Ieri mattina, appena due giorni dopo l’entrata in vigore dell’ultimo Dpcm anti-Covid, già dal Pd e dal ministero della Salute si levavano gridolini isterici su nuovi vertici di governo per nuovi giri di vite assortiti. Una prova d’orchestra felliniana, degno pendant agli opposti isterismi delle destre No Mask e dei giureconsulti No Dpcm. E che s’è fatta ancor più cacofonica nel pomeriggio, quando i dati sui contagi giornalieri hanno superato la soglia psicologica di 10mila. Per fortuna, Palazzo Chigi non pare intenzionato a varare nuove misure a breve: prima si misurano gli effetti delle nuove misure e della loro osservanza da parte dei cittadini, riscontrabili non prima di 10 giorni; poi si vede. Annunciare, invocare, far trapelare ora nuove strette serve solo ad aumentare il caos e a seminare il panico, oltre a svalutare i divieti e le raccomandazioni del Dpcm di martedì. Forse sarebbe il caso di ripristinare ogni pomeriggio la conferenza stampa della Protezione civile e del Cts che ci accompagnò nel lockdown: molti le imputavano un eccesso di allarmismo, invece era (e sarebbe) un’ottima occasione per fare il punto sulla pandemia e leggere correttamente i dati. Che, visti così, dicono tutto e il suo contrario. Viene spontaneo il confronto con quelli di sette mesi fa, che però è fuorviante. Il 21 marzo, giorno del picco massimo, i nuovi positivi erano 6.557: ieri 10.010.
Stiamo dunque peggio oggi? Al contrario: tutti gli altri parametri dicono che stiamo molto meno peggio. Il 21 marzo i tamponi furono 26 mila, ieri erano 150 mila, il sestuplo: più tamponi si fanno più positivi si trovano (il rapporto tamponi/positivi era del 25% e oggi è del 6,6). Il che significa che i positivi sommersi, all’epoca, erano molti più di oggi, quando il virus pare un po’ meno diffuso di allora. Ma allora si testavano solo i sintomatici: ora anche gli asintomatici. Che oggi sono la stragrande maggioranza dei positivi: infetti e contagiosi, ma non malati. I dati certi su cui giudicare e modulare le misure di contrasto sono altri. Anzitutto i morti: 793 il 21 marzo, 55 ieri (in forte calo rispetto a giovedì). E poi il numero di ricoverati (cioè di sintomatici malati e bisognosi di cure): sette mesi fa 17.708, di cui 2.857 in terapia intensiva; ieri 6.178, di cui 638 in terapia intensiva. Reparti Covid e rianimazioni sono lontani dal rischio di saturazione, almeno in media (52% il 21 marzo, 9% oggi, anche se alcuni sono semipieni e altri semivuoti). Ma siccome i ricoveri aumentano del 7-8% al giorno e la crescita è esponenziale, se non s’inverte la rotta si può arrivare in un mese all’overbooking. E qui si apre il capitolo delle colpe. Cioè di chi ha fatto e non ha fatto cosa da maggio a oggi.
Il governo si era impegnato a riaprire le scuole e l’ha fatto, anche se poi i ritardi sui trasporti della ministra De Micheli, delle Regioni e dei Comuni han messo a rischio arrivi e partenze. Il governo aveva promesso di raddoppiare i posti letto di terapia intensiva e ha fornito i fondi necessari, oltre alle attrezzature tramite il commissario Arcuri. Ma molte Regioni hanno dormito: malgrado i 3.059 ventilatori polmonari per terapie intensive e i 1.429 per sub-intensive già inviati da Roma, hanno attivato appena 1.500 posti letto, mentre gli altri 1.600 disponibili restano sulla carta. Arcuri ha pronti altri 1.500 ventilatori, ma attende che qualcuno glieli chieda, possibilmente per usarli. Tra le maglie nere, oltre alla solita Lombardia (che non riesce neppure a comprare i vaccini antinfluenzali), svetta la Campania del sedicente sceriffo De Luca, tutto chiacchiere e distintivo: “Prima del Covid – ricorda il ministro Boccia – aveva 335 posti letto di terapia intensiva. Il governo con Arcuri ha inviato 231 ventilatori per le terapie intensive e 167 per le sub-intensive. Oggi risultano attivati 433 posti, devono essere 566”. Così molti ospedali campani sono già al collasso e Don Vicienzo, anziché rivolgere il lanciafiamme contro se stesso, lo dirige sugli studenti, chiudendo scuole e università senza neppure avvertire il sindaco di Napoli. Lui che un mese fa voleva riaprire gli stadi. E trova a difenderlo pure Zingaretti. Altri sgovernatori, con la stessa (il)logica, insistono sulla didattica a distanza (già prevista dalla legge in casi di necessità) per sfollare i trasporti pubblici e coprire la propria e altrui incapacità di potenziarli e organizzarli meglio: sono gli stessi che a luglio riaprivano le discoteche, ad agosto si opponevano alle proposte dell’Azzolina sugli ingressi scaglionati nelle scuole e a settembre volevano riempire gli stadi di tifosi. A tutti sfugge un dato elementare: chiudere le scuole durante il lockdown aveva senso perché gli studenti restavano in casa, evitando i contagi attivi e passivi; ma senza lockdown chi non sta a scuola va a spasso o si assembra in locali molto meno sicuri delle aule (lì la percentuale di contagi è 0,08%). E aumenta le possibilità di contagiare e di essere contagiato.
Quindi, per favore, nervi saldi e basta isterie fondate su letture sbagliate dei dati. Il governo attenda qualche giorno per vedere se il Dpcm funziona, tenendo pronte misure più severe, ma sempre graduate all’evolversi della pandemia. E le Regioni facciano finalmente ciò che devono, stringendo le maglie del Dpcm dove serve, anche con zone rosse o arancioni nelle città e province più infette. Se poi qualcuna continua a dormire, si spera che stavolta scatti il commissariamento.