venerdì 22 maggio 2020

E Bertolaso scarica Fontana&C: “Fiera, il progetto era altro”. - Andrea Sparaciari

E Bertolaso scarica Fontana&C: “Fiera, il progetto era altro”

L’ex capo della Protezione civile: “Non è il mio ospedale, ho diffidato la Regione, fuori i conti”. Poi però si pente.
“Quello in Fiera non è il mio ospedale. Sono sconcertato dall’evoluzione del progetto, a causa della mia malattia sono stato di fatto esautorato dall’operazione”. Tanto che “ho diffidato Regione Lombardia e Fondazione di Comunità, dal chiudere la struttura e a proseguire tale progetto”. Quella che avete appena letto è la incredibile conversazione avvenuta ieri mattina tra l’avvocato milanese Giuseppe La Scala e il dottor Guido Bertolaso. Cioè il superconsulente voluto da Attilio Fontana per sovrintendere alla costruzione della struttura alla Fiera di Milano. Conversazione prima confermata al Fatto dallo stesso Bertolaso con degli inequivocabili sms, e poi smentita in serata sempre da Bertolaso: “Leggo solo falsità a cui non ho nemmeno intenzione di rispondere”. All’ospedale Fiera si sarebbero dovuti ricoverare centinaia di malati Covid; un’astronave (copyright dello stesso Bertolaso) costata tra i 21 e i 26 milioni di euro, che ha ospitato non più di una ventina di pazienti e che presto sarà smantellata.
Perché Bertolaso abbia scelto proprio La Scala per il suo sfogo è presto detto: l’avvocato milanese martedì aveva annunciato di voler avviare una serie di accessi agli atti per capire come sono stati usati i 21 milioni di euro raccolti per la costruzione dell’ospedale. Lui stesso aveva donato 10 mila euro, pentendosene amaramente. Un suo tweet – “Di quei 21 milioni, 10.000 euro li ha donati il mio studio, avendo io insistito perché fossero destinati proprio lì e non ad altre iniziative anti-Covid19. Sono un pirla” – aveva fatto il giro del web, dando voce alla frustrazione dei 1.200 donatori che in piena emergenza avevano creduto alla necessità stringente di quella struttura. Così, alla notizia del prossimo smantellamento dell’ospedale inutilizzato, era entrato in azione. “Abbiamo capito tutti che c’è qualcosa che non va in quell’operazione – dice La Scala – per questo come donatori faremo una serie di accessi agli atti per vedere i conti: alla Fondazione di Comunità Milano (che ha in pancia il fondo sul quale sono affluiti i soldi dei donatori, ndr), alla Fondazione Fiera (che aveva avviato il fondo, ndr) e alla Prefettura di Milano, per capire che tipo di sorveglianza ha effettuato sugli atti delle due fondazioni. E anzi, colgo l’occasione per lanciare un appello a tutti quelli che vogliono vederci chiaro, unitevi a noi!”.
Più che comprensibile quindi lo stupore di La Scala quando mercoledì mattina ha ricevuto la telefonata di Bertolaso. E lo stupore, per l’avvocato, è solo cresciuto man mano che Bertolaso si sfogava: “Mi ha ringraziato per aver sollevato il caso – rivela ancora La Scala – mi ha inoltre autorizzato a diffondere pubblicamente la nostra conversazione”.
Bertolaso, come detto, scrive via sms al cronista: “Ho ‘sollecitato’ la Regione Lombardia a dare notizie chiare sul futuro del Covid Hospital e ovviamente richiesto alla Fiera di pubblicare tutti i rendiconti dei soldi donati, così come ho già fatto nelle Marche. Entro una settimana spero di vedere il tutto confermato”. Il riferimento è all’ospedale gemello a quello della Fiera, inaugurato sabato a Civitanova Marche, costato 12 milioni, immediatamente rendicontati. Intanto, l’iniziativa di La Scala ha smosso le acque: a giorni sarà convocato un cda straordinario di Fondazione di Comunità (che ha gestito la raccolta dei fondi) originariamente previsto per luglio. I consiglieri in quota Palazzo Marino chiederanno una data certa per avere la rendicontazione delle spese sostenute, che fino a oggi Fondazione Fiera non ha ancora fornito. Una prima decisione riguarderà l’allargamento del numero dei garanti del Fondo per “sanare” conflitti d’interessi visto che fino ad oggi a controllare le spese di Fondazione Fiera è Fondazione Fiera.

