domenica 31 ottobre 2021

Certificati anagrafici, addio alla marca da bollo: basterà lo Spid per scaricarli gratis online. - Massimiliano Jattoni Dall’Asén

 

Basterà avere lo Spid o Cie (la carta d’identità elettronica) per potere scaricare gratuitamente 14 certificati anagrafici in formato digitale. Per la prima volta, a partire dal 15 novembre, i cittadini italiani potranno usufruire del nuovo servizio dell’Anagrafe nazionale della popolazione residente (ANPR) del Ministero dell’Interno, che attraverso pochi click mette a disposizione un numero consistente di certificati, scaricabili per sé o per un componente della propria famiglia dal proprio computer, senza più bisogno di recarsi agli sportelli.

Burocrazia più snella.

Il MItd (Ministero trasformazione digitale) ufficializza così quanto anticipato dal ministro Vittorio Colao. Questo, oltre a semplificare la vita dei cittadini, permetterà anche alle amministrazioni pubbliche di avere un punto di riferimento unico per i dati e le informazioni anagrafiche, dal quale poter reperire informazioni certe e sicure per poter erogare servizi integrati e più efficienti per i cittadini. Con un’anagrafe nazionale unica, infatti, ogni aggiornamento sarà immediatamente consultabile dagli enti pubblici che accedono alla banca dati, dall’Agenzia delle entrate all’Inps, fino alla Motorizzazione civile.

I 14 certificati esenti dal bollo.

Come detto, i certificati digitali saranno completamente gratuiti: non si dovrà infatti pagare il bollo. Inoltre, per le aree plurilinguistiche saranno disponibili in modalità multilingua. Nel dettaglio, i 14 certificati riguardano quello di nascita, di matrimonio, di cittadinanza, di esistenza in vita, di residenza, di residenza AIRE, di stato di famiglia e di stato civile, di residenza in convivenza, di stato di famiglia AIRE, di stato di famiglia con rapporti di parentela, di stato Libero, anagrafico di unione civile e di contratto di convivenza.

Come ottenere i certificati.

Come spiegano in una nota congiunta MIdt e Sogei, al portale si accede con la propria identità digitale (SPID, Carta d’Identità Elettronica, CNS) e se la richiesta è per un familiare verrà mostrato l’elenco dei componenti della famiglia per cui è possibile richiedere un certificato. Il servizio, inoltre, consente la visione dell’anteprima del documento per verificare la correttezza dei dati e di poterlo scaricare in formato .pdf o riceverlo via mail.



https://www.corriere.it/economia/finanza/21_ottobre_30/certificati-anagrafici-addio-bollo-bastera-spid-scaricarli-online-gratis-25c614cc-3961-11ec-9ccd-c99589413e68.shtml?fbclid=IwAR1Oe0hS68kX4wlw7njEXn8yp6HMGrWU2wDBbi5uNAME5vrxeEza7aHydPI

Tassa sui miliardari: da Musk a Bezos, i 10 Paperoni che pagheranno di più. - Angelo Mincuzzi

Illustrazione di Giorgio De Marinis/Il Sole 24 Ore

 

Se passasse la proposta del senatore Wyden, il proprietario di Tesla verserebbe 50 miliardi, il fondatore di Amazon 44 e Zuckerberg 29 miliardi.

Il conto più salato lo pagherebbe Elon Musk, il proprietario di Tesla. L’uomo più ricco del mondo, con un patrimonio stimato in 274 miliardi di dollari, dovrebbe versare al Fisco statunitense 50 miliardi tondi tondi. Il salasso colpirebbe anche Jeff Bezos, suo acerrimo rivale nella corsa per la conquista commerciale dello spazio. Il fondatore di Amazon, al secondo posto tra i miliardari più facoltosi della terra con un patrimonio di 196 miliardi di dollari, dovrebbe pagare 44 miliardi. Per Mark Zuckerberg, in questi giorni nell’occhio del ciclone per le rivelazioni della whistleblower ed ex manager di Facebook, Frances Haugen, il conto sarebbe invece di “soli” 29 miliardi. Così come per Larry Page, uno dei fondatori di Google: anche lui verserebbe 29 miliardi nelle casse del governo americano.

I “magnifici quattro.”

Secondo il Bloomberg Billionaires Index, i “magnifici quattro” posseggono complessivamente 735 miliardi di dollari e ne dovrebbero versare 152 al Fisco Usa se dovesse passare la legge proposta dal democratico Ron Wyden, presidente della commissione Finanze del Senato. Conosciuta come la “tassa sui miliardari”, la proposta ha l’appoggio del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, che da giorni ormai invade i social network con tweet in cui spiega perché è necessario far pagare le giuste imposte anche agli uomini più ricchi del Paese.

Nell’impostazione attuale la nuova tassa punta a incassare 500 miliardi di dollari in cinque anni, prima di andare a regime. Complessivamente, i 10 americani più ricchi possiedono un patrimonio di circa 1.300 miliardi di dollari e il piano Wyden richiederebbe loro di pagare in totale di 276 miliardi di tasse.

Il peso maggiore ricadrebbe, nell’ordine, su Musk, Bezos, Zuckerberg e Page – come abbiamo visto – seguiti da Sergey Brin (anch’egli fondatore di Google), Larry Ellison (Oracle), Warren Buffett (Berkshire Hathaway), Bill Gates (Microsoft), Steve Ballmer (Microsoft) e Jim Walton (Wal-Mart). I rimanenti 224 miliardi verrebbero pagati da altri 700 miliardari.

Questi calcoli si basano sulla ricchezza rilevata domenica 24 ottobre dal Bloomberg Billionaires Index ma le stime delle entrate si evolveranno insieme al patrimonio dei miliardari. Solo lunedì 25 ottobre, infatti, la ricchezza totale detenuta da Musk è salita di ben 36 miliardi di dollari a causa di un nuovo ordine di Tesla dalla società di noleggio Hertz.

L’insofferenza di Elon Musk.

Come maggiore contribuente della nuova imposta, Musk non l’ha presa affatto bene e alle 2,22 di notte del 26 ottobre ha lanciato un tweet in cui ventila la possibilità che dopo aver tassato i miliardari il governo potrebbe tassare anche gli altri contribuenti: «Alla fine, finiscono i soldi degli altri e poi vengono a prendere i tuoi», ha scritto.

