Mia figlia Sara
Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
domenica 12 luglio 2020
Rsa Lombardia, altro che 147 pazienti dimessi: quasi 5 mila. - Natascia Ronchetti
Sullo scandalo lombardo dei pazienti Covid inviati nelle Rsa ora sta emergendo quello che il Fatto scrive da mesi. E cioè che quelli trasferiti sono stati molti di più di quanti ne ha sempre dichiarati la Regione: “Ne sono stati accolti solo 147, in 15 strutture”, ha continuato a dire l’assessore al Welfare Giulio Gallera. Ma le cose non sembra affatto che stiano così. Non in base ai documenti sequestrati dagli investigatori del Nucleo di polizia economico finanziaria (come ha riportato ieri La Stampa), nel centro di smistamento dei pazienti che la Regione ha istituito al Pio Albergo Trivulzio di Milano. Documenti, acquisiti su ordine della Procura meneghina, che parlano di 7.500 pazienti, dei quali 4.700 Covid a bassa intensità e 2.800 negativi (anche se non tutti erano stati sottoposti al doppio tampone per escludere definitivamente la positività). Ma riavvolgiamo il nastro.
Era il 28 marzo quando il Fatto scriveva che i dimessi dagli ospedali perché clinicamente guariti, cioè senza più sintomi ma ancora con carica virale, venivano dirottati su hospice e Rsa. Scelta che allora aveva già riguardato almeno il 30 per cento di ottomila dimessi: vale a dire 2.400 persone, come precisato dallo stesso portavoce di Gallera, da noi interpellato nell’occasione. Dichiarazione stranamente ritrattata alcune settimane dopo: “Un mio errore”, il dietrofront del portavoce.
Arriviamo al 24 aprile, quando il Fatto, di fronte al silenzio della Regione Lombardia e delle Ats scopre, chiamando una per una le case di riposo, che il numero è ben diverso da quello dichiarato da Gallera: sono almeno 225. E i trasferimenti, a quella data, stanno proseguendo. Il presidente Attilio Fontana, l’assessore Gallera e le Ats continueranno a non rispondere, limitandosi a sostenere che le Rsa accoglievano i pazienti su base volontaria e solo a determinate condizioni, come la presenza di un’area autonoma, per evitare il possibile contagio degli anziani.
Non risponderanno nemmeno quando il Fatto, il 25 marzo, pone loro dieci domande. Primo: come è possibile che si parli sempre di 147 pazienti Covid e che a distanza di giorni e settimane il numero rimanga sempre invariato? Nel frattempo la “strage dei nonni” è già iniziata. La Regione Lombardia ha sempre sostenuto che gli anziani morti nelle case di riposo non possono dipendere dal ricovero di pazienti Covid. Ma è un fatto che l’Istituto superiore di sanità ha appurato, con una indagine che ha coinvolto il 43,1 per cento delle 678 Rsa presenti in Lombardia, che sono stati quasi 2.100 i decessi dall’1° febbraio al 5 maggio.
Ancora non si sa quanti dei 7.500 pazienti movimentati dal centro di smistamento del Trivulzio siano effettivamente finiti nelle Rsa, quanti in altre strutture sociosanitarie o centri per le cure intermedie: gli investigatori dovranno analizzare i documenti per ricostruire il percorso ospedaliero. “Ma era evidente fin dall’inizio che non potevano essere solo 147 in tutto – dice Cesare Maffeis, medico, presidente dell’associazione delle case di riposo del Bergamasco –. Solo nella nostra provincia ne abbiamo accolti molti di più. I numeri la Regione ce li ha ma non li fornisce. E non ha nemmeno un esperto di strutture socio sanitarie, si vede da come è stata scritta l’ultima delibera sulla riapertura delle Rsa, che non hanno ancora ricevuto nulla per aver aperto le porte ai pazienti Covid: cornuti e mazziati. La Regione Lombardia è sorda ma siamo pronti ad alzare la voce”.
Quanto all’effettivo numero dei morti, restano i dati dello Spi-Cgil, che ha fatto una indagine sul territorio regionale: cinquemila. “Un tasso di mortalità superiore del 400 per cento a quello degli anni precedenti”, dice il segretario regionale del sindacato, Valerio Zanolla.
Aria SpA: 344 appalti Covid E si dimette il dg (indagato). - Andrea Sparaciari
Nuovo colpo di scena ieri nella vicenda “Camici regalati” dalla Dama spa: il direttore generale di Aria spa, la centrale acquisti della Regione Lombardia, Filippo Bongiovanni, ha rassegnato le proprie dimissioni. Si tratta di uno dei due indagati, insieme con il cognato del presidente Attilio Fontana, Andrea Dini, amministratore della Dama: finiti nel fascicolo della procura di Milano nell’indagine per turbata scelta del contraente per l’affidamento da 513mila euro concesso alla società dei familiari di Fontana.
