lunedì 29 ottobre 2012

Vauro.



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Movimento 5 stelle Sicilia.



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L’Ue approva petizione su trasparenza dei media. Per evitare futuri Berlusconi. - Alessio Pisanò


L’Ue approva petizione su trasparenza dei media. Per evitare futuri Berlusconi


Le firme raccolte in base al "diritto d'iniziativa dei cittadini europei". Ora il parlamento di Strasburgo è obbligato a legiferare. Nel testo, tra gli esempi negativi di concentrazione e conflitti d'interesse politici ci sono il Cavaliere, Murdoch e il premier ungherese Orbàn.

Mentre il Parlamento italiano lavora al bavaglio da mettere all’informazione con effetti potenzialmente letali sul panorama editoriale del Paese, l’Europa chiede più trasparenza ai media. Una delle ultime petizioni popolari arrivate sul tavolo della Commissione Ue nell’ambito del nuovo strumento che consente a un milione di cittadini del Vecchio Continente di chiedere di legiferare su un argomento di rilevanza comunitaria, riguarda proprio il pluralismo dei media.
Il 5 ottobre è stata infatti ufficialmente approvata la raccolta firme che chiede “la parziale armonizzazione delle legislazioni nazionali relative alla proprietà e alla trasparenza, al conflitto di interesse con incarichi politici e all’indipendenza degli organismi di regolamentazione”. In parole povere una serie di standard europei che limitino la concentrazione mediatica nelle mani di pochi, specie se questi “pochi” hanno incarichi politici. In concreto viene chiesta l’adozione di una nuova direttiva, che protegga il pluralismo informativo in tutti i 27 Paesi Ue.
Tre i nomi che vengono fatti a titolo di esempio (negativo) dalla petizione: Viktor OrbánRupert Murdoch e Silvio Berlusconi. Il Premier ungherese tuttora in carica ha cercato in tutti i modi di mettere il giogo statale all’informazione del Paese; Murdoch è l’artefice della scalata ai media britannici tanto da arrivare ad influenza direttamente il governo di Londra (vedasi lo scandalo News International); e poi veniamo a Silvio Berlusconi.
Giovanni Melogli, responsabile affari europei dell’Alliance Internationale de Journalistes, una delle due organizzazioni all’origine della petizione (insieme ad European Altervatives), è categorico: “Il caso Berlusconi deve diventare un antidoto per le future generazioni affinché in nessun Stato dell’Unione ci possa più essere una simile concentrazione di potere mediatico e potere politico”.
Non è la prima volta che si chiede all’Europa di regolamentare e proteggere il pluralismo dei media. Nell’ottobre 2009 il Parlamento europeo si spaccò letteralmente in due in occasione di un voto su una risoluzione, presentata da liberalisinistre e verdi, che chiedeva un intervento Ue per tutelare il pluralismo in Europa. Alla fine la risoluzione non era stata approvata per soli tre voti a causa del blocco del Gruppo Popolare (maggioritario al Parlamento e nel quale rientrano i 35 deputati italiani Pdl) e anche per l’inaspettato voto contrario dei deputati liberali irlandesi, che in seguito confesseranno ad alcuni colleghi italiani di “aver subito pressioni da Dublino” (governo di destra).
Bisognerà vedere cosa succederà ora che la richiesta arriva in base al “Diritto di iniziativa dei cittadini europei”, la novità normativa introdotta dal trattato di Lisbona ed entrata in vigore lo scorso aprile, che permette alla società civile di chiedere alla Commissione europea di legiferare su una certa materia di interesse comunitario e non contraria ai principi fondanti dell’Unione stessa, raccogliendo (anche online) almeno un milione di firme in almeno 7 Stati Ue. Una volta ricevute e controllate le firme, i servizi della Commissione sono obbligati a lavorare sulla richiesta popolare qualora siano rispettati tutti i requisiti di base, iniziando in questo modo un ordinario processo legislativo.

