mercoledì 5 dicembre 2012

Stato-Mafia, Gup respinge eccezioni, processo resta a Palermo.



ROMA (Reuters) - Il procedimento per la presunta trattativa tra Stato e mafia resta a Palermo, come aveva chiesto la procura siciliana.
Lo ha deciso oggi il Gup Piergiorgio Morosini che ha rigettato tutte le eccezioni di incompetenza presentate dalle difese.
Anche gli ex ministri democristiani Calogero Mannino e Nicola Mancino - indagati a vario titolo insieme ad altre dieci persone - saranno giudicati dal giudice ordinario palermitano e non a Roma né dal tribunale dei ministri, come chiesto dai loro legali.
Il gup, infatti, ha stabilito oggi che i due politici non sono accusati di aver commesso il reato con riferimento alle loro funzioni ministeriali, funzioni che peraltro non ricoprivano all'epoca dei fatti contestati.
Gli indagati a vario titolo nell'inchiesta, oltre a Mannino e Mancino, sono: i boss mafiosi Totò Riina, Giovanni Brusca, Nino Cinà, Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano. Poi, Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco di Palermo, Vito; il generale dei carabinieri, Mario Mori, l'ex capitano dell'Arma, Giuseppe De Donno e l'ex capo del Ros, Antonio Subranni; il senatore Pdl Marcello Dell'Utri.
I reati ipotizzato a vario titolo sono violenza o minaccia a corpo politico dello Stato e concorso in associazione mafiosa. A Mancino viene contestata la falsa testimonianza, mentre a Ciancimino jr la calunnia (oltre al concorso in associazione mafiosa).
L'inchiesta è stata curata dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene.
Su alcune intercettazioni raccolte dagli investigatori in questa inchiesta pende il giudizio della Corte costituzionale - che potrebbe arrivare tra la serata di oggi e la giornata di domani - dopo che il presidente della Repubblica ha sollevato un conflitto di attribuzione con la procura di Palermo.
Il Quirinale contesta, perché lesiva dei suoi poteri, la decisione dei pm di acquisire nell'inchiesta le intercettazioni di telefonate tra Mancino e la presidenza della Repubblica su possibili interventi di quest'ultima presso il Csm circa l'operato della magistratura palermitana. 

Il mio nemico.



l mio nemico (Enemy Mine) è un film del 1985 diretto da Wolfgang Petersen. Il film è liberamente tratto dal pluripremiato romanzo breve Mio caro nemico (Enemy Mine1979) di Barry Longyear.


Trama XXI secolo: gli esseri umani s'inoltrano nell'esplorazione e scoperta di nuovi pianeti e di conseguenza territori da sfruttare e colonizzare Si scontrano con i Drac, una specie aliena rettiloidesenziente che rivendica l'influenza di alcuni territori contesi.Durante un'incursione di quattro vascelli alieni viene inviata una squadriglia di sei caccia terrestri con il compito di intercettarli. L'ostinazione del pilota umano Willis E. Davidge nell'inseguire ed ingaggiare uno dei vascelli nemici, reo di aver distrutto il caccia di un proprio compagno, porta la propria astronave nell'atmosfera del pianeta Fyrine IV. Benché Joy, il suo navigatore, gli avesse più volte chiesto di cessare l'inseguimento, Willis riesce a colpire gravemente il vascello nemico che comincia a precipitare rendendo la guida sempre più problematica. Il pilota Drac prima dell'impatto sulla superficie del pianeta sottostante si separa dal suo vascello grazie ad un modulo di salvataggio mentre il pilota terrestre non riesce ad evitare l'impatto con il vascello nemico abbandonato, con la conseguenza di ferire mortalmente il suo navigatore e precipitare egli stesso sulla superficie del pianeta.
Spinto dalla vendetta Willis si mette alla ricerca del nemico, deciso ad ucciderlo una volta trovato, ma nel tentativo non riuscito di mettere atto i propri propositi viene invece catturato dal nemico, Jeriba "Jerry" Shigan, dando inizio ad un reciproco studio al fine della sopravvivenza comune. La necessità di socializzare farà lentamente scoprire l'altrui lingua e trasformerà il loro rapporto prima in solidarietà e poi in amicizia.
L'alieno si riproduce per partenogenesi: le conseguenze del parto lo porteranno alla morte, ma durante l'agonia riesce a costringere l'umano ad imparare la lunghissima serie di nomi di tutti gli avi che lo hanno preceduto e si fa promettere che tale lista verrà insegnata al suo figlio. Davidge si trova così a dover allevare l'alieno neonato.
Dopo vari anni, e molte peripezie, il bambino alieno divenuto adulto, inserira' Davidge nella "lista degli antenati" sottolineando così il contributo fondamentale che l'umano ha avuto per la sua sopravvivenza.