Secondo il Pirellone Bongiovanni avrebbe chiesto di essere assegnato ad un altro incarico. Fonti vicine a Bongiovanni confermano che si tratta di vere e proprie dimissioni, sebbene tecnicamente si tratti di “richiesta di altro incarico”. Le stesse fonti poi ribadiscono il massimo rispetto per il lavoro degli inquirenti da parte dell’ex direttore, che attende con fiducia di chiarire i fatti.
E l’avvocato ed ex finanziere, fino a poche ore fa a capo dell’ente regionale finito nella bufera non solo per i camici, ma anche per le mascherine Fippi, probabilmente sarà una preziosa fonte di informazione per i magistrati.
Ed è chiaro che il suo addio – non del tutto inaspettato, visti i mai celati attriti col presidente di Aria, il forzista Francesco Ferri – lascia presagire nuovi sviluppi in una vicenda che si sta rivelando sempre più imbarazzante per il governatore lombardo. Nonostante il rifiuto di Fontana di presentarsi in Consiglio regionale per spiegare, l’inchiesta sta proseguendo spedita su tre filoni: la mancata sottoscrizione del patto di integrità (con la relativa dichiarazione di conflitto di interessi); il presunto “ruolo attivo” del governatore (che non è indagato), il quale si sarebbe adoperato per trasformare la vendita dei camici in donazione, dopo l’intervista a Report su Rai3; il mancato perfezionamento della fornitura – a quel punto “regalata” – con 2 mila camici mancanti.
Ma Bongiovanni, da dg di Aria, ha seguito anche molti degli acquisti effettuati dalla controllata regionale durante l’intera crisi Covid. Un oceano di affidamenti diretti, fatti in emergenza, rimasto a lungo oscuro, visto anche il continuo rifiuto dei vertici di Aria di riferire in commissione bilancio sulla propria attività. Ma il Fatto Quotidiano ha avuto la possibilità di consultare in esclusiva il rendiconto generale dei contratti stipulati da Aria tra il 23 febbraio e il 18 giugno. Si tratta di 344 appalti in totale, che vanno dalle mascherine, ai camici, dai test, ai tamponi, passando per le visiere. Una gigantesca lista della spesa dal valore di centinaia di milioni di euro.
Tra i fornitori, i grandi di Big Pharma, come Roche (16 affidamenti tra il 30 marzo e il 2 giugno per complessivi 2.746.233 euro), Arrow (16 affidamenti per 3.212.719 euro), Diasorin (quattro affidamenti, per complessivi 2.486.000), a sconosciuti che si accontentano di poche centinaia di euro, come Farmac-Zabban spa che per 40 mila cuffie copricapo fattura 1.152 euro. Nell’elenco degli acquisti della centrale lombarda figura anche il colosso multinazionale Amazon: sulla piattaforma, infatti, Aria spa diretta da Bongiovanni acquista altri camici, guanti, cuffie e mascherine per 795.647 euro.
Sala vuole gabbie salariali. “Qui la vita è troppo cara”. - Lorenzo Giarelli
Secondo il sindaco di Milano è sbagliato che a parità di ruolo in Calabria si guadagni quanto in Lombardia. Critiche da FdI e 5S, Provenzano si dissocia.
Un dipendente della pubblica amministrazione a Milano dovrebbe guadagnare di più rispetto a un pari ruolo che lavora a Reggio Calabria. La ricetta viene da Beppe Sala, sindaco di Milano che un paio di giorni fa – ma la polemica politica è tutta di ieri – è stato intervistato in diretta Facebook sulla pagina di InOltre – Alternativa progressista, gestita da un gruppo di giovani vicini al Partito democratico.
Parlando delle difficoltà e dello sfruttamento dei ragazzi nella sua città, Sala ha quindi citato l’elevato costo della vita milanese, proponendo poi la sua soluzione: “Io capisco che sia un discorso difficile da fare, ma è chiaro che se un dipendente pubblico, a parità di ruolo, guadagna gli stessi soldi a Milano e a Reggio Calabria, è intrinsecamente sbagliato, perché il costo della vita in quelle due realtà è diverso”.