In base alla proposta di Wyden (che non è per nulla sicuro che passerà così come è stata formulata, anche perché ci sarebbero dei profili di costituzionalità), i miliardari inizieranno a pagare le tasse sulla loro maggiore ricchezza ogni anno, proprio come i lavoratori pagano le tasse sui loro stipendi. L’imposta si applicherà solo ai contribuenti la cui ricchezza supera il miliardo di dollari: circa 700 famiglie su 130 milioni di famiglie degli Stati Uniti, ovvero lo 0,00005% del totale. Oppure riguarderà chi ha guadagnato oltre 100 milioni di dollari per tre anni consecutivi.

L’imposta sarà valutata annualmente sui beni negoziabili, come azioni, fondi comuni di investimento e derivati, il cui valore è noto all’inizio e alla fine dell’anno e il proprietario ottiene un rendiconto finanziario al termine dei 12 mesi. Per le attività non negoziabili, come un’impresa non quotata o immobili, le imposte saranno differite fino alla vendita dell’attività.

Gli interessi saranno addebitati per quegli anni in cui le tasse sono state eluse e il bene è aumentato di valore. Se l’asset perderà invece valore, allora saranno riconosciuti dei crediti d’imposta.

L’aliquota fiscale non è stata ancora determinata, ma è probabile che sia almeno l’aliquota massima sulle plusvalenze, che attualmente è del 20% più un’imposta sul reddito da capitale del 3,8%. In totale, dunque, il 23,8%.

Le aliquote basse dei miliardari.

I miliardari pagano aliquote fiscali effettive molto basse anche perché il valore delle loro azioni societarie non è soggetto alle imposte sulle plusvalenze fino a quando non vengono vendute. Il piano di Wyden equivarrebbe a un importante cambiamento nel Codice fiscale degli Stati Uniti istituendo la tassa del 23,8% sull’aumento del valore delle azioni - cioé la “plusvalenza non realizzata” - anche prima che le attività vengano vendute.

Di conseguenza, il piano ricadrebbe principalmente sui miliardari che hanno mantenuto le loro azioni quotate in Borsa, un criterio facilmente misurabile e pubblicamente identificabile. Le loro partecipazioni aziendali private, come SpaceX di Musk o Blue Origin di Bezos, probabilmente non rientrerebbero nella tassa.

«Ci sono due Codici fiscali in America – ha sottolineato il senatore Wyden spiegando come funzionerà la sua proposta -. Il primo è obbligatorio per i lavoratori che pagano le tasse prelevate da ogni busta paga. Il secondo è volontario per i miliardari che rimandano il pagamento delle tasse per anni, se non a tempo indeterminato. Due Codici fiscali consentono ai miliardari di utilizzare il reddito in gran parte non tassato della loro ricchezza per costruire più ricchezza, mentre le famiglie che lavorano lottano per bilanciare il mutuo con le spese e le bollette. Ecco perché è il momento di un’imposta sul reddito dei miliardari».

Il boom durante la pandemia.

Gli oltre 700 miliardari americani hanno visto la loro ricchezza aumentare di 1,8 trilioni di dollari (+62%), durante i primi 17 mesi di pandemia. Sulla base dei dati del Fisco statunitense, il giornale investigativo no-profit ProPublica ha scoperto che Jeff Bezos ha pagato zero tasse federali sul reddito nel 2007 e nel 2011, Elon Musk ne ha pagate zero nel 2018 e Michael Bloomberg ha pagato zero più volte negli ultimi anni.

ProPublica ha anche scoperto che i 25 miliardari più ricchi hanno pagato un’aliquota fiscale effettiva di appena il 3,4% su un incremento di 400 miliardi di dollari della loro ricchezza tra il 2014 e il 2018.

Gli economisti della Casa Bianca, dal canto loro, hanno rilevato che in media le 400 famiglie più ricche degli Stati Uniti hanno pagato un’aliquota effettiva dell’imposta federale sul reddito di poco superiore all’8% negli ultimi anni, se si calcola l’aumento del valore delle loro azioni. Insomma - afferma la Casa Bianca - i miliardari possono pagare aliquote fiscali inferiori rispetto ai lavoratori della classe media, come insegnanti, infermieri e vigili del fuoco.

I miliardari versano aliquote fiscali così basse per due motivi principali. La maggior parte del loro reddito deriva dall’aumento del valore dei loro investimenti come azioni, attività commerciali o immobili, piuttosto che da una busta paga. Inoltre, non devono pagare le tasse su quella maggiore ricchezza se non vendono asset. E non hanno bisogno di venderli perché possono usarli come garanzia per prendere in prestito denaro dalle banche a tassi bassi e vivere esentasse.

Se invece vendono i loro beni, pagano un’aliquota massima dell'imposta sulle plusvalenze del 20% (più l’imposta sul reddito da capitale netto del 3,8%), molto al di sotto dell’attuale tasso massimo del 37% che pagherebbero con uno stipendio da lavoratore dipendente. Questo è il motivo per cui molti ultraricchi pagano un’aliquota fiscale inferiore rispetto alle persone della classe media.

Il dibattito in Europa.

Il problema del doppio regime fiscale non è solo americano. Solo qualche giorno fa l’economista francese Thomas Piketty, autore di due libri diventati pietre miliari per interpretare l’evoluzione della società (“Il capitale nel XXI secolo” e “Capitale e ideologia”), ha scritto su Le Monde un lungo articolo per chiedere l’istituzione di un catasto dei patrimoni finanziari.

Il problema di fondo – sostiene l’economista francese – è che, all’inizio del XXI secolo, si continua a registrare e tassare i patrimoni sulla sola base dei beni immobili, utilizzando i catasti realizzati all'inizio del XIX secolo. Il possesso di un patrimonio – è il ragionamento di Piketty – è un indicatore della capacità contributiva delle persone, il che spiega perché la tassazione dei patrimoni ha sempre avuto un ruolo centrale nei moderni sistemi fiscali, oltre alla tassazione che grava sul flusso del reddito.

«Istituendo un catasto centralizzato per tutti i beni immobili, sia abitativi che professionali (terreni agricoli, negozi, fabbriche), la Rivoluzione francese istituì nello stesso tempo un sistema fiscale basato sulle transazioni (diritti di trasferimento ancora in vigore oggi) e soprattutto sulla proprietà (con imposta fondiaria) – sottolinea Piketty -. In Francia come negli Stati Uniti e in quasi tutti i paesi ricchi, l'imposta sulla proprietà continua a rappresentare la principale imposta sul patrimonio».