Trattativa, la Consulta accoglie ricorso del Quirinale. “Distruggere le intercettazioni”


Trattativa, la Consulta accoglie ricorso del Quirinale. “Distruggere le intercettazioni”

La Consulta dà torto alla Procura di Palermo sulle telefonate del senatore Nicola Mancino al Colle, registrate nell'inchiesta sui patti fra Stato e Cosa nostra all'epoca delle stragi del 1992-1993. Accolta la tesi dell'inviolabilità assoluta del Colle. La tesi del legale dei pm: "E se progettasse un golpe?". Di Matteo: "Abbiamo sempre rispettato la legge".

La Corte costituzionale ha accolto il ricorso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sul conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo, sollevato riguardo alle intercettazioni telefoniche a carico del senatore Nicola Mancino, che si era rivolto al Colle per discutere dell’inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia all’epoca delle stragi del 1992-1993.  La corte ha quindi accolto il principio dell’inviolabilità della riservatezza del capo dello Stato, anche nel caso in cui le intercettazioni riguardino un soggetto terzo che entra in contatto con il Quirinale. Le intercettazioni dovranno quindi essere distrutte.
“Non spettava” alla Procura di Palermo, secondo la Consulta, “valutare la rilevanza della documentazione relativa alle intercettazioni delle conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica” captate nell’ambito dell’inchiesta. I pm di Palermo, di conseguenza, non potevano “omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione” di tali intercettazioni, “ai sensi dell’articolo 271, terzo comma, cpp e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del loro contenuto, esclusa comunque la sottoposizione della stessa al contraddittorio delle parti”.
Per conoscere nel dettaglio la decisione assunta dalla Consulta dopo oltre 4 ore di Camera di Consiglio bisognerà attendere il deposito della sentenza, e quindi le motivazioni, che avverrà nelle prossime settimane, presumibilmente a gennaio. I giudizi costituzionali hanno accolto le tesi del Quirinale: ”La Procura di Palermo ha trattato queste come normali intercettazioni, non ha tenuto presente il fatto che siano intercettazioni illegittime“, ha spiegato l’avvocato generale dello Stato Giuseppe Di Pace.  Così facendo si è “prodotto un vulnus nella riservatezza del Presidente”, ha aggiunto la collega Gabriella Palmieri, perché la Procura di Palermo, ipotizzando un’udienza stralcio di fronte al Gip per chiedere la distruzione delle intercettazioni, ha esposto quelle conversazioni del Capo dello Stato alla valutazione dei pm. E ancor più al rischio che una volta messe a disposizioni delle parti per eventuali usi processuali, potessero diventare pubbliche.
Bocciate invece la tesi della Procura di Palermo, riassunte dall’avvocato Alessandro Pace, che ha cercato di dimostrare come il ricorso del Quirinale potesse avere effetti paradossali. Innanzitutto, ha argomentato Pace, “un fatto fortuito“, come imbattersi nel presidente della Repubblica intercettando una terza persona, “non può essere oggetto di divieto. E’ mai possibile vietare di scivolare accidentalmente su una strada ghiacciata?”. Nella parte finale del suo intervento, Pace si è chiesto che cosa dovrebbero fare i pm se intercettassero una conversazione del presidente della Repubblica che complotta per un colpo di Stato. Distruggere i file? E se questo “surplus di garanzie” valesse anche per ministri e premier, i magistrati non potrebbero più intercettare nessun sospettato che avesse contatti con loro? Una via “lineare” di soluzione, ha suggerito il legale dei pm di Palermo, “potrebbe essere la richiesta dell’apposizione del segreto di stato da parte del Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio” sul contenuto delle telefonate intercettate.
Ma la Consulta ha indicato una strada del tutto diversa: quella prevista dall’art. 271 del codice di procedura penale sulle intercettazioni vietate. Quell’articolo afferma che il giudice può in ogni grado del processo disporre la distruzione delle registrazioni che coinvolgano soggetti non intercettabili in funzione del loro ruolo: il difensore, il confessore, il medico. A maggior ragione deve valere per il Presidente, ha sostenuto l’Avvocatura e ha confermato la Consulta. Perché quella strada prevede che “il giudice decida senza contraddittorio”, hanno spiegato gli avvocati dello Stato, e senza rischio che i contenuti delle conversazioni siano divulgati. 
Un duro colpo per i magistrati di Palermo impegnati nella delicata inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia, che vede imputati 12 persone tra politici, mafiosi e uomini delle forze dell’ordine. “Non credo che si debbano fare commenti allo stato”, afferma  il procuratore di Palermo Francesco Messineo, ”aspettiamo di leggere il provvedimento”. Interviene anche il pm Nino Di Matteo, uno dei titolari dell’inchiesta sulla trattativa coordinata dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia: “Vado avanti nel mio lavoro tranquillo, nella coscienza di avere agito correttamente e ritenendo di avere sempre rispettato la legge e la Costituzione”. Ingroia, attualmente in Guatemala per un incarico internazionale, si era detto sorpreso dell’iniziativa del capo dello Stato.
Nessuna reazione ufficiale al momento dal presidente Napolitano, ma le indiscrezioni fatte filtrare parlano di una naturale “soddisfazione” dopo un’attesa “serena”.  Quella di ricorrere alla suprema corte è stata sin dall’inizio “una decisione obbligata”, ha spiegato più volte Napolitano, perchè “né io né d’Ambrosio (il consigliere giuridico a cui si è rivolto Mancino, ndr) abbiamo mai interferito” con le indagini della procura di Palermo.
Secondo l’accusa, Mancino – che si insediò al Viminale a inizio luglio 1992 – avrebbe mentito sui rapporti tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra intercorsi nei primi anni ’90, durante la stagione delle stragi. Oggi Mancino è accusato di falsa testimonianza. Nel periodo che ha preceduto l’avvio del procedimento a Palermo che lo vede con altri imputato, ci sono stati contatti tra lui e il Colle, in particolare telefonate con Loris D’Ambrosio, il consulente giuridico del Quirinale morto il 26 giugno, e in alcune occasioni, con lo stesso Napolitano.
Queste ultime conversazioni sono state in tutto quattro, come si è saputo dagli atti depositati per conto della Procura di Palermo su richiesta della Corte Costituzionale durante l’iter del conflitto tra poteri: in due casi a chiamare è stato Mancino, per altro alla vigilia di Natale 2011 e, pochi giorni dopo, il 31 dicembre; in altre due occasioni, a telefonare è stato il Presidente. Il contenuto delle conversazioni non è noto, ma la notizia dei colloqui tra i due è finita sui giornali e ha suscitato il caso che ha portato alla decisione del Quirinale di chiamare in causa la Consulta.