Una visione che ricorda quella che nel Dopoguerra portò alle gabbie salariali, il sistema che ancorava gli stipendi al costo della vita di una certa area geografica. Rimaste in vigore per una ventina d’anni (non sempre a pieno regime), in Italia le gabbie salariali furono abolite tra gli anni 60 e 70 perché ritenute discriminanti nei confronti di chi lavorava in una città rispetto ad un’altra. Solo la Lega Nord di Umberto Bossi e qualche leader di Confindustria proposero di riesumarle.
Ora Sala sembra invece riproporre proprio quella scuola di pensiero: “Adesso o mai più. Quello che non possiamo fare è immaginare di tornare allo status quo precedente al coronavirus il più in fretta possibile. Bisogna approfittare di questa situazione per cambiare un po’ le regole del gioco”.
Inevitabile, però, che l’uscita di Sala prestasse il fianco a facili attacchi politici. Dall’opposizione la calabrese Wanda Ferro, deputata di Fratelli d’Italia, ne fa una questione di appiattimento nei confronti dei poteri forti: “Non ci meraviglia che da sinistra vengano proposte ricette economiche che coincidono con quelle che la grande finanza internazionale cerca di imporre all’Italia”. E ancora: “Il sindaco Sala racconti a un lavoratore calabrese che si trova davanti alla necessità di farsi curare fuori Regione, o che deve accudire un familiare in disabilità, che merita di avere uno stipendio più basso perché vive dove la vita costa meno”.
Dal governo invece è il ministro per il Sud Peppe Provenzano a bocciare Sala: “Si tratta di una discussione arcaica. Come facciamo a valutare la produttività di un lavoratore di Scampia, oppure di un quartiere di Palermo senza servizi? Questo lavoratore dovrebbe essere pagato il doppio per la socialità del suo lavoro”.
Stessa linea del ministro degli Affari europei Enzo Amendola: “Non voglio polemizzare con Sala, ma il problema non è quello delle gabbie salariali. La proposta non è una scelta condivisa né dai partiti né dai sindacati”. E in effetti nessuno segue il sindaco. Né dal Pd né, tantomeno, dai 5 Stelle, da cui semmai si utilizzano toni ancor più decisi: “Le ultime affermazioni di Sala sono a dir poco allucinanti – scrive la deputata calabrese Federica Dieni – Per il sindaco di Milano dovrebbero esistere due Italia, in ognuna delle quali il lavoro dovrebbe avere un certo grado di dignità, alto al Nord e basso al Sud. È inaccettabile che, nel 2020 si parli ancora di gabbie salariali, dietro cui si nasconde il solito complesso di superiorità della parte più sviluppata del nostro Paese”.
Peraltro Sala non è nuovo a controversie del genere. Un paio d’anni fa polemizzò con l’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio e la sua proposta di chiudere i centri commerciali la domenica: “Chiudano ad Avellino, a Milano non ci rompano le palle”. Parole a cui Di Maio replicò definendolo “sindaco fighetto” per cui “i diritti della persona sono una rottura di palle”.
A fine giugno, invece, durante un’altra diretta social Sala aveva snobbato il tele-lavoro, riconducendolo a poco più che una ricreazione ed esortando le aziende a far rientrare in ufficio i dipendenti dopo l’emergenza coronavirus: “Adesso basta con lo smart working, è ora di uscire dall’effetto grotta e tornare a lavorare”.
La vita sarà anche più cara al nord, ma solo marginalmente, genericamente.
Vogliamo valutare, invece, ciò che paghiamo noi del sud in termini di sanità, trasporti, viabilità?
I parametri si fanno su tutto, non ci si sofferma al banale.
Vogliamo valutare, invece, ciò che paghiamo noi del sud in termini di sanità, trasporti, viabilità?
I parametri si fanno su tutto, non ci si sofferma al banale.
Ripariametriamo il tutto, livelliamo le differenze, ristabiliamo l'uguaglianza, così come sancito dalla Costituzione!
cetta
La vita agra dei rampolli delle ’ndrine in Lombardia. - Gudo Visconti
La nebbia sale dall’acqua del Naviglio, rimonta oltre la strada provinciale verso i campi che un tempo furono del ducato della famiglia Visconti. Tra Milano e Pavia, mondo sospeso oltre il caos della metropoli. Eccolo il nuovo santuario delle cosche. Campi, marcite, cascine abbandonate, piccoli comuni, tre strade, un bar: il Jolly di Calvignasco. Ci passano camionisti e agricoltori, qualche agente di commercio.