Un sistema ormai vecchio.

Il problema è che questo sistema di registrazione e tassazione dei beni è rimasto pressoché invariato da due secoli, anche se le attività finanziarie hanno assunto un’importanza preponderante.
«Il risultato è un sistema estremamente ingiusto e diseguale - sostiene Piketty -. Se possiedi una casa o un immobile professionale del valore di 300.000 euro e sei indebitato fino a 290.000 euro, pagherai la stessa tassa di proprietà di una persona che ha ereditato la stessa proprietà e possiede inoltre un portafoglio finanziario di 3 milioni di euro. Nessun principio, nessun ragionamento economico può giustificare un sistema fiscale così violentemente regressivo».

In molti affermano che sarebbe impossibile registrare i patrimoni finanziari. Secondo Piketty, però, non si tratta di un’impossibilità tecnica ma di una scelta politica: «Abbiamo scelto di privatizzare la registrazione dei titoli finanziari (presso depositari centrali di diritto privato, come Clearstream o Eurostream) e poi di istituire la libera circolazione dei capitali garantita dagli Stati, senza alcun coordinamento fiscale preventivo».

Il catasto finanziario.

Cosa fare allora? La priorità dovrebbe essere l'istituzione di un registro pubblico dei patrimoni finanziari e la tassazione minima di tutti i beni, anche solo per produrre informazioni oggettive su di essi. Ogni Paese può muoversi immediatamente in questa direzione, richiedendo a tutte le società che detengono o gestiscono dei beni nel suo territorio di rivelare l'identità dei loro titolari e tassandoli di conseguenza, in modo trasparente e alla stregua dei normali contribuenti, né più né meno. Rinunciando a qualsiasi ambizione in termini di sovranità fiscale e giustizia sociale, conclude Piketty, si incoraggia solo il separatismo dei più ricchi e il ripiegamento su se stessi.

Da una parte all'altra dell’Atlantico il tema della tassazione dei miliardari comincia a dettare l'agenda politica. È una delle conseguenze del nuovo mondo scaturito dalla pandemia.

https://24plus.ilsole24ore.com/art/tassa-miliardari-musk-bezos-10-paperoni-che-pagheranno-piu-AErOhAt?s=hpf

Ddl Zan contro omofobia affossato al Senato con 154 voti contro 131. Sì alla tagliola, stop all’esame. - Nicoletta Cottone

 

Erano tre gli articoli contestati, su identità di genere, pluralismo delle idee e giornata contro l’omofobia da celebrare anche nelle scuole

Salta l’esame di articoli ed emendamenti del ddl Zan e l’iter si blocca. L’aula del Senato ha votato a favore della cosiddetta “tagliola”, chiesta da Lega e FdI. A favore, 154 senatori, 131 i contrari e due astenuti. La votazione a scrutinio segreto, è stata accolta da un applauso. Il disegno di legge contro l’omotransfobia era stato approvato dalla Camera il 4 novembre 2020. La seduta dell’Assemblea è stata sospesa ed è stata convocata la Conferenza dei capigruppo.

Chi ha affossato il ddl.

Immediate le accuse incrociate su chi ha affossato il ddl. Per Goffredo Bettini, membro della Direzione del Pd, il ddl è stato affossato «dalle giravolte di sovranisti e riformisti». C’è chi come il pentastellato Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia della Camera, attacca Italia viva, che «corresponsabile di questo esito rovinoso, addossa ad altri le responsabilità». Maria Elena Boschi di Italia viva punta l’obiettivo «sull’arroganza del Pd e del M5s che ha prodotto una sconfitta incredibile», assistita da Teresa Bellanova che accusa della disfatta 23 franchi tiratori fra Pd, M5S e Leu. C’è chi esulta come ill leghista Roberto Calderoli, vice presidente del Senato: «Evviva, vittoria! Grazie alla mia richiesta di non passaggio all’esame degli articoli e di voto segreto si è posto fine, definitivamente, al ddl Zan, affossato con ben 23 voti di scarto! Quando i professionisti scendono in campo è meglio che i dilettanti che restino in panchina». Fedez, il rapper che aveva difeso il 1° maggio il ddl Zan, su Twitter attacca Renzi: «Ma il Renzi che si proclamava paladino dei diritti civili è lo stesso che oggi pare sia volato in Arabia Saudita mentre si affossava il Ddl Zan? Per celebrare la libertà di parola organizziamo una partitella a scarabeo con Kim Jong-un? Gran tempismo. Comunque bravi tutti».

La conta in aula.

La conta in aula al Senato sul ddl Zan era arrivata nonostante le riunioni che si erano susseguite a palazzo Madama. Non era stata trovata la quadra sulle modifiche chieste da Lega e Fratelli d’Italia, caldeggiate anche da Italia viva. Tre gli articoli contestati: su identità di genere, pluralismo delle idee e giornata contro l’omofobia da celebrare anche nelle scuole. Inascoltato l’appello del segretario del Pd Enrico Letta alla Lega di dimostrare la buona fede ritirando la “tagliola” (i due voti sul non passaggio all’esame degli articoli chiesti da Lega e Fdi).

Casellati: «Ammissibile il voto segreto chiesto da Lega-FdI».

«Il presidente ritiene ammissibili queste due richieste di votazione segreta in base al regolamento e in base ai precedenti», aveva detto la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, nell’Aula di Palazzo Madama dove era in corso l’esame del ddl Zan. «La mia decisione, per quanto legittimo contestare, perché si tratta di interpretazione, ha delle solide fondamenta di carattere giuridico», aveva poi precisato la presidente del Senato sulla decisione di accogliere la richiesta di voto a scrutinio segreto sulla cosiddetta tagliola che prevede il non passaggio agli articoli al ddl Zan. Alessandro Zan ai microfoni di ’Radio anch’io’ su Radiouno Rai aveva auspicato che Casellati non ammettesse il voto segreto sui due voti sul non passaggio all’esame degli articoli chiesti da Lega e Fdi. Salvini: «Sconfitta l’arroganza Pd-M5s, ripartire da proposta Lega» 

«Sconfitta l’arroganza di Letta e dei 5Stelle: hanno detto di no a tutte le proposte di mediazione, comprese quelle formulate dal Santo Padre, dalle associazioni e da molte famiglie, e hanno affossato il Ddl Zan. Ora ripartiamo dalla proposta della Lega: combattere le discriminazioni lasciando fuori i bambini, la libertà di educazione, la teoria gender e i reati di opinione», ha commentato il leader della Lega Matteo Salvini. 