martedì 4 dicembre 2012

Capitalismo selvaggio.



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Idea brillante!



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3 dicembre 2012: l'allineamento planetario della Cintura di Orione con le piramidi di Giza. - Federica Vitale

PlanetsoverGiza

Profezia Maya? No, questa volta il celebre popolo non c'entra. Perché a preannunziare il prossimo fenomeno astronomico del 3 dicembre 2012 furono gli Egizi. A raccontarcelo è Charles Marcello, un appassionato di astronomia che, seppur dimostrandosi scettico riguardo profezie maya e fine del mondo del 21 dicembre, ripone molta fiducia sui calcoli dell'antica civiltà egizia.

Secondo i suoi dati, dopo 2.737 anni dall'ultima volta in cui si verificò, il 3 dicembre potremo assistere all'allineamento planetario di Mercurio, Venere e Saturno con le tre piramidi situate nella piana di Giza. Lo studioso ha così scoperto che i tre pianeti del nostro sistema solare assumeranno la stessa posizione di Cheope, Chefren e Micerino. L'allineamento planetario sarà visibile un'ora prima che il Sole sorga all'orizzonte. Cosa si nasconde, dunque, dietro questo evento? Solo una coincidenza o c'è un significato ancora da decodificare?
Si chiama Teoria della Correlazione di Orione quella secondo la quale esisterebbe una similitudine non casuale tra l'allineamento delle tre piramidi e le tre stelle centrali della Costellazione di Orione, note anche come “cintura di Orione”: Alnitak, Alnilam e Mintaka, il cui allineamento è riproposto dalla struttura di Giza. L'ipotesi vuole che tale correlazione sia stata creata volutamente da chi progettò e costruì le piramidi. Se così fosse, sarebbe un'ulteriore conferma delle capacità e delle conoscenze scientifiche di questi popoli.
L'idea di base della teoria si sviluppò nel corso degli anni e si dipanò tra gli studi di vari egittologi ed astronomi. Ma ogni risultato portava al collegamento tra la posizione delle stelle che formano la cintura di Orione, così come apparivano al tempo degli egizi e le piramidi.
Una delle conseguenze di questa ipotesi suggestiva è quella di dover retrodatare la costruzione delle piramidi di circa 8 mila anni rispetto alla data che le vorrebbe nascere nel 2.570 a. C. Ciò significa che la piana di Giza indicherebbe un periodo astronomico relativo a 12 mila anni fa. Egittologia ed archeologia comunemente affermano che le piramidi furono costruite durante la IV dinastia durante il III millennio a. C. Tuttavia, a essere messa in dubbio non è la prova di datazione delle piramidi, ma si sostiene che queste furono progettate grazie alla conoscenza di come le stelle apparivano circa otto millenni fa. E ciò richiede, almeno apparentemente, una conoscenza superiore a quella disponibile agli Egizi.
E il 3 dicembre? Il fenomeno dell'allineamento sulle tre piramidi è davvero molto raro. E il fatto che si verifichi a pochi giorni dal 21 dicembre dei Maya lascia un po' perplessi. La prossimità con la fine del calendario maya, infatti, porta a chiederci se tale evento non possa avere alcunché di profetico o di analogo alla profezia maya.
  

