martedì 26 novembre 2013

Berlusconi: Boccia, revisione processo.


In paese normale voto decadenza dopo delibera corte su Severino.

(ANSA) - ROMA, 26 NOV - "Se fosse così mi aspetto una revisione del processo come per qualsiasi altro cittadino". Lo afferma il deputato Pd Francesco Boccia a Mix24 di Giovanni Minoli su Radio 24, a proposito delle nuove carte e testimonianze sulla condanna di Berlusconi.

Inoltre, aggiunge, "in un paese normale si sarebbe aspettata la delibera della Corte sull'interpretazione della legge Severino".


PD-Pdl partito unico.

La casa del padre.



Sgomento e fastidio per raggiungere la casa del padre per il tradizionale incontro familiare. Tutto era grigio, triste, e quasi quasi gli intoppi che si ponevano durante il cammino erano graditi: si faceva strada la speranza di non raggiungerla mai ed avere una qualsiasi scusa per non andarci. 
Quella casa era intrisa di faziosità e finzione. 
Ci arrivò, purtroppo, ma si mise in disparte, in un angolo, ad osservare come quell'ammasso informe di individui rideva ed ostentava allegria; solo in quei giorni, però, perchè per il resto del tempo, quando non erano insieme, si sparlavano e criticavano aspramente.
Mentre era intensa a guardare, quel tizio che non aveva mai calcolato un centesimo, un nessuno qualsiasi, le si avvicinò, le posò il palmo della mano sinistra sulla fronte e, con occhi indagatori, le infilò due dita sull'inguine destro all'altezza del colon, sussurrandole: "come sta il tuo fegato?" 
Impallidì, impressionata. Come faceva quel tizio che non sapeva nemmeno fosse un medico, ad indovinare il suo cruccio?
Passata la sorpresa, intravide, da dietro la parete, suo padre uscire curvo e nudo dal bagno mentre diceva "La mamma è ancora dentro". 
Il suo corpo era flaccido, tendente al giallognolo, il viso triste. Lei lo guardò con commiserazione mentre pensava alla mamma morta qualche tempo fa e non gli disse niente, restò zitta, non rispose. Pensò alla mamma che trascorreva tanto tempo in quel bagno strano, lunghissimo, azzurrognolo.
Con lei era finito tutto, tutto aveva perso valore e colore.

Impegnatissimo...



Sta selezionando le nuove leve per il Parlamento?

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Napolitano e il processo sulla Trattativa: se questo è un presidente… - Lorenzo Baldo