Meloni: «Stop al pessimo ddl Zan, è vittoria Fdi»

«Cala il sipario sul ddl Zan, una pessima proposta di legge che Fratelli d’Italia ha contrastato con coerenza e nel merito fin dall’inizio. Non abbiamo mai cambiato idea e lo abbiamo dimostrato oggi in Senato: siamo stati l’unico gruppo interamente presente e unito nel voto», ha scritto su Fb Giorgia Meloni. «Patetiche le accuse di Letta, Conte e della sinistra: i primi - avverte Meloni - ad aver affossato la legge sono i suoi stessi firmatari, Zan in testa, che in questa proposta hanno scritto e difeso fino alla fine norme e principi surreali (dal self-id al gender nelle scuole) che nulla avevano a che fare con la lotta alle discriminazioni».

Conte: «Qualcuno non ci ha messo la faccia, questo la dice lunga»

«Purtroppo c’è anche qualcuno che non ci ha messo la faccia, questo evidentemente la dice lunga sulla sensibilità per i diritti civili», ha detto il leader M5S Giuseppe Conte, commentando con i giornalisti il voto del Senato sul ddl Zan.

Rossomando: «Fin dall’inizio obiettivo era affossare ddl Zan»

«Il Pd si è battuto compatto per mesi affinché il Senato potesse discutere e poi approvare il ddl Zan, liberando il testo dalle secche in cui veniva bloccato in commissione Giustizia. Con gli emendamenti già depositati per l’aula e all’apertura del dialogo, invece di iniziare la discussione nel merito del testo, si è concretizzata l’alleanza di chi fin dall’inizio ha avuto come unico obiettivo affossare la legge», ha detto la vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia e diritti del Pd, Anna Rossomando.

Alfieri (Pd): «C’è chi si è nascosto dietro voto segreto»

«Grande rammarico per l’affossamento del Ddl Zan. Ci abbiamo creduto e ci siamo impegnati fino all’ultimo secondo. Era davvero l’occasione per fare un passo in avanti su temi che dovrebbero unire come rispetto, inclusione e libertà. Finisce con un voto segreto dietro il quale si sono nascosti coloro che a parole erano con noi e nei fatti hanno invece lavorato per fermare il ddl», ha scritto in un post su Facebook il senatore del Pd Alessandro Alfieri, portavoce di Base riformista.

De Petris (Leu): «La destra non voleva alcun dialogo»

«Il voto di oggi affossa una legge che mirava ad ampliare i diritti senza toglierne a nessuno. Una legge contro la discriminazione, l’intolleranza e l’odio che sin dall’inizio la destra ha voluto solo abbattere nascondendosi dietro una bugiarda disponibilità al dialogo che si è dimostrata oggi inesistente. Ma i numeri dicono chiaramente che questo risultato negativo è stato reso possibile solo dalle defezioni di alcuni che a parole hanno detto di voler discutere la legge in aula, come sarebbe stato non solo giusto ma anche doveroso fare, e nel voto hanno invece fatto la scelta opposta», ha dichiarato la capogruppo di Leu al Senato Loredana De Petris.

Carfagna: «Un braccio di ferro sui diritti non premia nessuno»

«Potevamo avere una buona legge contro la discriminazione di gay e trans, non l’abbiamo per la rigidità ideologica di due minoranze: chi voleva una legge-manifesto e chi non voleva nessuna legge. Il braccio di ferro sui diritti non premia nessuno», ha scritto su Twitter Mara Carfagna, ministro per il Sud e la Coesione territoriale.

Proteste in aula, il pentastellato Santangelo ammonito.

Casellati ha dovuto richiamare più volte il senatore del M5S, Vincenzo Santangelo, reo di aver fatto alcuni gesti all’indirizzo della presidente. «Senatore Santangelo lei è un gran maleducato. Non si fanno gesti alla presidenza, lei è ammonito. È censurato, e tra un po’ la allontano dall’Aula», ha detto Casellati. «Non mi costringa a farlo, a impedirle di votare, la smetta con il suo comportamento irrispettoso. Non ammetto che si facciano gesti di questo tipo, lo può fare da altre parti, non qua dentro».

Lo scontro sul ddl.

Sul testo lo scontro è andato avanti per mesi. Per il Pd andava approvato a ogni costo, per la Lega, Fratelli d’Italia e per Italia viva bisognava mettere mano almeno a tre articoli per portarlo avanti. Superata l’estate e le elezioni amministrative nelle grandi città era continuato il tira e molla sul Ddl Zan. Un testo al centro di rimpalli, resistenze, pressing e inviti a fare presto, che ha visto la maggioranza di governo spaccata fra chi parlava di mediazione e chi di decapitazione. Approvato il 4 novembre 2020 dalla Camera, il ddl Zan aveva avuto subito un atterraggio difficile al Senato, dove è rimasto in stallo per mesi ed è poi stato riesumato dai cassetti della commissione Giustizia di palazzo Madama e calendarizzato il 28 aprile 2021 - con 13 sì e 11 no - dopo cinque mesi di discussioni, rinvii e frenate. Che sono continuati anche nei mesi successivi.

Ostellari: «Uscire dal dualismo buoni-cattivi»

«Dobbiamo uscire dal dualismo buoni-cattivi. Io da presidente della commissione ho assistito al verificarsi di una maggioranza ampia che era assolutamente disponibile a trovare una sintesi sull’articolo 1, 4 e 7. Quella maggioranza non è riuscita a trovare l’accordo a causa di chi vuole polarizzare, anziché tutelare le libertà di tutti e cercare le soluzioni per migliorare un testo che qualcuno invece non vuole assolutamente toccare», ha detto il presidente della Commissione Giustizia del Senato, Andrea Ostellari (Lega), parlando in aula nel corso del dibattito sul ddl Zan.