Rodotà: “Libertà e diritti non sono negoziabili”. - colloquio con Stefano Rodotà di Rossella Guadagnini



I casi Ilva e Fiat, i partiti e la politica, Berlinguer e Croce, libertà e democrazia. Di tutto questo e altro ancora parla Stefano Rodotà, di cui è appena uscito il nuovo saggio “Il diritto di avere diritti” (Laterza). Richiamandosi alla "straordinaria forza e attualità della Costituzione italiana", il giurista rifiuta l’emergenza permanente, perché i diritti – ci ricorda – a partire da quello alla salute, non possono essere sacrificati impunemente alla logica di mercato.

In un Paese in cui “le disuguaglianze sono divenute ormai insopportabili” e dunque vige la legge del più forte o, a seconda, del più preminente, del più affluente, del più ammanicato, che significa garantire a tutti gli stessi diritti? Lo abbiamo chiesto a Stefano Rodotà, costituzionalista, professore emerito di Diritto civile all’università La Sapienza di Roma, tra gli autori della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali e del Gruppo europeo per la tutela della privacy, deputato indipendente nelle liste del Pci e Pds, vicepresidente della Camera, oggi autore di un saggio per Laterza, da poco in libreria, significativamente intitolato con un’espressione di Piero Calamandrei “Il diritto di avere diritti” (pagg. 433, euro 20). Richiamandosi alla Costituzione italiana, Rodotà ci risponde che “la libertà non è negoziabile, così come avviene per i diritti”. Sono, i nostri, anni di “grande riduzionismo” in cui si sente il bisogno diffuso di avere dei “grandi principi di riferimento”.

Professor Rodotà ritiene che oggi, passato il ventennio berlusconiano, ci sia un’opportunità in più per aprire una nuova stagione all’insegna dei diritti e dei beni comuni? 
Dovrebbe esserci, ma non ne sono particolarmente sicuro. In questi anni in materia di diritti abbiamo vissuto una regressione politica e culturale molto forte, una distanza grandissima tra ceto politico e società. Se paragono gli Anni Settanta a oggi, il bilancio è magro. Allora ci fu una grande affermazione dei diritti civili: del 1970 e degli anni seguenti sono lo statuto dei lavoratori, la legge sul referendum, l’istituzione delle regioni, le nuove norme sulla tutela della libertà personale. Poi c’è stata la riforma del diritto di famiglia, la parità uomo-donna, l’interruzione di gravidanza, la legge Basaglia sui manicomi, la legge Gozzini sulle carceri. 

E oggi? 
Oggi siamo veramente in un altro clima, in un’altra dimensione. Allora la legislazione italiana su alcuni punti era la più avanzata d’Europa. Ora siamo non solo fanalino di coda, ma lontani culturalmente. La fine delle ideologie ha portato solo alla prevalenza assoluta del mercato. Di fronte a questo mondo ‘a una sola dimensione’ il contrappeso, il contropotere, è unicamente quello che viene dalla forza dei diritti. La più grande fabbrica del mondo si trova in questo momento in Cina, la Foxconn, che produce componenti della Apple: lì hanno scioperato per avere un miglioramento delle condizioni di lavoro, cosa impensabile fino a poco tempo fa in quel Paese. Segni di questo genere ce ne sono ovunque nel mondo: quindi abbiamo, da una parte, la prevalenza della logica di mercato, dall’altra parte, quella dei diritti. I diritti tuttavia non possono essere sacrificati senza avere ricadute sul terreno economico. 

Ad esempio?Il caso dell’Ilva di Taranto è la dimostrazione, in casa nostra, di quanto dico: per anni sono stati trascurati i diritti di lavoratori e cittadini, come il diritto alla salute. Adesso tutto ciò sta portando a una crisi economica drammatica dell’azienda. Non si possono scindere diritti e governo dell’economia. Spero in una ripresa della politica dei diritti, ma non sono così ottimista. Anche perché la politica, per guadagnarsi un sostegno, si è fatta fortemente condizionare da un’idea di diritti e non diritti che proveniva dalla pressione delle gerarchie ecclesiastiche. Un’influenza esercitata non da tutto il mondo cattolico, beninteso, di cui una parte cospicua si è invece resa conto dell’importanza dei diritti, ma direi soprattutto dalle gerarchie vaticane, specie in materia di fine vita, procreazione assistita e rispetto dei diritti degli omosessuali. Mi auguro che questa fase sia ormai superata.