giovedì 21 maggio 2020

Generali, l'utile paga il Covid ma cresce il risultato operativo. - Laura Galvagni

(Bloomberg)

Decisivo l’impatto delle svalutazioni di portafoglio per 655 milioni dovuto alle turbolenze di mercato innescate dalla pandemia.

Il gruppo Generali paga lo scotto del Covid nel primo trimestre 2019 e accusa un calo dell'utile dell'84% a 113 milioni anche se - sottolinea il gruppo assicurativo - vede «confermata la buona redditività del business con il risultato operativo in crescita a 1,44 miliardi (+7,6%) e una solida posizione di capitale».
L'utile netto ha risentito invece di tre fattori: «di 655 milioni di svalutazioni nette sugli investimenti legate all'impatto del Covid-19 sui mercati finanziari, del contributo di 100 milioni stanziati dal Gruppo per il Fondo Straordinario Internazionale per l'emergenza da pandemia e del contributo nullo delle dismissioni, che l'anno scorso avevano generato plusvalenze per 128 milioni».
L'attuale situazione ha un fortissimo grado di incertezza, Generali sarà meno impattata dei competitor europei per il diverso mix di business - ha precisato il general manager Frederic de Courtois in conference call con i giornalisti - ma prevede che il proprio risultato operativo lordo sia in calo nel 2019 con l'utile che verrà impattato negativamente dalla debolezza dei mercati finanziari.
In ogni caso, Generali farà il punto sul piano al 2021 e sul rispetto dei target da esso previsti in un Investor Day previsto a novembre. «È importante dire che siamo molto fiduciosi della nostra strategia e dei pilastri che sono alla sua base e che siamo entrati in questa crisi in una condizione di forza dal punto della redditivita' e della liquidita', molto alte, e della Solvency che è a un ottimo livello» ha precisato de Courtois. Tuttavia - ha aggiunto - siamo in un momento «senza precedenti» e «riteniamo ci vorranno un po' di mesi per avere visibilità».
Tra gli altri numeri della trimestrale, in netto miglioramento il combined ratio a 89,5% (-2 punti percentuale). I premi lordi complessivi salgono dello 0,3% a 19,2 miliardi con un positivo andamento del segmento Danni (+4,0%). Nel Vita la raccolta netta cala del 25,2% a 3,1 miliardi. Infine, il gruppo sottolinea “la solida posizione di capitale” con un Solvency Ratio al 196% dal 224% di fine anno. Al proposito, ha precisato il Cfo di gruppo Cristiano Borean, l'indicatore al 19 maggio era vicino al 200% mentre il portafoglio di Btp è sempre attorno a 60 miliardi.
Lo stesso Borean, interpellato sul dividendo, ha precisato che sul pagamento della seconda tranche Generali ha previsto delle regole molto chiare. Essa arriverà dopo una «valutazione del cda nel rispetto del nostro risk capital framework, uno stringente requisito di capitale di gruppo, alla luce della sua evoluzione e di quella del business al 30 settembre».
«Tutte le condizioni verranno valutate, allo stato attuale stiamo rispettando il nostro risk capital framework» ha concluso il manager, sottolineando anche che il recupero dei mercati (avvenuto ad aprile) potrebbe contribuire a ridurre le svalutazioni nella semestrale.

Coronavirus, la procura di Milano apre un fascicolo sull’ospedale in Fiera dopo un esposto.