Vito a Berlusconi: «Mi dimetto dal ruolo in Forza Italia»

«La mia lettera di dimissioni al Presidente Berlusconi da responsabile del dipartimento Difesa e sicurezza di Forza Italia, dopo che è stato annunciato al Senato il nostro voto favorevole al non passaggio agli articoli del #DDLZan», ha scritto sui social il deputato di FI, Elio Vito, allegando anche la foto del testo inviato al Cavaliere. «La cronaca di questi mesi -aveva detto Vito - è purtroppo piena di episodi di violenza ai danni di persone Lgbt, picchiate perché camminavano mano nella mano, si baciavano, portavano una borsa arcobaleno. Per questo, se FI dovesse votare il non passaggio agli articoli del Ddl Zan, una legge che contrasta proprio odio, discriminazioni e violenze, a malincuore, ma per coerenza, non potrei più mantenere l’incarico affidatomi da Berlusconi».

Testo da modificare per il Vaticano.

In campo era sceso anche il Vaticano che a giugno aveva chiesto formalmente al governo di modificare il Ddl Zan che, secondo la Segreteria di Stato, violava «l'accordo di revisione del Concordato». La quadra su un nuovo testo però non era stata trovata e il ddl, sotterrato da una pioggia di emendamenti, era finito direttamente in aula. Dove il 27 ottobre è stato affossato dal voto a scrutinio segreto sui due voti chiesti da Lega e Fdi per non passare alla discussione sugli articoli.

L’apertura di Letta.

Alla trasmissione “Che tempo che fa” era arrivata l’apertura del leader del Pd Enrico Letta. Sulla legge Zan, aveva detto, «abbiamo un dovere nei confronti della nostra società, dobbiamo portarla avanti e approvarla». Letta aveva chiesto ad Alessandro Zan «di fare un’esplorazione con le altre forze politiche per capire le condizioni che possano portare a un’approvazione del testo rapida». E aveva aperto a modifiche «purché non siano cose sostanziali, ma mi fido di Zan. Sulla base di quello che dirà, sono sicuro si potrà approvare il testo in tempi rapidi»

Fallito l’ultimo tentativo di mediazione.

Fallito il tentativo di accordo in extremis tra i partiti di maggioranza. «É complicata, ma sono fiducioso», aveva detto Zan, ricordando che «la legislatura non dura all’infinito» e che c’è la necessità di chiudere perché nei prossimi mesi il Parlamento sarà occupato con la Legge di bilancio e con l’elezione del Capo dello Stato. I voti sul non passaggio all’esame degli articoli chiesti da Lega e FdI per Zan sono «una tagliola. Se dovesse passare la legge morirebbe visto si impedisce di continuare l’iter. Noi ci batteremo perché non accada». Parallelamente al mandato esplorativo affidato a Zan, si è riunito senza esito il tavolo politico in cui i capigruppo di maggioranza disertato dal M5S e Leu che chiedevano al presidente della commissione Andrea Ostellari di ritirare di ritirare la tagliola.

Mirabelli: «No a stravolgimenti».

Per Franco Mirabelli, vice presidente dei senatori del Pd «modifiche non sostanziali sì, stravolgimenti no. Questa è al posizione del Pd che vuole approvare una legge di civiltà. Per questo mercoledì (il 27 ottobre, ndr) è importante concludere la discussione generale e votare contro la richiesta della destra di non passare alla discussione sugli articoli. L'iter deve proseguire per arrivare in fretta all'approvazione di una legge che c'è in tutti gli altri paesi europei. Chi voterà a favore del non passaggio agli articoli vuole affossare la legge, chi la ritiene importante e vuole approvarla, magari con modifiche, voterà contro la richiesta della destra».

Renzi: «Senza un compromesso non si sarebbero fatte neppure le unioni civili»

In aula i 18 i voti di Italia viva sono stati ago della bilancia. «Ci sono punti del ddl Zan - aveva detto Matteo Renzi - in cui non c’è consenso, non solo da parte dei cattolici, ma anche di parte della Cgil e delle femministe. Se si modifica il testo in 15 minuti si porta a casa il risultato, ci si mette d’accordo sui tempi alla Camera». Per chiudere, aveva detto ancora Renzi, «bisogna accettare un principio di civiltà: sui diritti non si fa campagna elettorale. Si devono trovare gli accordi per fare le leggi, non i proclami per sventolare le bandierine». Ricordando che «senza un compromesso non si sarebbero fatte neppure le unioni civili».

Salvini: ddl Zan non ha alcuna speranza di passare.

«Ius soli e ddl Zan non hanno alcuna speranza di passare in Parlamento ed Enrico Letta lo sa benissimo», è stata la risposta a distanza del segretario della Lega Matteo Salvini. «Le priorita’ per gli italiani - ha aggiunto il leader del Carroccio - sono salute, lavoro e pensioni. Ius soli e ddl Zan sono tra le ultime preoccupazioni dei cittadini italiani e stranieri regolarmente presenti nel nostro Paese».

Ostellari: «Correggere gli articoli 1-4-7 e la Lega c’è»

«Al Senato la discussione in Aula sul Ddl Zan terminerà mercoledì, poi si apre tutta la vicenda sugli eventuali emendamenti. Prima di arrivare a quello però riprendiamo il lavoro già intrapreso, che era stato apprezzato e che era stato interrotto proprio perché qualcuno voleva forzare. Andiamo avanti quindi senza forzature. La Lega c’è con quelle modifiche secondo noi necessarie per migliorare questa legge», ha detto il presidente leghista della Commissione Giustizia del Senato e relatore Andrea Ostellari. I nodi principali riguardano gli articoli 1-4-7 del testo. «Bisogna metterci mano, sono nodi giuridici che erano stati segnalati anche dalle altre forze». Per Ostellari la rapida approvazione del testo dipende da quello che emerge dal tavolo con la capigruppo. Altrimenti, come già aveva annunciato a luglio, salterà tutto.

I punti contestati del ddl Zan.