Lei parla, nel suo libro, di un possibile avvento di una democrazia su base “censitaria” in termini di rischio: che significa? Vuol dire che alcuni diritti non ci sono riconosciuti nella loro pienezza perché appartenenti a ognuno, ma sono accessibili soltanto a chi ha le risorse per poterli far diventare effettivi. Se, come ha lasciato intendere il premier Mario Monti pur correggendo in seguito l’affermazione, si dovesse andare in futuro verso forme di privatizzazione del servizio sanitario nazionale, è chiaro che il costo dei servizi crescerebbe per i cittadini, con la conseguenza che io avrò tanta salute quanto potrò comprarmene sul mercato. Questa direzione sarebbe all’opposto di quanto afferma l’articolo 32 della Costituzione, laddove si dice che la salute è un diritto fondamentale del cittadino. Si romperebbe lo schema indicato dal principio di uguaglianza. I miei diritti saranno misurati non dal riconoscimento della mia dignità, del mio essere persona uguale a tutte le altre, ma in base alle mie risorse. Cittadinanza censitaria è un’espressione che si usava nell’Ottocento, quando votavano solo gli uomini e, tra loro, soltanto quelli che avevano un reddito superiore a una certa cifra. 

Come si stabiliscono i diritti?Se torniamo a misurare i diritti non sulla libertà e sull’uguaglianza, ma col censo e in base al denaro, noi torniamo alla democrazia censitaria appunto. E, così facendo, andremmo anche contro una tendenza globale. La campagna elettorale americana è stata fortemente giocata proprio intorno al tema della riforma sanitaria di Obama, che ha cercato di dare una tutela al diritto alla salute per milioni di persone, che ne erano rimaste – fino a quel momento – escluse. Il tema dei diritti è capitale ovunque esiste la necessità di far uscire le persone da una condizione di minorità. 

Tempo di crisi. L’agenda Monti per affrontare l’emergenza è – a detta di molti – un’agenda di cose da fare, da affidare così com’è al prossimo governo. Se la cosiddetta ‘agenda Monti’ è null’altro che prosecuzione di quello che è stato fatto per superare l’emergenza, allora non credo che ci avviamo verso una stagione politica particolarmente promettente. Non possiamo vivere all’insegna dell’emergenza continua e dell’esistenza dei soli problemi economici. I diritti, come nel caso menzionato dell’Ilva, non possono essere sacrificati impunemente senza creare tensioni sociali molto pericolose. In questa situazione si dice continuamente che una delle vie d’uscita è “avere più Europa”, e sono assolutamente d’accordo. Tuttavia l’Europa non è soltanto l’economia. Dal 2009, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l’Europa non è più fatta soltanto di norme che riguardano il mercato, ma ha – allo stesso titolo e col medesimo rango – una Carta dei diritti fondamentali. 

Perché questa Carta è importante?
Nell’ultimo periodo, c’è stato un distacco e in alcuni casi un vero e proprio rifiuto dell’Europa. Per molti Paesi, infatti – l’Italia è tra questi – Bruxelles è diventata la ‘fonte dei sacrifici’. Ciò che arriva dall’Europa è percepito come obbedienza a una logica economica che restringe opportunità e diritti dei cittadini. In tal modo, il popolo europeo si allontana sempre più dalle sue istituzioni e si rischia non solo una crisi dal punto di vista economico, ma anche da quello della legittimità democratica. Un’Unione Europea può avere il consenso dei cittadini se i cittadini vedono che in essa c’è un valore aggiunto proveniente dai diritti. Lo testimoniano molte sentenze di corti europee e di corti costituzionali nazionali che hanno preso sul serio la Carta. Se i cittadini cominciassero a vedere che l’Europa porta loro nuove opportunità di tutela dei diritti, la spirale negativa cominciata in questi ultimi anni forse potrebbe essere interrotta. 

Come mai si sente oggi la necessità di rimettere la Costituzione al centro dell’attenzione? La Costituzione ha, specie nella sua prima parte, una straordinaria forza, eloquenza e attualità, tanto più oggi di fronte al fatto che le nostre società sono diventate sempre più disuguali. Ai tempi di Vittorio Valletta, amministratore delegato della Fiat, la differenza tra il suo stipendio e quello di un operaio era di uno a quindici. Oggi il rapporto tra lo stipendio dell’operaio Fiat e quello di Sergio Marchionne è di uno a quattrocentotrentacinque. Quindi le disuguaglianze sono diventate enormi e insopportabili economicamente e socialmente. Ed ecco che ritorna il principio di dignità e uguaglianza. Il problema di sicurezza e dignità della persona sul lavoro dimostra che la Costituzione – come diceva Calamandrei – è ‘presbite’, ossia capace di guardare lontano. Si dice, ad esempio, che i partiti dovrebbero tornare a essere uno strumento nelle mani dei cittadini e non delle oligarchie: allora leggiamo l’articolo 49 dove si sostiene che tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente per partecipare con metodo democratico alla definizione della vita politica nazionale. Lì era scritta un’idea di partito che, in questi anni, è stata completamente stravolta. 