Coronavirus, la procura di Milano apre un fascicolo sull’ospedale in Fiera dopo un esposto

Milioni di euro, tantissimo lavoro e poi l'annuncio: "Lo chiuderemo a breve". Sull'ospedale in Fiera a Milano, tirato su per allestire posti letto anche di terapia intensiva per malati Covid 19, la polemica è accesa da giorni. Ma ora potrebbe esserci anche una svolta giudiziaria.
Milioni di euro, tantissimo lavoro e poi l’annuncio: “Lo chiuderemo a breve”. Sull’ospedale in Fiera a Milano, tirato su per allestire posti letto anche di terapia intensiva per malati Covid 19, la polemica è accesa da giorni. Ma ora potrebbe esserci anche una svolta giudiziaria. Dopo l’esposto dell’Adl Cobas Lombardia, che aveva già sollevato il caso delle mascherine mutande, la Procura di Milano, come atto dovuto, ha aperto un fascicolo conoscitivo, senza ipotesi di reato né indagati al momento, sulla realizzazione dell’ospedale che, nel pieno dell’emergenza, aveva suscitato entusiasmo e grandi aspettative.
Nella denuncia, firmata dal portavoce del sindacato che tutela i diritti del personale sanitario, Riccardo Germani, si segnala che l’operazione della costruzione della struttura modulare in fiera, “presenta delle criticità già dal giorno successivo alla decisione di pubblicizzazione da parte di Regione Lombardia della ‘Fondazione Fiera Milano per la lotta al Coronavirus'”. Criticità relative anche “alle cospicue donazioni arrivate da parte dei privati (…) per un totale di 21 milioni di euro” a questa Fondazione. Di quei 21 milioni 10 sono stati donati da Silvio Berlusconi che aveva ottenuto anche il plauso dell’ex alleato di governo, Matteo Renzi. Soprannominato “astronave” da Guido Bertolaso, consulente speciale incaricato per l’operazione dal presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana, l’ospedale avrebbe ospitato 25 pazienti.
Le donazioni da parte di 1560 privati, tra cui l’ex premier, è attraverso il Fondo Fondazione Fiera per la Lotta al Corona Virus (costituito nell’ambito della Fondazione di Comunità Milano Città, Sud Ovest, Sud Est e Adda Martesana Onlus, ndr). Nonostante sia stato costruito con i fondi privati, a detta del sindacato che ha sempre sostenuto la possibilità di utilizzare una parte dei padiglioni dismessi e “con gli impianti funzionanti” dell’ospedale di Legnano, si è rivelato “uno spreco di risorse”. E questo in quanto “proprio nel momento di maggiore criticità, tali fondi sarebbero potuti essere impiegati diversamente ad esempio facendo i tamponi ai medici, ai pazienti e al personale delle Rsa, investendo sulle strutture per la quarantena dei pazienti positivi ma non guariti per evitare focolai domestici,- prosegue l’atto – creando squadre di medici per intervenire ai primi sintomi a domicilio per evitare l’ospedalizzazione”. “Da una semplicistica valutazione matematica – è scritto sempre nell’esposto – si può in via empirica affermare che per ogni paziente ricoverato nell’Astronave (sembra non sia mai stato superato il numero di 25 unità) sia costato la modica cifra di 840.000 euro per ogni singolo” degente.
Secondo la denuncia, nella costituzione dell’ospedale anti Covid, 200 posti letto tutti predisposti per essere di terapia intensiva, “ha prevalso la necessità propagandistica (…) sul bene rappresentato dalla salute pubblica”. A tal proposito nell’atto si sottolinea come “in quei giorni” l’assessore al Welfare Giulio Gallera “con centinaia di morti e medici allo stremo, lanciava la sua candidatura a sindaco di Milano”. Nell’esposto-denuncia il sindacato si è avvalso anche del parere di Giuseppe Bruschi, primario della divisione di Cardiochirurgia del Niguarda che aveva sostenuto che “una terapia intensiva non può vivere separata da tutto il resto dell’ospedale”, in quanto i pazienti lì ricoverati hanno bisogno “della continua valutazione integrata di diverse figure professionali”. Il progetto iniziale che prevedeva 400 posti letto di terapia intensiva suddivisi in più moduli, è stato rivisitato man mano che procedevano i lavori per la necessità anche di creare gli ambienti per le tac, uno per le rx, un ufficio amministrativo e servizi essenziali, come gli spogliatoi, le docce e altro.
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Sicilia, corruzione nella sanità: 10 arresti. C’è anche il commissario Covid che nel 2013 finì sotto scorta dopo aver denunciato tangenti. .- Marco Bova