È il 14 dicembre del 2018. Luigi Virgara, giovane calabrese di Platì affiliato alla ’ndrangheta con dote di “picciotto” oggi è felice. “Auguri!” dice al telefono appena fuori dal bar. “Ti giuro su Dio sto morendo per la contentezza. Ora si gioca in casa, berrò due bicchieri di vino per te!”. Poi attacca e ridigita un altro numero. “Mi ha chiamato u Sceiccu”. “Ti chiamò? E che ti disse?”, risponde una voce dal chiaro accento dell’Aspromonte. “Lo hanno fatto uscire, ci fu un errore, abbiamo gioito”. Poche ore dopo, i due sono a bordo di una utilitaria bianca. Sul sedile di dietro alcune bottiglie prese al bar Jolly. Da Calvignasco guidano piano verso Gudo Visconti, ancora poche case, le solite tre strade, un sindaco e un assessore. U Sceiccu vive qui. Scarcerato il giorno prima, ora sta ai domiciliari. Virgara e Pasqualino Barbaro, incensurato e fratello minore di Saverio, secondo la Procura trafficante di cocaina affiliato alla mafia di Platì, stanno andando da lui per festeggiare. Già, perché lo Sceicco è il 39enne Domenico Marando, così descritto dal collaboratore di giustizia Domenico Agresta, alias Micu McDonald: “È il picciotto di Micu Murruni ed è affiliato alla ‘ndrina di Platì”. In galera ci era finito per una tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso. U Sceiccu ha diversi fratelli. Uno di loro vive a Calvignasco, un altro, Giuseppe, detto u Parpigliuni viene descritto nelle carte come “affiliato”. E vive sempre a Gudo Visconti. Qualche via più su, hanno domicilio gli Zappia, altro nome noto da inserire negli organigrammi delle cosche della Montagna. Tutte bandierine sulla nuova mappa della ‘ndrangheta di Platì in Lombardia.
La Platì del Nord non è più Buccinasco
Alcuni comuni storici come Buccinasco, definito negli anni Novanta la Platì del nord, si sono svuotati. “Qui – suggerisce la definizione un investigatore esperto – è rimasta solo la sede legale della Mafia spa”. Già perché quella operativa ora sta qua, tra Calvignasco e Gudo Visconti, tra Bubbiano, Casorate Primo, Vermezzo, Zelo Surrigone. Un agro-mafioso al confine con la provincia di Pavia, dove gli spazi da controllare sono vasti e i numeri delle forze dell’ordine molto piccoli. Dove comuni da meno di mille abitanti si trasformano in fortini inaccessibili, circondati solo da campi, cascine, capannoni. Luoghi ideali per summit e trattative. Il tutto in mano ai nuovi eredi della cosca Barbaro-Papalia.
Una rete inedita messa insieme dalla piccola squadra investigativa dei carabinieri di Corsico, guidata dal capitano Pasquale Puca e dal tenente Armando Laviola. Una compagnia al confine, composta da sentinelle in terra di mafia. Sono loro i convitati di pietra durante gli incontri di Luigi Virgara salito a Milano due anni fa con il compito di riannodare la rete delle cosche di Platì dietro la copertura di bidello, in un istituto scolastico di Buccinasco intitolato a don Pino Puglisi, il prete di Brancaccio ucciso da Cosa nostra. Tutto finisce nell’inchiesta “Quadrato bis” coordinata dal procuratore aggiunto Alessandra Dolci ed eseguita pochi giorni fa con 17 arresti. Ma più che la droga sono i contatti. I carabinieri e l’antimafia ripartono da questi. E così ecco Virgara di nuovo a Gudo Visconti, in via XX settembre: stradina a fondo chiuso, casette a due piani in mattoni rossi, il giusto silenzio.
“Qui – scrivono i magistrati – risultano risiedere parecchi soggetti calabresi con legami diretti con esponenti di vertice della ’ndrangheta platiota”. È impossibile arrivarci senza essere notati. I carabinieri piazzano una microtelecamera e fanno bingo. Virgara – e non solo lui – da lì passa spesso. Solita utilitaria bianca, si ferma davanti al civico 43 e incontra Domenico Papalia, alias Micu u Bruttu, nessuna condanna per mafia, ma, secondo gli investigatori, contatti importanti con vecchi e nuovi boss. Braccio operativo, sostengono i carabinieri, degli eredi di Micu Barbaro detto l’Australiano, deceduto nel 2016, con rapporti diretti, a leggere le carte, con il boss di Platì Rocco Papalia oggi tornato nella sua casa di Buccinasco, dopo anni di carcere.