Allora occorre tornare a leggere la Costituzione?Sì. Vi troveremo tutta una serie di indicazioni che ci aiutano ad affrontare con principi forti le difficoltà odierne. Parlando di lavoro, forse l’articolo più bello, che non dovremmo mai perdere di vista, è proprio l’articolo 36, laddove si dice che la retribuzione deve assicurare al lavoratore “un’esistenza libera e dignitosa”: sono parole bellissime. L’esistenza deve essere libera e dignitosa, non può essere sempre e soltanto subordinata alla logica economica, come quando si afferma “io ti do soltanto il minimo che ti fa sopravvivere biologicamente”: questo umilia le persone. Per tale ragione oggi il tema del lavoro è diventato capitale. 

Però il dettato costituzionale, anche in tema di lavoro, viene spesso disatteso. Una diagnosi di perché questo accada non è facile. Certo è che organizzare l’economia intorno al riconoscimento dei diritti del lavoro, della considerazione che il lavoro non è una merce che debbo poter comprare sul mercato al prezzo più basso possibile, implica scelte di carattere generale molto impegnative. Nei momenti in cui c’è una reale difficoltà economica, come ora, si è sempre pensato che occorresse ridurre il costo del lavoro. Poi ci siamo accorti che c’era scarsa capacità imprenditoriale, che c’erano diseconomie molto forti, una corruzione che significava costi più elevati in quanto costituiva un aggravio per il sistema delle imprese. Allora abbiamo visto il lavoro come l’unica variabile che poteva essere ‘colpita’… Non l’evasione fiscale, non la corruzione. L’elevato costo del lavoro è anche il risultato di reperire risorse attraverso la tassazione di ciò che è più facile colpire, ossia il lavoro dipendente, invece di fare un’azione adeguata contro l’evasione fiscale e il lavoro nero. Entrambi i fenomeni sono stati – ormai lo sappiamo e ce lo ricordano di continuo le cifre della Corte dei Conti – una riserva oscura non per il benessere del Paese, ma per il profitto di pochi. Il lavoro ha finito per venire sacrificato in un quadro nel quale sono stati ritenuti prevalenti altri tipi di interesse. 

Quanto conta oggi la società civile, che ascolto ha? Difficile dirlo. In alcuni momenti abbiamo l’impressione che conti molto. Adesso si dice “c’è un risveglio”, 3 milioni e mezzo di persone sono andate a votare per le primarie del centrosinistra, ci sono manifestazioni – che personalmente non mi piacciono affatto – e che hanno fatto capo a Beppe Grillo, c’è gente che si mobilita fuori dai canali tradizionali. C’è, insomma, una società capace di esprimersi. Questo in parte è vero. Ma prima non è che ci fosse una società civile opaca… Abbiamo vissuto una lunga fase in cui la società civile riusciva a esprimersi attraverso la mediazione non al ribasso fatta dai partiti. Non a caso si parlava di ‘partiti di massa’. Mentre oggi noi parliamo di ‘partiti oligarchici, di plastica, partiti-azienda e partiti leggeri’. Il che vuol dire che questi partiti sono più oligarchia, più organizzazione su modello manageriale (ricordo il caso del ‘marketing politico’). Tutto questo ha determinato l’esclusione dei cittadini, che poi magari imboccano strade non tra le più felici. Questo crea, da un lato, una distorsione e, dall’altro, reazioni della società civile che possono avere ‘effetti distorsivi’. 

Che rapporto c’è tra società civile e politica? Un rapporto basato su un equivoco di fondo, secondo cui tutto quello che c’è nella società civile è bello e buono, e tutto quello che c’è nella società chiamiamola ‘politica’ è male. Questo ha determinato effetti negativi, perché in questi anni abbiamo avuto una caduta della cultura politica in senso proprio, cioè della capacità di fare politica al più alto livello. Sono arrivate in Parlamento troppe persone che non erano in grado di fare questo mestiere, un mestiere difficile che si deve imparare in maniera adeguata. Di fronte a questa incapacità sono venuti fuori i tecnici. Allora la società civile, che è stata esaltata – giustamente – come soggetto che deve avere voce in capitolo, ha finito per essere santificata anche nelle sue manifestazioni meno positive. Ogni cosa che proveniva dalla società civile era buona, salvo accorgersi poi che non era così, con i risultati che abbiamo sotto gli occhi. 