Sicilia, corruzione nella sanità: 10 arresti. C’è anche il commissario Covid che nel 2013 finì sotto scorta dopo aver denunciato tangenti

Secondo gli investigatori della Guardia di finanza le tangenti riguardavano le gare indette dalla Centrale Unica di Committenza della Regione Siciliana e dall’Asp di Palermo. Ai domiciliari Antonino Candela, da poco coordinatore per la crisi sanitaria e che anni fa era finito sotto scorta per aver denunciato le spartizioni della sanità siciliana. In carcere l'attuale direttore dell'Asp 9 di Trapani, Fabio Damiani.
La stecca del 5% era destinata ai manager della sanità in Sicilia. Compreso il dirigente Antonino Candela, da poco nominato coordinatore per l’emergenza coronavirus in Regione, che da ex direttore dell’Asp 6 di Palermo nel 2013 era finito sotto scorta per aver denunciato le spartizioni della sanità siciliana. Da stamattina è ai domiciliari, mentre è in carcere l’attuale direttore dell’Asp 9 di Trapani, Fabio Damiani, 55 anni, che dal 2016 è stato responsabile della ‘Consip siciliana’ da cui passano i principali affidamenti.
Dieci gli arrestati (due in carcere) dai finanzieri del Nucleo di polizia economico finanziaria, ma sono diciotto gli indagati dei pm di Palermo Giacomo Brandini e Giovanni Antoci, coordinati dal procuratore aggiunto Sergio Demontis, per un flusso di oltre 1,8 milioni di euro di tangenti. In buona parte sarebbe stato incassato attraverso due faccendieri che erano diventati l’interfaccia dei dirigenti. Mentre Candela era raggiungibile attraverso il faccendiere Giuseppe Taibbi, 47 anni, anche lui ai domiciliari, per parlare con Damiani bastava contattare Salvatore Manganaro, 44 anni, un ex dirigente in congedo anche lui arrestato in carcere. Le microspie lo hanno filmato con una valigetta che conteneva una tangente da 100mila euro, poi scomparsi anche attraverso l’utilizzo di trust fraudolenti. Mentre un altro indagato, ignaro delle microspie piazzate dagli investigatori, confessa a un suo interlocutore: “All’assistenza tecnica mi busco io personalmente 15mila euro al mese… io per nove anni m’incasso quindici mila euro senza fare un’emerita m…”. Secondo gli investigatori il giro di mazzette ruotava intorno alle gare indette dalla Centrale Unica di Committenza della Regione Siciliana e dall’Asp 6 di Palermo per un valore di quasi 600 milioni di euro.
Ai domiciliari – su disposizione del gip Claudia Rosini – anche gli imprenditori che, in cambio dei favori negli affidamenti e nei rinnovi dei contratti, pagavano le tangenti ai dirigenti delle aziende ospedaliere. Si tratta di Francesco Zanzi, 56 enne originario di Roma e Roberto Satta, cagliaritano di 50 anni, amministratore delegato e responsabile operativo della Tecnologie Sanitarie Spa, Crescenzo De Stasio, 49 anni, direttore unità business centro sud della Siram e il responsabile operativo per l’isola, Angelo Moltisanti, 51 anni, che è anche amministratore delegato della Sei Energia scarl. Sottoposto a misure cautelare ai domiciliari anche l’imprenditore Salvatore Navarra, 47enne di Caltanissetta, titolare di una società di servizi di pulizia già emerso nelle indagini sull’ex presidente della Confindustria siciliana, Antonello Montante, nonché Ivan Turola, 40enne di Milano, ritenuto il referente occulto della Fer.co con la quale aveva ottenuto alcuni lotti di un’ultima gara, adesso sospesa.