Sono tre gli articoli contestati: 1, 4 e 7. Nell’articolo 1 viene definita l’identità di genere come «l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso biologico», «indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione». Si punta a stralciare queste definizioni e riportare il ddl Zan alla definizione contenuta nel testo Scalfarotto, o aggiungendo le parole «o fondati sull’omofobia o sulla transfobia», oltre al tema della disabilità. Altro articolo contestato è il numero 4 sul pluralismo delle idee: «Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti». Si vede qui un rischio per la libertà di espressione, tutelata dalla Costituzione, che non può essere degradata a legge ordinaria. L’articolo 7, che istituisce la giornata nazionale contro l’omofobia da celebrare anche nelle scuole. Una giornata criticata dal Vaticano e avversata da Renzi, che vuole aggiungere la frase «nel rispetto della piena autonomia scolastica».

https://www.ilsole24ore.com/art/ddl-zan-27-ottobre-prova-voto-aula-AEoTuIs

Frode sui dividendi, così si è aperto un buco da 150 miliardi nelle casse pubbliche europee. - Giulio Rubino e Angelo Mincuzzi

 

Il costo di 20 anni di “dividend washing”, tra elusione ed evasione fiscale. Inchiesta internazionale di giornalisti di 15 paesi e dell’Università di Mannheim

Le frodi sui dividendi azionari hanno causato un ammanco fiscale di 150 miliardi di euro in 20 anni in dieci paesi dell’Unione europea, più la Svizzera e gli Stati Uniti, 13 miliardi dei quali solo in Italia. Messi in fila uno dietro l’altro 150 miliardi di euro in biglietti da cento fanno il giro della terra più di cinque volte. Sono più della spesa sanitaria italiana del 2021 (127 miliardi). Sono pari ai soldi che gli Stati riusciranno a recuperare grazie all'introduzione della tassa minima globale del 15% sulle multinazionali. E sono uguali ai fondi che i paesi dell’Unione europea hanno destinato alle politiche sociali nei loro Piani nazionali per la ripresa e la resilienza. 

Il danno globale delle frodi.

CumEx Files 2.0, un’indagine congiunta di 15 media di 15 paesi europei (per l’Italia Il Sole 24 Ore), americani, australiani, asiatici e africani, coordinati dalla redazione tedesca no-profit CORRECTIV, ha provato a stimare per la prima volta il danno globale causato alle amministrazioni fiscali di dodici paesi dalle operazioni di dividend washing negli ultimi vent'anni (transazioni chiamate tecnicamente “cum-cum” e “cum-ex”). 

La stima è stata realizzata grazie alle analisi svolte dagli esperti dell’università di Mannheim, in Germania, proprio mentre nei tribunali di mezza Europa sono in pieno svolgimento i processi contro alcune delle più importanti frodi sui dividendi degli ultimi anni. 

Inchiesta internazionale.

I CumExFiles, alla base dell'inchiesta alla quale ha lavorato un consorzio di 30 giornalisti, contengono circa 200mila pagine di documenti. Includono rapporti di indagine di varie autorità, verbali di interrogatori di testimoni chiave e di indagati, documenti bancari interni, email, trascrizioni di telefonate intercettate. I documenti provengono da varie fughe di notizie. Le testate che hanno partecipato all’indagine sono Profil (Austria), De Tidj (Belgio), Le Monde (Francia), Ndr e CORRECTIV (Germania), Il Sole 24 Ore (Italia), Reporter (Lussemburgo), Follow the Money (Olanda), El Confidencial (Spagna), Svt (Svezia), Bbc (Regno Unito), Nbc (Usa), Irish Times (Irlanda), Abc (Australia), amaBhugane (Sud Africa) e Tansa (Giappone). 

Grazie al supporto del team del professor Christoph Spengel, docente di diritto tributario all’università di Mannheim, il consorzio di giornalisti ha potuto realizzare almeno una stima parziale dei danni causati da questo tipo di operazioni al fisco europeo (e in parte degli Stati Uniti). La cifra totale è impressionante: oltre 150 miliardi di euro in un periodo di vent’anni, dal 2000 al 2020. Il numero tiene conto sia di operazioni di tipo “cum-cum” che di tipo “cum-ex”, e per l’Italia la valutazione dei soldi che mancano all’appello del fisco arriva a poco più di 13 miliardi di euro. 

Simili perdite di entrate fiscali hanno conseguenze difficili da comprendere, come difficili sono da immaginare 13 miliardi di euro e tutto quello che possono significare in termini sociali e politici. Basti pensare all’aspro dibattito politico sul rifinanziamento al reddito di cittadinanza, che, nel 2021, è di circa 200 milioni di euro. Con le tasse perdute per operazioni di dividend washing lo si potrebbe rifinanziare per 65 anni.

Le magie dell’ottimizzazione fiscale.

“Ottimizzazione fiscale” è un modo elegante, usato dai professionisti del settore, per dire “come pagare meno tasse”. Il concetto, più che legittimo anche se forse piuttosto alieno alla maggior parte dei cittadini comuni, va via via complicandosi man mano che il soggetto da “ottimizzare” diventa più grande, ricco e attivo economicamente sul piano internazionale. Per i grandi studi di diritto tributario internazionale, oltre ad essere una delle principali fonti di reddito, è diventato qualcosa fra un rompicapo e un’ossessione, un puzzle da risolvere nel modo migliore possibile stirando ogni legge e convenzione fin quasi al punto di rottura per ridurre le tasse dei propri clienti, a volte arrivando al di là dei limiti della legge stessa. 

Infatti la complessità delle leggi fiscali, ma soprattutto il modo in cui queste interagiscono fra loro in ambito internazionale, tra convenzioni e accordi bilaterali fra Stati, dà vita ad un amplissima zona grigia, dove le regole sono spesso tutt’altro che chiare. 

Non c’è da stupirsi quindi se una delle più grandi frodi fiscali mai scoperte, il cosiddetto scandalo ”cum-ex” che permette di eludere, e in alcuni casi anche di farsi rimborsare illecitamente, le tasse sui dividendi azionari, sia ancora nella fase del dibattimento in molteplici procedimenti penali aperti nei tribunali di mezza Europa, in particolare in Germania, Danimarca e Olanda. 

I sistemi di dividend washing.

Il sistema “cum-ex” è infatti stato scoperto dalle autorità già dal 2012 in Germania, anche se le operazioni di questo tipo sarebbero cominciate fin dal 2001. Questo schema fiscale, fra l'altro, è solo un tipo, il più aggressivo, di una grande varietà di meccanismi di dividend washing, la cui tipologia più semplice, definita “cum-cum” dagli investigatori tedeschi, è stata praticata e, a detta di diversi attori del mondo finanziario, è ancora praticata, in tutto il mondo con profitti eccezionali. 

Il meccanismo base delle operazioni di dividend washing è abbastanza semplice, anche se può apparire molto complesso. Invece di incassare un dividendo, un’azienda, un trader o un investitore, può vendere le azioni di sua proprietà a un soggetto terzo calcolando nel prezzo di vendita il dividendo ancora “in maturazione” dentro quelle azioni. 