Del resto, qui abita Rosario Barbaro con la moglie, qui si è trasferita Serafina Papalia, consorte di Salvatore Barbaro, altro figlio dell’Australiano, oggi in carcere per mafia dopo una breve latitanza. Qui ha abitato Antonio Barbaro, nipote del padrino di Platì Beppe Barbaro u Nigru, e già titolare di un negozio di frutta e verdura nel comune di Gaggiano, non distante da Gudo.
Quattro mesi di indagini. E una Tlc nella nebbia.
Immortalata per quattro mesi da una telecamera, quindi, la via della ’ndrangheta, con la sua vita e i suoi incontri. Dopodiché una soffiata indica a Papalia il luogo in cui è installata la telecamera. Un po’ di vernice e lo schermo si fa nero.
Eppure in quei 120 giorni, molto emerge e si chiarisce. In particolare la rete di relazioni e nuove figure come quella di Francesco Romeo detto u Pettinaru, anche lui residente a Gudo e un fratello, Pasquale, in contatto, secondo il pentito Agresta, con Giuseppe Molluso definito “una vera macchina da guerra per la cocaina”.
Ora Molluso abita a Bubbiano, a qualche chilometro da Gudo. Molluso viene definito dagli investigatori “soggetto di elevatissimo rilievo investigativo”. E se lui sta a Bubbiano, suo zio Francesco, dopo una galera trentennale per droga e sequestri di persona condivisi con i compari di Platì, ha il suo buen ritiro pochi chilometri dopo, a Zelo Surrigone che, assieme ai Gudo e a Calvignasco, costituisce un altro punto in questa nuova linea di confine.
L’agro-mafioso: l’ultimo tassello.
E arriviamo all’ultimo paese di questo inedito agro-mafioso lombardo. Si tratta di Casorate Primo. Qui vive il boss Saverio Agresta, uno degli ultimi vecchi platioti ancora attivi, secondo la procura di Milano.
Agresta oltre a essere il suocero di Molluso, frequenta abitualmente un bar assieme ad altri personaggi legati, leggendo le carte, al mondo criminale. Un perfetto ufficio dove pianificare affari: i compari lo chiamano “il praticello”. Agresta senior è poi il padre del pentito Micu McDonald che con le sue dichiarazioni ha rimesso in ordine i tasselli di questo nuovo santuario mafioso, dove tutto si tiene, rapporti e interessi.
“Sto bastardazzo di merda ha voluto rovinarci, lo ammazzo”.
Così disse il padre.
Una vita da Caimano/3. - Marco Travaglio
Per chi ha dimenticato, anzi vuole dimenticare, prosegue il nostro viaggio nella galleria degli orrori del berlusconismo.
2001-2006. Il 13 maggio 2001 B. stravince le elezioni alla guida della Casa delle Libertà (61 collegi su 61 in Sicilia). Il suo secondo governo durerà cinque anni. Un lungo rosario di leggi ad personam processuali e aziendali (29, in aggiunta alle 4 del primo governo), controriforme devastanti (dalla scuola all’università, dalla sanità alle grandi opere, sfascio della Costituzione con la “devolution” (poi bocciata nel referendum dagli elettori), condoni fiscali ed edilizi, politiche finanziarie e sociali scriteriate, favori alle mafie, guerra ai magistrati, ai giornalisti e agli artisti scomodi (l’“editto” bulgaro contro Biagi, Santoro e Luttazzi, subito radiati dalla Rai), leggi contro la scienza (la n. 40 sulla fecondazione assistita), scontri con l’Europa, figuracce internazionali come l’insulto “kapò nazista” al vicepresidente Ue Martin Schulz, commissioni parlamentari per calunniare con falsi testimoni i leader dell’opposizione e perfino il presidente Ciampi (Telekom Serbia e Mitrokhin), dossieraggi illegali del Sismi e della collegata Security Telecom contro gli avversari, guerre in Afghanistan e in Iraq, rendition targate Cia come il sequestro a Milano dell’imam Abu Omar, mano libera ai poliziotti violenti (al G8 di Genova nel 2001). Dulcis in fundo, a fine legislatura (dicembre 2005): B. cambia la legge elettorale a colpi di maggioranza e vara il Porcellum (poi dichiarato incostituzionale dalla Consulta), che danneggia l’Unione, favoritissima nei sondaggi, e gli garantisce almeno il pareggio.