Le accuse contestate da gip a vario titolo sono di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio, induzione indebita a dare o promettere utilità, istigazione alla corruzione, rivelazione di segreto di ufficio e turbata libertà degli incanti. Sottoposte a sequestro le sette società utilizzate – con sede in Sicilia e in Lombardia – oltre che di 160mila euro, cifra delle tangenti di cui è stato accertato il versamento. Altre due persone sono state sottoposte al “divieto di esercizio dell’attività”. “È preoccupante che ancora una volta, in indagini di pubblica amministrazione, corrotti e corruttori utilizzano gli stessi metodi per sottrarsi alle indagini, tipici degli ambienti mafiosi”, dice il colonnello Gianluca Angelini, comandante del Nucleo di polizia economico finanziaria.
Al centro dell’indagine – avviata nel 2016 – c’è il manager Fabio Damiani, avvocato palermitano che negli anni aveva catalizzato i ruoli più importanti per l’affidamento degli appalti. Per tutti Damiani era diventato “la sorella”, da qui il nome dell’indagine “Sorella sanità”. Le indagini dei finanzieri hanno individuato quattro gare, poi rinnovate: due avviate dall’Asp di Palermo (gestione e manutenzione delle apparecchiature elettromedicali, del valore di 17.635.000 euro; fornitura vettori energetici, conduzione e manutenzione impianti tecnologici, da 126.490.000 euro) e due dalla Cuc (servizi integrati manutenzione apparecchiature elettromedicali, per un valore di 202.400.000 euro ed i servizi di pulizia per gli enti del servizio sanitario regionale da 227.686.423 euro).
“Quando abbiamo cambiato la busta e loro hanno fatto il ribasso, lo sapevano”, diceva intercettato Damiani che nel 2018, venne nominato a capo dell’Asp di Trapani dall’assessore alla sanità Ruggero Razza. Il suo sponsor era l’assessore regionale alle Attività produttive Mimmo Turano, leader dell’Udc e plenipotenziario politico della provincia di Trapani. Prima responsabile delle risorse umane, poi direttore del Provveditorato (l’ufficio che si occupa di appalti) dell’Asp di Palermo, oltre che responsabile della Cuc (centrale unica dei contratti) e presidente delle commissioni di gara contestate dai pm di Palermo. Mentre la sua nomina a Trapani era in bilico, i finanzieri hanno intercettato le ricerche di entrature, fino a quando uno degli arrestati, Ivan Turola, gli promise un incontro con un suo “parente”, l’attuale presidente dell’Ars, Gianfranco Miccichè. Non si sa se l’incontro sia mai avvenuto, ma sulla nomina – secondo i pm palermitani – sarebbe intervenuto il deputato regionale del centrodestra Carmelo Pullarà, per cui il gip Rosini ha rigettato una richiesta di arresto per turbativa d’asta.
Eletto con la lista Popolari e autonomisti, secondo l’accusa Pullara si sarebbe rivolto al direttore generale dell’Asp di Trapani Damiani per avere un favore per la ditta Manutencoop s.p.a. In cambio avrebbe assicurato un sostegno alla nomina di Damiani ai vertici dell’ufficio sanitario. Pullara è l’ennesimo esponente della maggioranza di Nello Musumeci a finire sotto inchiesta in meno di tre anni di mandato.