Perché il voto in Sicilia è lo specchio di un Paese. - Gian Antonio Stella


«E allora, perché non andare in Argentina? Mollare tutto e andare in Argentina...». Potete scommettere che stanotte, in attesa dei risultati siciliani, il segretario del Pdl Angelino Alfano ha risentito nelle orecchie la sua canzone preferita, Argentina , di Francesco Guccini. Dovesse andargli male, addio: lo sbranerebbero. Gli andasse bene, potrebbe invece provare a svoltare. E a ricostruire il partito oltre il suo mito, Silvio Berlusconi.
Le «Regionali» isolane di ieri, tuttavia, sono destinate a pesare a livello nazionale non soltanto sul destino personale di Angelino. Potrebbero pesare sulle decisioni future di Antonio Di Pietro e Nichi Vendola, che hanno scelto di scartare l'accordo a sinistra e presentare un candidato loro (sulle prime Claudio Fava, poi sostituito in corsa con la sindacalista della Fiom Giovanna Marano dopo un pasticcio sul certificato di residenza) per smarcarsi dall'alleanza col Pd rinfacciando al partito di avere troppo a lungo fatto da spalla a Raffaele Lombardo e rimproverando a Rosario Crocetta di essere una specie di foglia di fico chiamato a coprire l'accordo con Udc. Vale a dire il partito che per anni ha avuto come socio di maggioranza Totò Cuffaro. 
Si sparano a pallettoni, a sinistra. Anche sul piano personale. Nella scia dell'altra faida che qualche mese fa aveva visto, alle «comunali» di Palermo, non solo la sfida fratricida tra Leoluca Orlando e Fabrizio Ferrandelli, ma il commento apocalittico dell'entourage di quest'ultimo dopo la vittoria dell'ex-fondatore de La Rete: «È stata sconfitta la democrazia».
E potrebbe pesare a Roma la quantità di voti che spera di raccogliere Gianfranco Micciché, a sua volta accusato di essere la foglia di fico, sia pure assai meno battagliera sul versante della lotta alla mafia, al clientelismo, alla politica delle nomine, di Raffaele Lombardo. Che dopo avere scelto di puntare su Nello Musumeci, un politico di mestiere de La Destra che però ha sempre saputo presentarsi con un piede dentro e un piede fuori dal Palazzo, l'hanno scaricato appena si è aggregato il Pdl proprio perché a loro preme mettere in mostra il proprio patrimonio elettorale in vista delle prossime politiche.
«Il 30% in Sicilia vale il 3% a livello nazionale: potrebbe bastare, con un altro paio di punti raccolti nel resto del Mezzogiorno, per essere l'ago della bilancia della futura maggioranza». Così come spera di mostrare di avere ancora qualche consistenza nelle urne Gianfranco Fini, che se dovesse uscire con le ossa rotte anche dal voto isolano e dall'alleanza con Lombardo, alleanza in contraddizione con tanti discorsi fatti in questi anni, vedrebbe il suo percorso ancora più in salita.
E Beppe Grillo? Con una spettacolare «tournée» che l'ha visto attraversare a nuoto lo Stretto, salire a piedi sull'Etna «sulle orme di Pitagora», annullare solo all'ultimo istante la mungitura d'una vacca (figurarsi i paragoni col Capoccione che andava petto in fuori a mietere il grano) e riempire all'inverosimile le piazze con 38 comizi di invettive contro tutto e tutti, il fondatore del Movimento 5 Stelle si gioca a Canicattì e a Mazara, Alcamo e Caltagirone qualcosa di più di un successo regionale. Vuole smentire l'antico adagio delle «piazze piene ed urne vuote» ma più ancora la tesi che il suo partito (per quanto lui rifiuti la parola) sia in grado di raccogliere consensi solo là dove c'è un tessuto sociale industriale deluso, un popolo massicciamente collegato a Internet, un mondo giovanile che ha trovato nel web lo spazio per condividere il disagio, la collera, la protesta. Dovesse andargli bene, e i sondaggi questo sembravano dire in questi giorni, la strada per le politiche di primavera potrebbe essere spianata. Al punto che c'è chi scommette che sotto sotto il comico-trascinatore genovese, che nel 2008 con la lista «Amici di Beppe Grillo» incassò un modesto 1,7%, spera di fare il bottino più grosso possibile ma restano un pelo sotto la vittoria: se governare è una grana, governare la Sicilia è una grana al cubo. 
Ma è Angelino Alfano, come dicevamo, che rischia davvero tutto. Alle «comunali» della primavera scorsa, salvata Trapani (grazie a un candidato estraneo, un generale dei carabinieri) è uscito bastonato dappertutto, perfino nelle roccaforti di Marsala e Paternò, Barcellona Pozzo di Gotto e Pozzallo, nonostante un'alleanza incestuosa col Pd e l'Udc. Per non dire della batosta a Palermo, dove il giovane Massimo Costa, il candidato «civico» soffiato ai concorrenti della destra, non arrivò neppure al ballottaggio in una città da anni al Cavaliere quasi quanto a Santa Rosalia. E ad Agrigento, la «sua» città, dove l'aspirante sindaco «civico» anche in questo caso arruolato all'ultimo istante, venne seppellito dall'uscente Marco Zamputo sotto una slavina di voti: 75% contro 25%.
Sia chiaro: addebitare tutte le responsabilità dello smottamento al segretario del Pdl sarebbe non solo ingeneroso ma scorretto. L'ormai ex «picciotto prodige» (il copyright è di Denise Pardo) sa però che una nuova disfatta non gli sarebbe perdonata. Tanto più in una terra come la Sicilia dove la destra alleata con il Mpa e l'Udc, anche senza più ripetere il trionfale cappotto (61 parlamentari a 0) del 2001, stravinse solo quattro anni fa col 65,3% dei voti contro il 30,4 raccolto da Anna Finocchiaro che pure aveva dalla sua non solo il Pd ma l'Idv e la Sinistra arcobaleno. Tanto più che proprio lui, Angelino, si era assunto la responsabilità (raccogliendo i malumori di una larga parte del partito, a partire dai giovani) di convincere Sua Emittenza a ritirare l'investitura troppo frettolosa, a suo avviso, su Micciché...
Quando chiedevano a Nello Musumeci se avrebbe desiderato che il Cavaliere sbarcasse in Sicilia per appoggiarlo o se piuttosto (come a suo tempo Giorgio Guazzaloca a Bologna) preferisse che il dominatore della destra degli ultimi venti anni se ne restasse lontano e silente, fino a tre giorni fa il candidato destrorso cercava di non stare alla larga dal rispondere. L'irruzione improvvisa, torrenziale e collerica dell'ex premier in tutti i Tg, tutti i quotidiani, tutti i giornali radio, ha dato uno scossone squassante, scusate il pasticcio, alla chiusura della campagna. Seminando tra gli stessi berlusconiani un dubbio: aiuterà o piuttosto farà danno al profilo di «forza tranquilla» e non aggressiva scelto da Musumeci? Poche ore e sapremo. Dovesse andare ancora male: chi farà il processo a chi?