2001-2006. Il 13 maggio 2001 B. stravince le elezioni alla guida della Casa delle Libertà (61 collegi su 61 in Sicilia). Il suo secondo governo durerà cinque anni. Un lungo rosario di leggi ad personam processuali e aziendali (29, in aggiunta alle 4 del primo governo), controriforme devastanti (dalla scuola all’università, dalla sanità alle grandi opere, sfascio della Costituzione con la “devolution” (poi bocciata nel referendum dagli elettori), condoni fiscali ed edilizi, politiche finanziarie e sociali scriteriate, favori alle mafie, guerra ai magistrati, ai giornalisti e agli artisti scomodi (l’“editto” bulgaro contro Biagi, Santoro e Luttazzi, subito radiati dalla Rai), leggi contro la scienza (la n. 40 sulla fecondazione assistita), scontri con l’Europa, figuracce internazionali come l’insulto “kapò nazista” al vicepresidente Ue Martin Schulz, commissioni parlamentari per calunniare con falsi testimoni i leader dell’opposizione e perfino il presidente Ciampi (Telekom Serbia e Mitrokhin), dossieraggi illegali del Sismi e della collegata Security Telecom contro gli avversari, guerre in Afghanistan e in Iraq, rendition targate Cia come il sequestro a Milano dell’imam Abu Omar, mano libera ai poliziotti violenti (al G8 di Genova nel 2001). Dulcis in fundo, a fine legislatura (dicembre 2005): B. cambia la legge elettorale a colpi di maggioranza e vara il Porcellum (poi dichiarato incostituzionale dalla Consulta), che danneggia l’Unione, favoritissima nei sondaggi, e gli garantisce almeno il pareggio.
2006-2008. Il 2006, a tre mesi dal voto, si apre con la pubblicazione sul Giornale della telefonata segreta di Fassino a Consorte sulla scalata Unipol-Bnl (“Allora siamo padroni di una banca?”), trafugata da un amico di Paolo B., portata in dono a Silvio e approdata sul quotidiano di famiglia. Il 10 aprile l’Unione vince di un soffio, mentre B. grida ai brogli. Il Prodi2 si regge al Senato su un pugno di seggi. E non gode dei favori del neopresidente Giorgio Napolitano, grande fautore delle larghe intese, né di Walter Veltroni, che terrorizza gli alleati minori col suo Pd autosufficiente a “vocazione maggioritaria”. B. corrompe subito, con 3 milioni di euro (di cui 2 in nero, cash) il senatore Idv Sergio De Gregorio, che passa da sinistra a destra. Tentativi analoghi compirà con altri senatori di maggioranza per rovesciare il governo. Intanto l’Unione lo salva un’altra volta dall’ineleggibilità (in barba alla legge 361/1957 col solito trucco di dichiarare ineleggibile Confalonieri al posto suo).
E regala a lui, a Previti e a decine di migliaia di criminali un indulto di 3 anni. Così Previti – appena condannato a 7 anni e mezzo per corruzione giudiziaria e cacciato dal Parlamento – si risparmia pure il fastidio dei domiciliari e B. intasca un bonus di impunità triennale da spendere alla prima occasione. Prodi cade il 24 gennaio 2008 per mano del ministro della Giustizia Clemente Mastella, indagato a S. Maria Capua Vetere con la moglie e mezza Udeur, subito arruolato da B. (che lo ricambierà con un seggio al Parlamento europeo).
2008-2013. Il 3 aprile 2008 il Popolo delle Libertà sbaraglia il Pd di Veltroni, che predica il dialogo con B. e non osa neppure nominarlo (“il principale esponente dello schieramento avverso”). B. sale per la terza volta a Palazzo Chigi con la sua maggioranza più̀ schiacciante e un carico di processi da record mondiale. E riparte con le leggi ad personam (altre 8, in aggiunta alle 4 del primo governo e alle 29 del secondo: totale 41), ad aziendam e ad mafiam, l’occupazione militare della Rai, i bavagli alla stampa, la guerra alle toghe, i conflitti d’interessi, l’oscurantismo bigotto (vedi il decreto, bloccato da Napolitano, per impedire una fine dignitosa a Eluana Englaro), le figuracce mondiali, gli scandali suoi e dei compari, l’illegalità elevata a sistema.
Il 25 aprile 2009 si presenta a Onna, nell’Abruzzo terremotato, travestito da partigiano, col fazzoletto al collo, per celebrare la sua prima Liberazione. Ovazioni da destra a sinistra. Poi sposta a L’Aquila il G8 già previsto a La Maddalena con svariati miliardi buttati, e si autocelebra coi grandi del mondo, Obama in testa, passeggiando sulle macerie del sisma. Tutto fa pensare a una legislatura trionfale. Ma a fine aprile Veronica Lario denuncia lo scandalo di una ventina di “veline” nelle liste europee di FI (“ciarpame senza pudore”). E si scopre che il premier ha festeggiato in quel di Casoria (Napoli) il 18° compleanno di Noemi Letizia, una ragazza che lo chiama “Papi” e lo frequenta da quando aveva 14 anni. Veronica annuncia il divorzio: “Mio marito è malato, non posso stare con un uomo che frequenta minorenni”. A giugno parte un’inchiesta a Bari sulle escort Patrizia D’Addario&C. portate a Palazzo Grazioli dal pappone Gianpi Tarantini, pagato dal premier. Santoro, rientrato in Rai per ordine del Tribunale di Roma, intervista la D’Addario e si occupa della trattativa Stato-mafia: B. ordina in gran segreto alle sue quinte colonne in Rai e Agcom di trovare il modo di “chiudere tutto” (Annozero e i pochi programmi che ancora lo infastidiscono).