Il giustizialgarantista. - Marco Travaglio,

Renzi-BOSCHI-LOTTI | Vvox
Guai a sottovalutare i politici italiani: non si riesce mai a parlarne abbastanza male. L’altroieri pregustavamo due scene madri da urlo: il Parlamento che vota su Bonafede, accusato contemporaneamente di scarcerare troppo e di incarcerare troppo; e i compari di Dell’Utri che sventolano la bandiera di Nino Di Matteo, il pm che ha fatto condannare Marcellino per la Trattativa. Ma ieri la realtà ha superato la fantasia. Sul Giornale di B. e sul Riformatorio di Romeo, Alessandro Sallusti e Tiziana Maiolo hanno definito Bonafede “il peggior ministro nella storia della Repubblica” e Sallusti ha aggiunto che “il pesce puzza dalla testa”. Infatti, per i nasini sensibili di Sallusti&Maiolo, i B., i Previti, i Dell’Utri e tutta la fairy band hanno sempre profumato di Chanel n.5. Sulla linea Sallusti-Maiolo si è attestato l’avvenente Matteo Richetti, già renziano, antirenziano, ri-renziano e ora calendiano (è l’altro membro del partito di Calenda oltre a Calenda), che ha firmato la mozione Bonino perché nessuno se n’è accorto, ma “da tempo Azione chiede un governo di responsabilità nazionale” che trovi un posto per Calenda e, possibilmente, uno strapuntino anche per Richetti. Ergo Bonafede è “il punto più basso della gestione della giustizia nel nostro Paese” (i più alti furono Biondi, Mancuso, Castelli, Mastella, Alfano, Nitto Palma, Cancellieri e peccato per Previti, sventuratamente bloccato da Scalfaro).
L’Innominabile, uomo la cui coerenza è pari soltanto alla sua intransigenza, ha detto di condividere entrambe le mozioni (Bonafede carceriere, Bonafede scarceratore). Quindi non ne ha votata nessuna delle due perché poi, sennò, gli italiani avrebbero votato su di lui. La storia avrebbe potuto finire qui se il Rignanese non avesse voluto regalarci uno scampolo di autopsicanalisi come non se ne vedevano dai tempi d’oro del Cainano: un capolavoro di “proiezione”, “meccanismo di difesa per il quale il soggetto attribuisce ad altri sentimenti, desideri, aspetti propri che rifiuta di riconoscere in sé stesso” (Treccani). Infatti il tapino ha attaccato un pippone col martirologio delle presunte vittime del giustizialismo grillino: “Se oggi votassimo secondo il metodo che Ella (Bonafede, ndr) ha utilizzato nei confronti dei membri dei nostri governi, lei (non più Ella, ndr) oggi dovrebbe andare a casa. Alfano, Guidi, Boschi, Lupi, Lotti… Ma noi non siamo come voi”. Ora, né Bonafede né alcun altro 5Stelle hanno mai fatto parte di governi del Pd, anzi stavano all’opposizione. Dunque mai ne hanno dimissionato alcun ministro, come invece minacciava di fare ieri col Guardasigilli lo Statista dell’Arno.
Invece fra i governi Pd c’è quello di Enrico Letta (2013-‘14). All’epoca l’Innominabile era sindaco di Firenze e candidato alle primarie Pd, di cui divenne segretario a fine anno. Il che non gli impedì di chiedere le dimissioni e appoggiare le mozioni di sfiducia di M5S, Sel e talvolta Lega contro quattro ministri del “nostro governo”: Josefa Idem (palestra spacciata per abitazione per pagare meno Imu); Angelino Alfano (sequestro Shalabayeva); Annamaria Cancellieri (telefonate per scarcerare la figlia di Ligresti); e Nunzia De Girolamo (scandalo Asl Benevento). La Idem se la cucinò il renziano Dario Nardella a Porta Porta: “Deve dimettersi come il ministro tedesco della Difesa, Guttenberg, per la tesi di dottorato copiata”. Gli altri tre li sistemò lo stesso Innominabile: “Le dimissioni della De Girolamo sono questione di stile”; “Se Alfano sapeva del sequestro Shalabayeva, ha mentito ed è un piccolo problema. Ma, se non sapeva, è anche peggio. Dimissioni”; “Sono per le dimissioni di Cancellieri indipendentemente dall’avviso di garanzia. L’idea che ci siamo fatti della vicenda Ligresti è che la legge non è uguale per tutti: se conosci qualcuno di importante, te la cavi meglio. È la Repubblica degli amici degli amici. Non è un problema giudiziario, ma politico: ha minato l’autorevolezza istituzionale e l’idea di imparzialità del Guardasigilli”.
Poi, previo “enricostaisereno”, al governo ci andò lui. E fece dimettere i suoi ministri Federica Guidi (Sviluppo Economico) e Maurizio Lupi (Infrastrutture e Trasporti). Non certo per una telefonata a Giletti. La Guidi era stata intercettata nello scandalo Tempa Rossa mentre piazzava un emendamento caro al suo compagno lobbista petrolifero che la usava come “una sguattera del Guatemala”. E Lupi aveva chiamato Ercole Incalza, capostruttura del suo ministero, per dirgli: “Deve venirti a trovare mio figlio”, al cui futuro occupazionale si erano interessati Incalza e l’imprenditore-appaltatore Perotti, il quale gli aveva pure regalato un Rolex da 10 mila euro. Poi il buon uso di licenziare i ministri per motivi etici e conflitti d’interessi, a prescindere dalla rilevanza penale, s’interruppe quando nei guai finirono i fedelissimi Lotti (inchiesta Consip), Boschi (scandalo Etruria) e Madia (tesi di dottorato plagiata). E il giustizialista di Rignano, anche per motivi familiari, si convertì al “garantismo”. Ora però ha rimosso tutto, infatti dice a Bonafede: “Noi non siamo come voi”. Ormai vive in stato di ipnosi, come Woody Allen ne La maledizione dello scorpione di giada, che indaga su una serie di furti di gioielli e poi scopre di averli rubati lui. In trance.