Vauro.



http://vauro.globalist.it/Detail_News_Display?ID=15827&typeb=0

domenica 28 ottobre 2012

Una speranza...

exit poll elezioni regionali sicilia 2012 candidati alla presidenza

http://www.palermoreport.it/notizie/regionali-gli-exit-poll-di-palermo-report-grillo-sembra-in-testa

Quelle mail e la testimonianza di Tatò. Così i giudici hanno deciso la condanna. - Luigi Ferrarella


Nella sentenza si ricorda che è stato accertato fino alla Cassazione che le società offshore erano del Cavaliere.

MILANO - Una mail, almeno 4 lettere, minimo 4 testimoni: non è in base al teorema del «non poteva non sapere», ma, all'osso, in base a questi elementi che i giudici d'Avossa-Guadagnino-Lupo traggono in primo grado la «piena prova, orale e documentale, che Silvio Berlusconi abbia direttamente gestito» l'«ideazione» dal 1985, la «direzione», e poi anche da premier nel 1994 la «regia» di una «scientifica e sistematica evasione fiscale di portata eccezionale» attraverso «l'artificiosa lievitazione dei prezzi» dei diritti tv, prima nei frazionati passaggi infragruppo tra offshore solo apparentemente estranee a Fininvest/Mediaset, e poi tramite fittizi intermediari come il produttore americano Frank Agrama. Un'attività che l'ex premier ha «ramificato in infiniti paradisi fiscali con miriadi di società satelliti e conti», e «dalla quale ha conseguito un'immensa disponibilità economica all'estero, in danno non solo dello Stato, ma anche di Mediaset e, in termini di concorrenza sleale, delle altre società del settore».
La mail del contabile Fox
Il 12 dicembre 1994 un contabile della casa cinematografica «Twenty Century Fox», Douglas Schwalbe, scrive una mail al suo capo Mark Kaner per riferirgli quanto un addetto all'ufficio acquisti di Reteitalia e Mediaset, Alessandro Pugnetti, «mi ha spiegato con la speranza che tutto rimanesse tra me e lui». E cioè che l'approvvigionamento dei diritti tv è costruito in quel modo «perché non si vuole che Reteitalia faccia utili o faccia figurare utili», nel senso che «i profitti vengono tenuti in Svizzera, i profitti non sono proprio parte delle reti televisive italiane», che anzi «sono state ideate per perdere soldi», cioè appunto per evidenziare maggiori costi e dunque pagare meno tasse. «In due parole - esemplifica il contabile - l'impero di Berlusconi funziona come un elaborato shell game con la finalità di evadere le tasse italiane», dove shell game è «un gioco che consiste nel prendere tre gusci di noci vuoti e nascondere sotto uno di essi il nocciolo di una ciliegia, chi gioca deve indovinare dove il nocciolo è stato nascosto».
Le conferme dentro Fininvest
Schwalbe e Kaner al processo confermano il contesto della mail, e Pugnetti, premettendo che le majors premevano per avere spiegazioni su ritardi nei pagamenti, aggiunge: «Io affrontai questo problema con Carlo Bernasconi», scomparso responsabile Fininvest degli acquisti di diritti tv, «gli spiegai che avrei dovuto parlare con la Fox, gli esposi quello che avevo capito di questi meccanismi e lui mi confermò. Mi disse: "Sì, è così, vai e spiegaglielo", con riservatezza, perché comunque sono meccanismi aziendali».