Per chi vende si genera quindi una plusvalenza, che è esente da tassazione, mentre chi compra (e incassa il dividendo), può rivendere le azioni a chi le ha originariamente cedute a un prezzo inferiore a quello di acquisto, cioè al valore delle azioni vuote del dividendo, subendo una perdita, una minusvalenza che però è fiscalmente deducibile. 

Una legge del 2005 dovrebbe arginare queste operazioni, dato che la minusvalenza non è più integralmente deducibile, ma deve essere ridotta della quota non imponibile del dividendo incassato (che per le società di capitali è del 95%). 

Questo cambiamento però non ha arginato il problema, tanto che a seguito della pubblicazione della prima inchiesta “CumEx Files”, realizzata nel 2018 da questo stesso team, l’Esma (l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati) ha inviato un questionario a tutti gli Stati membri per valutare i potenziali rischi a cui è esposta l’Unione europea a causa di operazioni di questo tipo. 

Per l’Italia ha risposto la Consob (la Commissione nazionale per le società e la Borsa), che pur segnalando che non dovrebbero esistere scappatoie legali che permettano le forme più aggressive di dividend washing (del tipo “cum-ex”), ha aggiunto che le azioni di aziende italiane potrebbero essere bersaglio di sistemi del tipo “cum-cum”. 

Infatti, essendo la tassazione sui dividendi molto diversa a seconda del soggetto che le possiede (se è una società di capitali, se è residente in Italia o all’estero) e grazie alle convenzioni contro le doppie imposizioni, c’è sempre modo di spostare i pacchetti azionari da un soggetto A che dovrebbe pagare una tassa più alta a un soggetto B che è esente, o che paga una somma significativamente minore. 

I trasferimenti di azioni.

Se il trasferimento è fatto poco prima del giorno dello stacco del dividendo, il soggetto B incassa il dividendo, e ritrasferisce poi al soggetto A le stesse azioni. B viene compensato da A per il “servizio” e il gioco è fatto. Consob, nella sua risposta a Esma, non nega neanche la possibilità che banche o altri tipi di intermediari italiani si prestino a realizzare simili operazioni (anche dei tipi più aggressivi) in altri paesi europei e non. 

Per quanto possa già sembrare una cifra colossale - si tratta dell’equivalente di un quinto dell’intero fondo Next Generation Ue messo in campo per contrastare la crisi dovuta alla pandemia - i 150 miliardi di euro di danni erariali sono una stima estremamente conservativa. 

La somma infatti comprende solo i paesi per i quali è stato possibile accertare, grazie alle ricerche dei giornalisti che hanno collaborato all’inchiesta, che effettivamente operazioni di questo tipo sono tecnicamente possibili. 

Per il periodo dal 2000 al 2020 si sono considerate Italia, Germania, Austria, Spagna, Olanda, Belgio, Francia e Lussemburgo. La Svizzera e gli Stati Uniti sono stati conteggiati solo fino al 2008, quando secondo le ricerche il fenomeno dovrebbe essere stato bloccato dalle autorità. 

Considerando che secondo gli attuali sistemi di tassazione i soggetti più incentivati a iniziare operazioni di tipo “cum-cum” sono quelli residenti all’estero, che non possono teoricamente beneficiare della tassazione estremamente bassa prevista per le società di capitali italiane (è tassato solo il 5% del dividendo, per una tassa totale intorno al 1,2%), l’università di Mannheim ha voluto mantenersi su cifre conservative. Ha così stimato che solo il 50% delle azioni possedute all’estero passino per un processo di dividend washing anche se, almeno per Francia e Germania, ci sono ragioni di credere che quasi il 100% delle azioni possedute da soggetti esteri passino per un processo del tipo “cum-cum”. 

Con queste premesse, e analizzando tutti i dividendi pagati sui principali indici dei 12 paesi in esame, si arriva alla cifra di 150 miliardi di euro. Nel dettaglio: per le operazioni di tipo “cum-cum” le perdite di gettito arrivano a quasi 141 miliardi di euro, i paesi più colpiti sono Francia (33 miliardi persi), Germania (28) e Olanda (26). L'Italia è al quinto posto, con 13,2 miliardi mancanti. I restanti dieci miliardi vengono dalle operazioni di tipo “cum-ex”, che sono state finora accertate solo in alcuni paesi: Germania, Francia, Belgio e Danimarca. 

La “corsa all’oro”.

La differenza fondamentale fra le operazioni dette “cum-cum” e le “cum-ex” sta nel fatto che le prime si configurano come una sorta di elusione (o evasione, anche qui diversi paesi interpretano la legge in modo diverso) mentre le seconde, fin dalla loro scoperta, sono sempre state percepite come delle frodi vere e proprie, nonostante le accorate difese dei principali indagati. 

Le operazioni “cum-ex”, fino al 2012, si basavano sul fatto che, in alcuni sistemi fiscali europei, la tassa sui dividendi è trattenuta all’origine, ma assieme al dividendo netto il proprietario delle azioni riceve, se ne ha diritto, anche un certificato che dà diritto al rimborso della tassa stessa. 

I trader però hanno scoperto che, se le azioni in questione si trovavano sotto un contratto di opzione o “short sale” durante il giorno del pagamento del dividendo, il certificato di rimborso arrivava sia al proprietario originale delle azioni sia a quello che le aveva opzionate. 

Di fatto, a un singolo dividendo pagato con una singola imposta trattenuta corrispondevano due certificati di rimborso, entrambi esigibili. La scoperta deve aver fatto aprire parecchie bottiglie di champagne, perché molto rapidamente la vicenda si è complicata sempre di più. I trader hanno testato il sistema e accertato che non dovevano limitarsi a soli due certificati ottenuti per ogni azione, perché le opzioni sul singolo pacchetto azionario possono essere multiple, e in alcuni casi la stessa tassa è stata “rimborsata” fino a dieci volte a dieci soggetti diversi. 

«Era un po’ come cercare l’oro - aveva dichiarato al giornale investigativo italiano Irpi il whistleblower Benjamin Frey, che aveva collaborato nel 2018 alla prima inchiesta “cum-ex” files -, a volte funziona, a volte no». 