“Così Lotti, Unicost e Mi volevano dirigere il Csm”. - Antonio Massari.

“Così Lotti, Unicost e Mi volevano dirigere il Csm”

David Ermini - Il vicepresidente ricostruisce le manovre, respinte: “Puntavano ad avere una maggioranza fissa”.
Le prime nomine di peso, nel Csm a guida David Ermini sarebbero state quelle per le Procure di Roma e Torino. E su quella di Roma, nella primavera del 2019, si consuma lo strappo con il suo sponsor politico, Luca Lotti, gran cerimoniere della cena a casa di Giuseppe Fanfani, membro uscente del Csm e parlamentare Pd, alla quale partecipano gli uomini più influenti di Unicost e Magistratura indipendente, Luca Palamara e Cosimo Ferri. Fu in quella cena del 25 settembre 2018, come ha ricostruito il Fatto Quotidiano, che Ermini riceve l’investitura che lo porta, due giorni dopo, alla vicepresidenza del Csm. Nessuno scandalo, commenta Ermini in un’intervista al Corriere della Sera, perché la nomina del numero due del Csm dev’essere frutto di una mediazione tra magistratura e politica. Poi aggiunge di “essersi sottratto alle richieste di chi voleva eterodirigere il Consiglio”. “Ho dimostrato fin dall’inizio – aggiunge – di ricoprire il mio ruolo in autonomia al servizio dell’istituzione consiliare. Lo testimoniano – conclude – le intercettazioni” dell’inchiesta perugina su Palamara.
Ma se il vicepresidente del Csm ritiene che esistano forze e persone che tentano di “eterodirigere” il Csm, quindi ingerenze esterne, dovrebbe anche fare i nomi ed elencarne le richieste. Nell’intervista al Corriere non ve n’è traccia. “Solo percezioni”, esordisce Errani interpellato dal Fatto. Le percezioni devono però essere collegate a qualcosa di concreto. E qualcuno deve pur averle innescate. In realtà, poco prima che ci si avvicinasse alla nomina del procuratore di Roma, per la quale, in quel momento, il favorito era il magistrato fiorentino Marcello Viola, spinto proprio da Palamara, Ferri e Lotti, s’erano discusse altre nomine, per sedi meno importanti e incarichi direttivi e semi direttivi, quindi da procuratore capo o procuratore aggiunto. È in quell’occasione, spiega Ermini, che arriva il primo segnale: “Mi viene chiesto di votare”. Da chi? “Da Luigi Spina”.
Spina è uno dei consiglieri Unicost, dimessosi lo scorso anno in seguito allo scandalo sul Csm, in stretto contatto con Palamara, Ferri e Lotti. Ma Spina, obiettiamo, era comunque un consigliere del Csm, l’eterodirezione si riferisce a qualcuno che intendeva influire sul Csm dall’esterno, non dall’interno. Non a caso Luca Lotti sostiene, intercettato, che gli va “dato un messaggio forte”. E legge un sms con il quale ricorda a Ermini che lui non è “un senatore qualunque” e che senza di lui non sarebbe stato al Csm. “Lotti l’ho incontrato alla Camera dei deputati”, risponde Ermini, “ma prima che m’inviasse quel messaggio sul telefono. Mi disse che le correnti di Mi e Unicost erano irritate con me. Io feci cadere la cosa. Non gli risposi neanche”. Ermini quindi, stando alla sua versione, non chiede a Lotti perché Unicost e Mi siano irritate con lui. Lascia cadere lì. E non doveva essere un grande sforzo di immaginazione: proprio a Lotti, Ferri e Palamara, Ermini doveva la sua nomina. Da qui, par di capire, le “percezioni”. Ma le richieste? Ritorniamo all’unico nome fatto da Ermini, quello di Spina, che gli chiede di partecipare al voto sul capo di una Procura minore. Ermini non accetta. È il suo voto, la richiesta latente. È questo il tentativo di eterodirezioneHo capito che si aspettava il mio voto sulle nomine. E non soltanto su quelle nomine. In questo modo si sarebbe creata una maggioranza fissa e costante”. A quel punto, il gruppo che spingeva in questa direzione avrebbe avuto il controllo totale della situazione. “E – riflette Ermini – in questo modo avrebbe avuto anche il potere di fare delle concessioni a chi era in minoranza”.