Nel 2010 il presidente della Camera Gianfranco Fini contesta la legge-bavaglio Alfano contro le intercettazioni. E viene subito linciato dagli house organ di B. per un alloggio a Montecarlo acquistato a prezzi di favore dal cognato Giancarlo Tulliani dal patrimonio di An. Fini fonda Futuro e Libertà, che a novembre si associa alle mozioni di sfiducia delle opposizioni. Ma Napolitano rinvia il voto a dopo la finanziaria, dando a B. il tempo di reclutare una trentina di deputati di centrosinistra per rimpiazzare i finiani e salvarsi in extremis.
Nel gennaio 2011 la Procura di Milano lo indaga per la prostituzione minorile di Karima El Mahrough in arte Ruby e per la concussione ai danni di un funzionario della Questura, a cui il premier telefonò nel maggio 2010 per far rilasciare la minorenne dopo un fermo per furto, spacciandola per nipote di Mubarak. Dagli atti escono fiumi di intercettazioni a luci rosse con e fra le escort in fila per i “bunga bunga” nella villa di Arcore. Camera e Senato, con 315 e 170 voti di maggioranza, si coprono di ridicolo e vergogna sollevando un conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato dinanzi alla Consulta contro il Tribunale di Milano, sostenendo che B. agì nell’esercizio delle funzioni di capo del governo per evitare un incidente diplomatico con l’Egitto di Mubarak, noto “zio” di Ruby. In estate le Borse crollano, lo spread sfonda quota 700, gli speculatori scommettono contro l’Italia e il governo, spaccato e inerte, viene commissariato via lettera dalla Bce. Nel centrodestra è il fuggifuggi generale. L’8 novembre, sul rendiconto dello Stato, il governo va sei voti sotto la quota minima di maggioranza. Bossi invita B. a “farsi di lato”, lui però annuncia che resisterà. Ma il crollo in Borsa anche delle aziende di famiglia induce la figlia Marina, Fedele Confalonieri ed Ennio Doris a suggerirgli di mollare e pensare alla “roba”. Il 12 novembre B. sale al Colle per dimettersi, fra due ali di folla che festeggiano e lo insultano. E lascia il Quirinale da un’uscita secondaria. Il successore è Mario Monti, a capo di un governissimo tecnico sostenuto da tutti i partiti, eccetto la Lega Nord e l’Idv. B. sembra finito e forse lo crede anche lui. Infatti il 24 ottobre 2012 annuncia il ritiro e lancia Alfano alle primarie per il nuovo leader Pdl. Che non si terranno mai. Il capo resta B., che cambia idea e si ricandida, stavolta al Senato.
2013. Alle elezioni del 24-25 febbraio il Pdl perde 6,5 milioni di voti. Il Pd, dissanguato dalle politiche antisociali di Monti, ne lascia per strada 3,5 milioni e arriva primo a pari merito col M5S (passato da zero al 25,5%). Il partito di Bersani incassa il premio di maggioranza del Porcellum solo grazie all’alleanza con Sel, ma non ha i numeri per governare. È quel che sperava Napolitano, che rivuole le larghe intese appena bocciate dagli elettori per tagliare fuori i vincitori 5Stelle, anche a costo di ricandidarsi al Quirinale. Il 17 aprile Bersani incontra B. a casa di Enrico Letta per concordare un candidato comune al Colle: Franco Marini. Tutto per sbarrare la strada a Stefano Rodotà sostenuto da M5S e Sel. Ma sia Marini sia Prodi vengono impallinati dai franchi tiratori Pd. Così il 20 aprile tutto è pronto per la rielezione di Napolitano (primo caso nella storia repubblicana). Che ringrazia B.: “Silvio ha parlato da statista”. E il Caimano ricambia cantando a Montecitorio “Meno male che Giorgio c’è”. Il Pd gli fa pure scegliere il nuovo premier: Enrico Letta, nipote del fido Gianni. Poi respinge la richiesta del M5S di applicare finalmente la legge 361/1957 e dichiararlo ineleggibile. E resta alleato di B. anche dopo le nuove condanne: in primo grado a 7 anni per prostituzione minorile e concussione (Ruby); e in appello a 4 anni per frode fiscale (Mediaset). In nove mesi di vita, il governo Letta fa una sola cosa degna di nota: il rinvio di un anno della rata dell’Imu per tutti i proprietari di prime case, inclusi i ricchissimi magnati con ville e castelli (primo punto del programma elettorale di B.). Per il resto rimane paralizzato dai veti incrociati Pd-Pdl.