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Ormai è un dato di fatto. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sostiene di non avere “in alcun modo ricevuto dal dottor D’Ambrosio qualsiasi ragguaglio o specificazione circa le ‘ipotesi’, solo ‘ipotesi’ da lui enucleate” escludendo di aver ricevuto indicazioni riguardanti il “vivo timore a cui questi ha fatto il generico riferimento nella drammatica lettera del 18 giugno”. “Né io – prosegue Napolitano nella lettera inviata ad Alfredo Montalto, presidente della Corte di Assise davanti a cui si celebra il processo sulla Trattativa – avevo modo e motivo, neppure riservatamente, di interrogarlo su quel passaggio della sua lettera. Né mai, data la natura dell’ufficio ricoperto dal dottor D’Ambrosio durante il mio mandato, come anche durante il mandato del presidente Ciampi, ebbi occasione di intrattenermi con lui su vicende del passato, relative ad anni nei quali non lo conoscevo ed esercitavo funzioni pubbliche del tutto estranee a qualsiasi responsabilità di elaborazione e gestione di normative antimafia”. 
Bastano queste poche righe per sprofondare nel più totale disgusto. In quale altro Paese “civile” un presidente della Repubblica si arrogherebbe il diritto di rimettere in discussione la decisione della Corte di ascoltarlo in un processo che potrebbe riscrivere – come minimo – il corso della storia degli ultimi 30 anni? Le motivazioni addotte dal Capo dello Stato hanno un quid di surreale.
Davvero Napolitano ritiene possibile far credere di non essere mai stato depositario di alcun “ragguaglio” su quello che è stato molto di più di un semplice sfogo? Come è possibile credere alla versione di chi nega di aver mai approfondito i temi più inquietanti citati dal suo ex consigliere giuridico? 
“Lei sa di ciò che ho scritto anche di recente su richiesta di Maria Falcone – scriveva Loris D’Ambrosio a Giorgio Napolitano il 18 giugno 2012 –. E sa che in quelle poche pagine non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi - solo ipotesi di cui ho detto anche ad altri - quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi. Non le nascondo di aver letto e riletto le audizioni all’Antimafia di protagonisti e comprimari di quel periodo e di aver desiderato di tornare anche a fare indagini, come mi accadde oltre 30 anni fa dopo la morte di Mario Amato ucciso dai terroristi...”. 
Purtroppo, nel citato libro di Maria Falcone (Giovanni Falcone un eroe solo, ed. Rizzoli, 2012), di quegli oscuri “episodi del periodo 1989-1993” che l’hanno “preoccupato” e “fatto riflettere”, non c’è traccia, solo alcuni limitati riferimenti alla solitudine di Falcone dopo il fallito attentato all’Addaura e alle polemiche seguite alla sua prima idea di Superprocura. 
Sono forse sopraggiunti dei tagli alla bozza definitiva del manoscritto? 
D’Ambrosio millantava, o che altro? 
Certo è che la lettera di Napolitano ad Alfredo Montalto è un insulto all’intelligenza. 
E soprattutto alla giustizia. 
In un Paese “normale” il Capo dello Stato sarebbe il primo a voler contribuire al raggiungimento della verità. 
In Italia, invece, il presidente della Repubblica solleva conflitti di interesse nei confronti delle Procure che istruiscono delicatissimi processi, evita di manifestare sostegno e solidarietà verso quegli stessi magistrati minacciati di morte e soprattutto oppone un silenzio tombale quando viene chiamato a testimoniare. 
Nella speranza che il prossimo presidente non ci faccia rimpiangere quello attuale non resta che aggrapparsi alle parole di Sandro Pertini che mai come oggi vorremmo risentire al Quirinale. “Non accetterò mai di diventare il complice di coloro che stanno affossando la democrazia e la giustizia in una valanga di corruzione – aveva detto in una vecchia intervista rilasciata a Nantas Salvalaggio –. Non c’è ragione al mondo che giustifichi la copertura di un disonesto, anche se deputato. Lo scandalo più intollerabile sarebbe quello di soffocare lo scandalo”. “Io spero che i documenti dei famosi ‘pretori d’assalto’ siano vagliati con rigore. Spero che tutto sarà discusso in aula, e nessuna copertura sarà frettolosamente inventata dai padrini dell’assegno sottobanco… Mi fanno pena i magistrati e i politici che cercano di tagliare le gambe ai pretori dell’inchiesta sullo scandalo del petrolio. Dicono che sono troppo giovani: ma da quando la giovinezza è un reato? Se mai è un sintomo esaltante e meraviglioso: significa che il Paese ha una riserva di coraggio e di onestà nelle nuove generazioni”. Su quella “riserva di coraggio e di onestà” pesa oggi la grande responsabilità di continuare – nonostante tutto – a lottare e ad andare avanti. Cercando comunque la verità. Al di là che ci sia o meno un presidente reticente.

Marco Pomar





Berlusconi: "Sono arrivate dagli Usa delle carte che mi scagioneranno. Ghedini, mostra le carte ai signori."

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Marco Pomar

   

Il presidente Letta dichiara guerra alla violenza contro le donne. Il sottosegretario Guerra condivide. 
Traduzione: Letta dichiara sui giornali di volere la guerra contro la violenza sulle donne, Guerra l’ha letta e condivide la guerra di Letta. Il presidente di commissione Boccia, letta la dichiarazione sulla guerra di Letta, non condivide, e boccia la guerra, ma la dichiarazione della Guerra che condivide la guerra di Letta non l’ha letta, quindi non si sa se Boccia boccia solo la guerra di Letta o anche la guerra di Guerra, senza averla letta.