Quei Bravi Ragazzi (The Good Club). - Federico Nicola Pecchini



Di questi tempi si sente spesso parlare di teorie del complotto. Ma io voglio parlarvi di un complotto reale, effettivo, e non semplicemente di teorie. Per intenderci, un “complotto” non è altro che una congiura, una trama (di solito segreta) ordita da un certo gruppo di persone ai danni di qualcun’altro. La cosa sorprendente, però, è che in questo caso il complotto sarebbe a fin di bene, l’obiettivo finale nientepopodimeno che “salvare il mondo”. A chi mi riferisco?
Ma ovviamente al Good Club — il Club dei Buoni — un’iniziativa promossa dal co-fondatore di Microsoft Bill Gates già nel lontano 2009. Come riportato dal Times di Londra, l’esclusivissimo gruppo comprendeva la crème de la crème del capitalismo mondiale: David Rockefeller, il patriarca della famiglia più ricca d’America, i finanzieri Warren Buffet e George Soros, i magnati dei media Michael Bloomberg, Ted Turner e Oprah Winfrey. Ad accomunarli, oltre alla spropositata ricchezza, era la bontà. Tutti quanti infatti, dopo una vita dedicata al profitto, si erano miracolosamente convertiti alla filantropia.
Il buon Bill li chiamò a raccolta per discutere dei maggiori problemi che minacciavano il futuro dell’umanità, e delle possibili strategie per risolverli. Secondo l’informatore del Times, si trovarono tutti d’accordo nel considerare la sovrappopolazione come il problema più importante. Per chi ancora non lo sapesse infatti, il numero di esseri umani sul pianeta è cresciuto a dismisura nel secolo scorso, passando da poco più di 1 miliardo e mezzo nel 1900 a oltre 6 miliardi nel 2000. Oggi siamo a 7 miliardi e mezzo, e il numero continua ad aumentare. Perciò i nostri filantropi decisero all’unanimità di “affrontare la crescita demografica come una minaccia potenzialmente disastrosa a livello ambientale, sociale e industriale”, qualcosa di talmente tremendo che solo un loro tempestivo intervento avrebbe potuto evitare il peggio.
“La bomba demografica” — copertina di un pamphlet del 1954
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