media di mille-duemila euro a fiala, a seconda del farmaco, si potevano garantire 200 mila infusioni.

La determina dell’Aifa. Si allarga la platea.

Perché in sette mesi ne sono state fatte 26 volte meno? Per quell’imbuto fatto di inerzie, burocrazia e disorganizzazione sanitaria che continua a minare l’uscita dal tunnel. Per tentare di rovesciarlo, l’Agenzia del Farmaco prova oggi ad allargare la platea dei soggetti candidabili all’infusione. Il 4 agosto ha emanato una determina che modifica i registri cui accedono i medici per le prescrizioni. I monoclonali valgono ancora per i pazienti non ospedalizzati ad “alto rischio di progressione a Covid19 severo”, ma i vincoli sui fattori di rischio sono diventati meno stringenti.

Più precisamente, la vecchia formulazione recitava: “Si definiscono ad alto rischio i pazienti che soddisfano almeno uno dei seguenti criteri”, e giù l’elenco delle patologie (immunodeficienza, malattie cardiovascolari, diabete mellito e così via).

Nella nuova, la frase lascia il posto a un più generico “alcuni dei possibili fattori di rischio sono…”, rimettendo così al medico il compito di selezionare il paziente idoneo alla cura.

Il Veneto su tutti Ma i numeri sono bassi.

Esulta per questo il presidente del Veneto Luca Zaia: “Sarà possibile somministrare gli anticorpi monoclonali a tutti, mentre prima, in base alle indicazioni dell’Agenzia italiana del farmaco erano destinati solo a chi aveva anche altre patologie, ora invece le cure con i monoclonali sono aperte a tutti”.

E per una ragione fondata. Zaia sa che il primato della sua regione, che vanta il 50% di tutte le somministrazioni fatte in Italia, è in realtà ben poca cosa in termini assoluti: solo 72 richieste di prescrizione a fronte di 3.873 nuovi contagi in una settimana. Per questo il leghista tiene a far sapere ai veneti di aver informato tutte le aziende ospedaliere della buona novella.

Assistenza domiciliarePunto debole del sistema.

Le somministrazioni a singhiozzo rivelano tutta la debolezza della medicina territoriale, quella che dovrebbe velocemente diagnosticare, valutare l’eleggibilità al trattamento e organizzare l’infusione endovenosa in strutture sanitarie autorizzate.

Su questo fronte, a un anno e mezzo dall’inizio della pandemia, non si sono registrati miglioramenti, anche se l’ultimo monitoraggio disponibile attesta un aumento delle prescrizioni (389 contro 302 della settimana precedente). Il punto è che va così coi preparati di prima generazione, quelli che richiedono un’infusione di un’ora in strutture ospedaliere organizzate, figurarsi con quelli di seconda generazione, somministrabili attraverso una semplice iniezione intramuscolo direttamente a casa dei pazienti.

Non c’è un protocollo. Nuovo ritardo in vista.

Diverse multinazionali e centri di ricerca, anche italiani, stanno mettendo a punto questi farmaci che, più semplici da somministrare, potrebbero ridare slancio all’arma spuntata che riduce infezioni e ricoveri e funge anche da barriera temporanea al virus e alle sue multiformi variazioni. I primi dovrebbero arrivare in autunno. A oggi però non c’è ancora alcuna determina Aifa relativa alla formulazione intramuscolo o protocolli nazionali per l’uso allargato in via domiciliare. Il prossimo ritardo, dunque, è già dietro l’angolo.

ILFQ