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Auto elettrica, l’Italia in panne: boom nel resto del mondo, da noi 5mila all’anno. - Daniele Martini

Auto elettrica, l’Italia in panne: boom nel resto del mondo, da noi 5mila all’anno


Lo Stato e la Fiat non ci credono. E nelle città mancano le colonnine per la ricarica. Così il Paese perderà l'appuntamento tecnologico con quella che viene considerata l'auto pulita del futuro. Settore nel quale il leader è Renault.

Non c’è prodotto al mondo più annunciato, atteso e meno venduto dell’auto elettrica. E’ almeno un ventennio che se ne parla con entusiasmo e speranza, salvo poi scoprire che gli acquirenti per ora latitano. Da Renault a Daimler, da Volkswagen a Ford, da Bmw a Nissan, dopo tante false partenze i grandi costruttori si stanno però convincendo che è arrivato davvero il momento buono. Perché, come dicono quasi all’unisono e in gergo, la “tecnologia è matura”.
Negli ultimi anni sono stati fatti passi da gigante grazie soprattutto all’introduzione delle batterie al litio che però sono molto costose a causa della materia prima usata, un minerale i cui giacimenti si trovano per più del 50 per cento nei laghi salati prosciugati delle Ande boliviane. Con queste nuove apparecchiature ogni auto è capace di percorrere con una carica da un minimo di 100 chilometri in media ad un massimo di 200. Che non sono pochi considerando che l’auto elettrica è pensata soprattutto per un uso cittadino e che il 60 per cento degli automobilisti europei non percorre più di 30 chilometri al giorno, mentre solo una minoranza del 10 per cento copre tragitti giornalieri di oltre 100 chilometri. Ma non sono nemmeno tantissimi se messi a confronto con l’autonomia di un’auto tradizionale che arriva anche a 1.000 chilometri e passa. Secondo uno studio recente di Abi, un centro ricerche di Singapore, il numero di auto elettriche consegnate ogni anno nel mondo passerà dalle attuali 150mila, una quota praticamente trascurabile, a 2 milioni e 360mila entro il 2020, con un tasso di crescita annuo di circa il 48 per cento. Mentre il centro Roland Berger stima che l’elettrico salirà al 12 per cento del mercato nel 2025.
Nel gruppo di testa dei produttori la Fiat probabilmente non ci sarà pur avendo manifestato qualche anno fa una certa attenzione alla faccenda investendo in ricerca e tecnologia con risultati non disdicevoli a livello europeo. La cura Marchionne sta dando i suoi frutti anche a questo proposito. Come una mosca bianca tra i manager mondiali dell’automobile, l’amministratore delegato della grande casa torinese non crede né poco né punto all’auto elettrica tanto che una volta è arrivato addirittura a bollare di masochismo industriale i suoi colleghi che si incaponiscono a puntarci e a investirci.
La conseguenza è che grazie a queste tetragone convinzioni l’Italia perderà l’appuntamento tecnologico con quella che, almeno per il traffico cittadino e metropolitano, viene considerata l’auto pulita del futuro in forza soprattutto del suo quasi trascurabile effetto inquinante. Mentre gli automobilisti faranno più fatica dei colleghi di tutta Europa a inserirsi da acquirenti nell’alveo grande dell’elettrificazione automobilistica. Già da ora l’Italia non è tra i Paesi dove l’auto elettrica è più venduta. Al primo posto c’è la Norvegia, al secondo ilGiappone, poi vengono Stati Uniti e Francia. In termini assoluti il mercato più ricco è quello americano con 16mila Nissan Leaf vendute da gennaio a settembre e circa 10mila Tesla S, auto da amatori, con un prezzo che va da 72mila euro a circa 100mila. Dall’inizio dell’anno passato ad oggi in Italia sono stati venduti poco più di 5mila veicoli elettrici, commerciali e minicar compresi. Leader del mercato con oltre il 40 per cento di vetture è Renault, unica casa automobilistica europea con auto elettriche su ogni segmento della gamma, dalle cittadine alle berline.