Il paradosso è che nonostante l’idea di vedersi la stessa tassa rimborsata più volte sia intuitivamente palesemente illegale, i principali accusati ai vari processi in corso in Europa continuano a difendere il loro operato, e solo nel 2020 sono arrivate le prime, timide, condanne. 

I processi in Germania e nel Nord Europa.

In Germania ci sono almeno tre processi in corso, presso i tribunali di Colonia, Francoforte e Monaco. Solo a Colonia ci sono oltre 700 indagati. Altri importanti processi sono aperti in Danimarca, Olanda, Belgio. 

Uno dei principali accusati, indagato sia in Germania che in Danimarca, Belgio e Lussemburgo, è il trader britannico, basato a Dubai, Sanjay Shah. Il “cowboy” lo chiamavano, per l’aggressività delle operazioni che metteva in piedi e i grandi rischi che era disposto a correre. Shah, tramite il fondo Solo Capital da lui creato, ha gestito enormi operazioni di “cum-ex” in Danimarca, rastrellando 800 milioni di euro a ogni passaggio. In pochissimo tempo è diventato miliardario e oggi vive sulla Palm Island di Dubai. I giornalisti di Panorama, programma investigativo della tv pubblica tedesca Adr e partner di questa inchiesta, l'hanno raggiunto nella sua casa degli Emirati Arabi e hanno potuto parlare con lui della sua situazione legale. 

Shah è ricercato in diverse giurisdizioni e non può lasciare gli Emirati per paura di essere messo in custodia cautelare ma, almeno dalle sue parole, non sembra troppo preoccupato: «Non credo di aver fatto nulla di sbagliato - dice -, sono convinto che in un anno o due sarò fuori da questa situazione, e ho intenzione di rimettermi in affari appena possibile». 

Dal suo punto di vista, ha solo tratto vantaggio da un loophole, una scappatoia legale, che non sta a lui chiudere. «Contribuenti tedeschi e danesi sono infuriati che i loro soldi siano finiti a me? Perché non pretendono che il loro governo cambi la legge allora? Per come la vedo io si, è un peccato, ma non prendetevela con me. Le mie operazioni erano perfettamente legali e legittime. Parlando della Danimarca [la giurisdizione che lo cerca più aggressivamente, ndr] perché mai altrimenti il fisco danese avrebbe pagato rimborsi [a Shah e agli altri trader coinvolti, ndr] per anni e anni? Solo dalla mia azienda hanno ricevuto oltre tremila richieste di rimborso, e mai se ne sono preoccupati». 

Secondo Shah non sarebbe stato difficile impedire le operazioni di tipo “cum-ex” con semplici cambi di leggi, e a dire il vero l'associazione delle banche tedesche già nel 2007 aveva segnalato il rischio dei doppi rimborsi fiscali al suo ministero delle Finanze, ma il Governo aveva scelto di ignorare l’avvertimento. 

Le prime condanne.

La procuratrice di Colonia, Anne Brorhilker, che guida il principale processo in Germania contro queste operazioni, ha un punto di vista molto diverso però: «Certo, possono [gli imputati, ndr] razionalizzare la cosa quanto vogliono, convincersi che era tutto legittimo se li fa sentire meglio quando si svegliano al mattino per andare al lavoro - dice in un’intervista a Panorama - ma il loro obiettivo era sempre quello di rastrellare più denaro possibile da queste operazioni fiscali». 

Brorhilker sottolinea che, considerando che diversi paesi hanno posto un freno a queste operazioni in tempi diversi, i trader hanno semplicemente continuato a farle dove era possibile e dove il rischio di essere scoperti era più basso. «La mentalità non è troppo diversa da quella di un taccheggiatore - spiega -. Perché fermarsi se non mi notano? E dove non ci sono telecamere, la è dove agire». 

Nel frattempo a partire dal 2020, sono cominciate ad arrivare le prime sentenze, tutte a favore dell’accusa. A marzo 2020 Martin Shields e Nicholas Diable, due ex banchieri inglesi accusati in Germania, sono stati condannati a una pena sospesa solo perché il tribunale ha riconosciuto la loro intensa collaborazione con la procura, e nello stesso procedimento la banca di Amburgo Mm Warburg ha subito un sequestro di 176 milioni di euro. 

Lo scorso giugno, un ex impiegato della stessa banca Warburg non è stato così fortunato. È stato infatti il primo banchiere a essere mandato in galera per operazioni di tipo “cum-ex”, ben cinque anni e mezzo di carcere. Ancor più importante per l’andamento di tutti i processi ancora in corso, sempre lo scorso giugno la Corte suprema federale tedesca, analizzando l’appello di Shields e Diable, ha dichiarato che le operazioni di tipo “cum-ex” sono “una sfacciata frode fiscale” e un palese furto dalle casse dello Stato. 

Qualcosa si muove, dunque, in Europa. E anche in Italia le autorità fiscali investigative potrebbero già aver acceso un faro sul turbolento mondo delle frodi “cum-ex”. 

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Le parole chiave.

Dividendo: quella parte di utile che viene distribuito (normalmente una volta all’anno, ma ci sono eccezioni) da una società ai suoi azionisti. 

Dividend Washing: operazioni di “lavaggio” che consentono di ridurre o eludere del tutto la tassazione sui dividendi azionari. Sono anche dette operazioni di “dividend arbitrage” o “dividend trading”. 

Cum-Ex: una categoria particolare di dividend washing. Prende il nome dal latino “con” (cum) e “senza” (ex), ad indicare il trading di azioni con e senza il dividendo connesso. Sono operazioni molto complesse che permettono di farsi rimborsare più volte la stessa tassa pagata una volta sola. 

Cum-Cum: è un termine più generico che racchiude diversi tipi di operazioni di dividend washing, caratterizzate da un meccanismo simile a quello di cum-ex, ma che porta solo a un elusione (totale o parziale) della tassa sui dividendi senza rimborsi multipli. 

Plusvalenza: è il profitto derivato dalla vendita di un bene il cui valore è cresciuto durante il periodo per il quale è stato posseduto. Può riferirsi a beni tangibili (una casa, un attività) o intangibili, come appunto azioni di società quotate in borsa. 

Minusvalenza: è la differenza fra un prezzo di acquisto più alto e uno di vendita più basso per un bene, differenza che normalmente rappresenta una perdita per chi vende. Al contrario di altri tipi di perdite, sono a volte deducibili. 

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