A sinistra del Pd c’è spazio, a suo avviso, per una nuova formazione politica?In proposito ho un’opinione molto netta. Quando è stato avviato il movimento di Alba (acronimo per Alleanza per il Lavoro Beni comuni e Ambiente, ndr.), ho detto che c’era molto spazio per l’azione politica e molti rischi legati alla fretta di far diventare l’associazione una lista elettorale. Ritengo che ci sia stata, e spero che non sia del tutto perduta, una spinta – soprattutto dalla seconda metà 2010 alla prima metà del 2011– che ha portato a risultati importanti nella primavera 2011, con tutta una nuova generazione di sindaci, non espressione unica e diretta dei partiti, ma del grande dibattito della società civile. Stessa valutazione riguardo ai referendum del giugno del 2011, in particolare quello sull’acqua originato da un grande movimento sviluppatosi negli anni precedenti. Credo che esista, indipendente da dove la collochiamo rispetto al Pd, a sinistra a destra in alto o in basso, una grande capacità di elaborazione politica e culturale nella società italiana, perché quei movimenti sono riusciti a cambiare l’agenda politica. Se poi questo possa tradursi in un successo elettorale nelle elezioni del 2013 ho i miei dubbi. 

E quindi? In questo momento penso che noi dovremmo – e mi rivolgo soprattutto a chi stimo e alle persone di Alba con cui continuo ad avere rapporti – piuttosto proseguire in quella direzione e insistere in quella linea di elaborazione di idee e cambiamento anche dei referenti, senza generiche contrapposizioni. Perché poi, per riprendere l’esempio dei nuovi sindaci, alcuni di loro sono venuti fuori dall’esperienza dei movimenti, altri invece dalle organizzazioni dei partiti. Quindi la contrapposizione frontale non è detto che dia sempre risultati positivi, dipende da cosa c’è dietro, dalla capacità di elaborazione e anche di trovare collegamenti. Questa non è una critica che rivolgo soltanto ai movimenti. Il Pd, ad esempio, non si è reso conto dell’importanza che i movimenti avevano avuto in quella stagione e non li ha presi sul serio. Mi pare sia stato un errore politico. Oggi vedo una situazione in movimento, una difficoltà a tradurre tutto questo in nuove forme organizzative che possano avere successo elettorale e vedo, nello stesso tempo, le difficoltà della sinistra tradizionale. 

Si parla molto della costituzione di un quarto polo: sogno o realtà? Io non riesco a usare né l’uno, né l’altro termine. C’è un dato di realtà indubbio: tutto questo mondo ha avuto risultati politici che non si possono negare. Quei sindaci non sarebbero stati eletti senza quel tipo di movimento alle spalle. I referendum hanno mobilitato 27 milioni di persone, ma è un po’ un’illusione ritenere che quei 27 milioni di persone sposterebbero il loro consenso su formazioni minoritarie, a sinistra della sinistra, come quelle di cui stiamo parlando. Uno sbaglio commesso in passato dai Radicali, che hanno pensato che il consenso ottenuto nei referendum e nella raccolta delle firme si traducesse in consenso elettorale. E’ assai complicato riuscire a convertire l’azione di movimenti che hanno un obiettivo specifico, ben percepibile e ben al di là dei confini dei partiti, assegnare loro un obiettivo, raggiungerlo, e poi pensare che ciò si traduca in una lista elettorale sostenuta dalla medesime persone. 

Quali sono, dunque, i suoi auspici?Mi augurerei che quanto c’è nella sinistra tradizionale, per così dire, venisse recepito con più attenzione e diventasse seriamente parte dell’agenda politica. Se si arrivasse ad avere alcune liste a sinistra della coalizione imperniata sul Pd e poi queste dovessero subire uno scacco, com’è avvenuto nelle ultime elezioni per le liste arcobaleno e verdi, quale sarebbe l’effetto? Di nuovo si direbbe: “voi politicamente non contate nulla”, un risultato che va evitato. Invece, sono convinto che proprio il cambiamento avvenuto in questi anni debba molto a un mondo che non è anchilosato come nella politica tradizionale. Un elemento emblematico è che il Pd ha come suo slogan “Italia. Bene Comune”; è successo in seguito al referendum sull’acqua, bene comune, e il Pd è stato l’unico partito a farne un programma. Se questo slogan viene usato strumentalmente non va bene, ma se dietro continua a esserci un lavoro costante, allora si possono cambiare molte cose.