L’arretratezza italiana è destinata a crescere. Pochi altri sistemi di trasporto richiedono al pari dell’auto elettrica una “logica di sistema”, un modo di pensare e comportarsi in cui il nostro Paese di solito non eccelle. Logica di sistema vuol dire che una serie di soggetti e di elementi devono integrarsi rendendo possibile lo sviluppo della nuova tecnologia e la sua affermazione nel mercato. Prima di tutto è necessario che le case produttrici continuino ad investire in ricerca migliorando il prodotto, consentendo alle auto di diventare più affidabili acquisendo soprattutto un’autonomia di movimento sempre maggiore.
L’altro punto senza il quale l’auto elettrica non può affermarsi è la rete di punti di ricarica. In assenza di un numero adeguato di colonnine a cui attaccare la macchina per reintegrare la funzionalità delle batterie, è assolutamente velleitario pensare ad un mercato dell’auto in grande stile. Qui entrano in ballo le aziende elettriche. L’Enel che in Italia è la più grande ed è a controllo pubblico sembra puntare con una certa convinzione sull’auto elettrica ed ha già piazzato un migliaio di punti di ricarica, sostanzialmente di due tipi: domestici e pubblici. Le stazioni domestiche sono composte da un contatore installato nel garage o nel box di casa; quelle pubbliche sono le colonnine che si cominciano a vedere nelle città, collocate in punti considerati strategici, concordati con le amministrazioni pubbliche. La cosa positiva è che al momento non vengono prese di mira dai vandali, come fossero protette da una miracolosa mano invisibile. L’Enel è in grado di seguire attraverso un centro di controllo le varie fasi di ricarica, calcolando il consumo e stabilendo l’importo che viene addebitato in bolletta.
Tutto ciò, però, non basta se poi l’acquisto dell’auto non viene accompagnato da una politica di sgravi. Al momento il grande handicap dell’elettrico è il prezzo iniziale, superiore di circa un terzo rispetto alle vetture tradizionali a causa delle batterie. Il costo di partenza, è vero, viene ammortizzato con il passare del tempo grazie a spese di manutenzione assai più contenute e soprattutto per effetto dei bassi consumi. Gli esperti stimano che mentre un automobilista in 5 anni percorrendo in media 10mila chilometri l’anno spende di carburante quasi 5mila euro con un’auto media a benzina, 2.700 con una a gpl, 2.100 con una a metano, 3mila con un diesel, con un’auto elettrica se la cava con meno di 1.000 euro.
Ma il balzello del prezzo di listino rimane. E dopo che la Fiat ha puntato sul metano come alternativa pulita a benzina e diesel, il risultato è che da noi il concetto stesso di auto ecologica resta assai vago e l’equivoco si riflette sulla politica degli incentivi. All’inizio dell’anno il governo Monti ha introdotto sgravi per l’acquisto di auto ecologiche con criteri assai farraginosi che non hanno fatto scattare la voglia di acquisto di auto elettriche. Il 20 per cento circa di sconto sul prezzo di listino viene concesso per lo più in presenza di rottamazione e anche se con massimali differenti, a tutte le vetture considerate ecologiche , da quelle a metano alle ibride, senza un vantaggio forte per le elettriche. Favorendo così, nei fatti, proprio le non elettriche, a cominciare dalle auto a metano della Fiat che avendo un costo iniziale più basso risultano di primo acchito più convenienti per i clienti. Con queste premesse è assai difficile che in Italia per le auto elettriche si passi dalle intenzioni ai fatti. Secondo una ricerca di Deloitte più del 70 per cento degli italiani comprerebbe volentieri un’auto elettrica se ci fossero le condizioni per farlo. Purtroppo i presupposti al momento restano modesti. Gli automobilisti possono mettersi il cuore in pace mentre i cittadini devono rassegnarsi a città sempre più inquinate.
Siamo in una democrazia, ma una strana democrazia nella quale non comanda il demos, ma pochi e disonesti cittadini asserviti alle lobby del potere economico.