Il 1° agosto 2013 il Cavaliere è condannato definitivamente in Cassazione per frode fiscale sui diritti Mediaset: 4 anni di carcere (di cui 3 coperti da indulto) e 2 di interdizione dai pubblici uffici (che lo rendono ineleggibile e lo privano anche del diritto di voto). Lui fa il diavolo a quattro contro i giudici, tenta di ricattare il Quirinale minacciando di rovesciare il governo per avere la grazia. Napolitano gliela fa balenare attraverso il ministro dell’Interno Alfano, ma solo in cambio delle sue dimissioni da senatore. Che lui ovviamente non dà. Così il 27 novembre viene espulso dal Senato per la legge Severino. Ed esce dalla maggioranza, abbandonato però dai suoi ministri Alfano, Lorenzin, Lupi, De Girolamo, che fondano il Nuovo Centro Destra per restare imbullonati alle poltrone. Stavolta pare davvero finito, ma mai dire mai.
(3 – continua)
sabato 11 luglio 2020
Pedopornografia, scoperta chat “degli orrori” con 20 minori che si scambiavano immagini hard e foto di suicidi e mutilazioni.
La polizia postale di Lucca ha ritrovato negli smartphone dei ragazzi filmati hard con giovani vittime, suicidi, mutilazioni, squartamenti e decapitazioni di persone, in qualche caso di animali . Il più grande all'interno della chat ha 17 anni, sette sono 13enni. L'inchiesta nata dalla denuncia di una madre.
Venti minori si scambiavano immagini “di orribili violenze e con contenuti di alta crudeltà” in una chat, scoperta dalla polizia postale. I ragazzi che partecipavano al gruppo Whatsapp, che gli investigatori definiscono “degli orrori”, erano tutti di età compresa tra i 13 e i 17 anni. L’inchiesta, coordinata dalla procura dei minori di Firenze guidata da Antonio Sangermano, è nata dalla denuncia a Lucca di una madre che aveva scoperto sul cellulare del figlio 15enne filmati hard con anche bimbi. Sul telefono trovati poi file provenienti anche dal dark web con video di suicidi e di mutilazioni e decapitazioni di persone e animali.
Le ipotesi di reato per le quali si procede, in concorso, sono detenzione, divulgazione e cessione di materiale pedopornografico, detenzione di materiale e istigazione a delinquere aggravata. Come spiegano gli investigatori in una nota, dall’analisi del telefonino del quindicenne, la cui madre aveva chiesto aiuto alla polizia postale lucchese, “è emerso un numero esorbitante di filmati e immagini pedopornografiche, anche sotto forma di stickers, scambiate e cedute dal giovane, rivelatosi l’organizzatore e promotore dell’attività criminosa insieme ad altri minori”, attraverso Whatsapp, Telegram e altre applicazioni di messaggistica istantanea e social network. Sul telefono del ragazzo, aggiunge la polizia postale, erano inoltre presenti “numerosi file ‘gore’, la nuova frontiera della divulgazione illegale, video e immagini provenienti dal dark web raffiguranti suicidi, mutilazioni, squartamenti e decapitazioni di persone, in qualche caso di animali”.
Dopo oltre cinque mesi d’indagine i poliziotti hanno identificato le persone che a vario titolo avrebbero detenuto o o scambiato immagini e video pedopornografici: tutti minori, tra cui 7 tredicenni. Sono poi scattate le perquisizioni, eseguite dalla polizia postale – e coordinate dal Centro nazionale contrasto alla pedopornografia online – nei confronti di minori residenti a Lucca, Pisa, Cesena, Ferrara, Reggio Emilia, Ancona, Napoli, Milano, Pavia, Varese, Lecce, Roma, Potenza e Vicenza. Dai telefonini e computer sequestrati sarebbero emersi “elementi di riscontro inconfutabili”. Le indagini proseguono anche per verificare il coinvolgimento di eventuali altre persone.
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