Lei teme la mancanza di coesione? E’ un rischio effettivo, una questione che dovrebbe interessare chi è già soggetto politico strutturato, quindi il Pd. Finora quest’attenzione ai movimenti non c’è stata o non c’è stata in maniera adeguata. Secondo me, la società civile non è un indistinto generalizzato e dovrebbe costruirsi non per opposizione e invettiva (sul genere di “il Pd succube dell’agenda Monti”, “Vendola traditore”), ma dovrebbe lavorare molto sui temi che debbono riuscire a comporre una nuova agenda politica. Così questo mondo della sinistra potrebbe ritrovare, pur in una diversità difficile da cancellare, delle modalità di organizzazione e di presenza sociale e politica più forti delle odierne. In troppi casi, purtroppo, queste modalità riflettono la storia meno apprezzabile della sinistra, il litigio continuo. Un tempo, nelle vecchie logiche dei partiti comunisti, questo veniva chiamato ‘frazionismo’, ossia un’esasperata ricerca del dato differenziale. Anche se non bisogna andare a cercare spasmodicamente l’unità a qualsiasi prezzo, però che almeno non ci sia una sorta di disconoscimento preventivo dell’interlocutore, sul genere di “con quello io non parlo”, semplicemente perché è sbagliato.

Giovani/vecchi: una contrapposizione che oggi ha un senso? Dal momento che si era costituito un sistema di oligarchie, questa formula ha finito per giocare un ruolo e lo vediamo. Ma, nello stesso tempo, in astratto questa è una contrapposizione insensata, specie a generalizzarla. Personalmente ho fatto due esperienze dirette nel pubblico: come parlamentare e come presidente di un’autorità indipendente. In quest’ultimo caso, fissare un tetto di otto anni all’authority è un bene: serve un ricambio, scandito da regole precise, anche per evitare intrecci di interessi e il pericolo di burocratizzazione. Riguardo al Parlamento, invece, la cosa è diversa, dal momento che il lavoro parlamentare è anche un accumulo di esperienza. Ci sono stato immerso per 15 anni e poi me ne sono andato di mia spontanea volontà. Inoltre, il Parlamento è un luogo rappresentativo: se i cittadini vogliono affidarsi a persona che ha esperienza, perché impedirlo? Nella questione giovani/vecchi un ulteriore problema è rappresentato dal fatto che si vogliono trascinare le carriere al di là dei giusti limiti.

Di cosa è fatta la politica? Di simboli e visioni, come diceva Berlinguer, o di risposte concrete? Di tutte e due. Le risposte concrete che non sono capaci di guardare il contesto rischiano di essere drammaticamente inadeguate. Quanto sento Monti che a una domanda sui malati di Sla, costretti a manifestare esibendo la loro terribile condizione umana, risponde semplicemente che c’è stata una politica economica sbagliata e che pertanto le risorse sono ridotte, non va bene. Non si possono ignorare questi dati concreti. Se governo un Paese e voglio rispettare le persone non posso non distribuire le risorse ignorando simili situazioni. E’ sintomatico di una diversa visione della società: il governo come puro calcolo economico. Le due cose, visioni e azioni politiche devono essere tenute insieme: le grandi visioni politiche si sono poi tradotte in grandi programmi, realizzati almeno in parte. 

Dunque che fare?Non mettere visioni e azioni politiche le une contro le altre, in quanto questo autorizza molte cose. Ad esempio dire “Ma quel signore le cose le fa, quindi apprezziamolo indipendentemente da…”: è la logica del “rubo ma faccio”, slogan di un noto senatore brasiliano. Zero visione e tutto fatti. Ridurre la politica a questo significa mortificare la democrazia. Io vorrei che la politica fosse sempre accompagnata da una visione. E’ la ragione per cui ritorna l’attenzione alla Costituzione. I nostri sono anni di grande riduzionismo. Tutto viene ridotto, nella peggiore delle ipotesi a interesse personale, nella migliore a calcolo economico. Mentre si sente il bisogno di avere dei grandi principii di riferimento. La nostra Carta costituzionale è molto eloquente in questa direzione: su alcuni punti come quelli dell’uguaglianza e della salute ha formulazioni ricche e precise. E’ un documento che guarda alla persona e alla sua dignità. Credo che questo bisogno di idealità e principii sia sentito molto fortemente. 

Lei parla di una ‘religione della libertà’: di che si tratta? E’ una citazione che ho tratto da Benedetto Croce. Croce vedeva la storia come il risultato di un atteggiamento spirituale, che deve nutrire la politica e portare alla libertà. La libertà è quella che deve essere messa sugli altari da qualsiasi cittadino. Ecco perché mi sono sentito, da laico, di usare quest’espressione che oggi ci può aiutare. La libertà non è negoziabile da nessuno e per essa dobbiamo impegnarci. C’è una canzone partigiana francese che dice “viviamo nella notte ma la libertà ci ascolta”, un’affermazione molto fideistica, che si sposa bene con l’idea di religione della libertà. Ma anche un antidoto al pessimismo che si traduce in passività. E le democrazie muoiono di passività, non solo di aggressioni esterne. 

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ESPOSITO Perchè la libertà dipende dai diritti

FORMENTI Walmart, uno sciopero per il diritto ad avere diritti
Roma, 30/11 e 1/12 Stati generali dei diritti civili


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