Ulteriore conferma il Tribunale trova nell'addetta alla gestione contratti di Reteitalia e Mediaset, Silvia Cavanna. «Andavo da Bernasconi, il quale mi dava la dritta: "Allora questo mese, questo trimestre, dobbiamo arrivare in termini di costo a 5 milioni di dollari, a 20 milioni, eccetera". Però il costo dei diritti era di meno, sensibilmente di meno». E perciò in questa fase a Cavanna arrivava l'indicazione di gonfiare i costi d'acquisto, con l'espressione «picchia giù con i prezzi» rivoltale «da Bernasconi - sottolinea il Tribunale - solitamente dopo incontri ad Arcore con Berlusconi».
Tatò e il tabù impenetrabile
Del resto Franco Tatò, amministratore delegato Fininvest 1993-1994 chiamato per tagliare i costi, ha deposto che invece quella dei diritti tv «era un'area di attività assolutamente chiusa e impenetrabile» (aggettivo poi ridimensionato), ma soprattutto «gestita a più alto livello da Bernasconi che dava conto della sua attività direttamente a Berlusconi e non riferiva al consiglio di amministrazione». Aggiungono i giudici che «lo stesso ha dichiarato il responsabile amministrativo Gianfranco Tronconi», mentre «nessuno ha riferito che tra Bernasconi e Berlusconi vi fosse un altro soggetto con poteri decisionali nei diritti tv, neppure dopo la quotazione in Borsa e la discesa in campo di Berlusconi».
I camion di carte sparite
Che fossero di Berlusconi le società offshore in apparenza fuori dal perimetro ufficiale del suo gruppo è ormai «accertato in maniera definitiva dalla Cassazione nella sentenza Mills del 2010». Se mai, non tutto è ricostruibile perché «a seguito delle prime perquisizioni», ricorda Cavanna, «15 anni di carte» da Lugano «furono fatte sparire in Lussemburgo, credo con camion».
Lettera-confessione di Agrama
Per il Tribunale è «anomalo» indice della frode il «ricarico del 200%» nelle società del produttore Frank Agrama da cui il Biscione nel 1994-1998 acquista diritti per 199,5 milioni, sui quali la maggiorazione di costi fittizi è 135 milioni. Agrama era un intermediario non fittizio, ma vero e autonomo rispetto a Mediaset, ribatte oggi la difesa di Berlusconi. Ma è proprio Agrama, non oggi ma in quella che il Tribunale definisce la «lettera-confessione» del 29 ottobre 2003 all'allora presidente Fininvest Aldo Bonomo, a scrivere il contrario, e cioè di aver lavorato per le società del Biscione «come loro rappresentante».
Berlusconi's companies
Di «cliente Berlusconi» scrivono anche dentro Paramount il 3 marzo 1992. E il 21 dicembre 1993 è un capo di Paramount, Bruce Gordon, ad accreditare in una lettera al collega Lucas «la totale sovrapponibilità tra Agrama e Berlusconi, posto che - osservano i giudici - non vi è distinzione né tra le società né tra le persone, né tra le cifre». E in un'altra lettera del 7 ottobre 1997 due contabili di Paramount, Taylor e Schlaffer, parlano di crediti verso le società di Agrama chiamandole «Berlusconi's companies», cioè le società di Berlusconi, di cui Agrama per il Tribunale è dunque «mero mandatario».
Confalonieri sapeva ma non faceva
Neppure per Confalonieri viene usato il «non poteva non sapere». Anzi, per i giudici è «fortemente plausibile» che il presidente Mediaset «sapesse» della frode e, «violando i suoi doveri, nulla abbia fatto» per arginarla. Ma nessun teste e nessun documento del processo lo mostrano operativo sui diritti tv, sicché la carica e la (pur plausibile) ipotesi non possono da sole fondare una condanna.