Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
venerdì 31 luglio 2020
Il Protocazzaro. - Marco Travaglio
E niente, non si riesce a stargli dietro. Questo Fontana è un’iradiddio: spara più balle delle macchinette automatiche lanciapalle con cui si allenano i tennisti. Di questo passo il record del Cazzaro è in serio pericolo. Riavvolgiamo il nastro.
A mia insaputa. “Non sapevo nulla della procedura e non sono intervenuto in alcun modo” (8.6). Falso. Il suo assessore Raffaele Cattaneo dichiara a verbale di aver informato Fontana della fornitura di 75mila camici per 513mila euro affidata dalla regionale Aria Spa alla Dama Spa (l’azienda di suo cognato e di sua moglie, Andrea e Roberta Dini) fin da subito, cioè dal 16 aprile. E lui intervenne per trasformare il contratto oneroso in donazione solo il 20maggio, quando Report aveva scoperto tutto.
Date ballerine. “Solo il 12 maggio sono stato informato che la fornitura di camici da Dama era a titolo oneroso” (in Consiglio Regionale, 27.7). Falso: oltre alla smentita del suo assessore, c’è quella dell’ex ad di Aria Spa, Filippo Bongiovanni: “Comunicai la fornitura di Dama alla segreteria di Fontana il 10 maggio”.
Donazione lucrosa. “Quando è saltata fuori questa storia e ho visto che mio cognato faceva questa donazione, ho voluto partecipare anch’io. Fare anch’io una donazione” (La Stampa, 26.7). “Ho voluto alleviare l’onere dell’operazione, partecipando personalmente alla copertura di parte del mancato introito. È stata una decisione spontanea. Col mio legame avevo solo arrecato svantaggio a un’azienda legata alla mia famiglia” (in Consiglio Regionale, 27.7). Ma era il cognato che voleva fare la donazione o è lui che gliel’ha imposto e poi ha tentato di risarcirlo con i 250mila euro che voleva bonificare dal suo conto svizzero, ma furono bloccati per sospetto riciclaggio? E che senso ha risarcire qualcuno per i mancati introiti di una donazione, per definizione gratuita e senza introiti? Che cos’era, beneficenza a pagamento?
Regione indenne. “Regione Lombardia non ha speso un euro per la fornitura dei camici” (in Consiglio Regionale, 27.7). Sì, ma non grazie a lui che avallò la fornitura da 513mila euro: grazie a Report che scoprì lo scandalo e al Fatto che lo raccontò in anteprima, inducendo tutti alla precipitosa retromarcia. In ogni caso la Regione ha subìto un bel danno: ha firmato un contratto per 75mila camici, ma la ditta dei congiunti di Fontana ne ha consegnati solo 49mila. Gli altri 26mila Dini, quando seppe che non ci avrebbe più guadagnato, li tenne per sé e tentò di venderli a prezzo maggiorato a una clinica di Varese: la Gdf li ha trovati e sequestrati ieri perquisendo l’azienda come corpo del reato di frode in pubblica fornitura.
Già, perché il contratto Aria-Dama resta valido: la Regione non l’ha mai tramutato in donazione, dunque Dama è inadempiente.
Camici utilissimi. “In quel frangente avremmo acquistato camici e mascherine da chiunque, mi creda” (al Foglio, 29.7). Purtroppo lo smentisce Bongiovanni: “Quei camici alla Regione non servivano più”.
Nassau vende moda. “Escludo che mia madre sia mai stata alle Bahamas, non ho idea di come sia venuta fuori questa storia. A quanto ne so quei soldi sono sempre rimasti a Lugano… I risparmi di una vita dei miei genitori” (ibidem, 29.7). “Quello all’estero era un conto che avevano i miei genitori, una cosa purtroppo di moda a quei tempi” (a Repubblica, 28.7). Infatti dal Varesotto partivano ogni giorno voli charter per le Bahamas, il famoso ponte aereo Varese-Nassau, dove le dentiste (come mamma Fontana, la più cara del mondo) e gli impiegati alla mutua (come babbo Fontana, il più pagato del mondo) portavano i risparmi: nel caso di specie, 5,3 milioni. Peccato non aver saputo di quella simpatica moda, sennò ne avremmo approfittato tutti.
Macché evasori. “Evasione fiscale? Ma che dice? I miei hanno sempre pagato tutte le tasse, mia madre era super fifona, figurarsi evadere… Non so davvero dirle perché portassero fuori i loro risparmi” (ibidem). E perché Fontana, avvocato dal 1980, vice-pretore onorario (cioè magistrato) dal 1983, politico della Lega Nord dal 1990, non gliel’ha mai domandato? Secondo lui, perché mai una coppia di italiani, se vuol pagare le tasse, nasconde i soldi su due trust alle Bahamas? Per esotismo? Se i soldi fossero stati legalmente esportati pagando le tasse, che bisogno c’era dello schermo dei due trust a Nassau? E perché Fontana, dopo averli ereditati, redasse la voluntary disclosure con la legge del 2014 per rimpatriare i capitali illecitamente esportati? E perché, se li fece rientrare in Italia, li lasciò su un conto all’Ubs di Lugano?
Conto dormiente. “Comunque era un conto non operativo da almeno la metà degli anni 80” (ibidem). Balla pure questa: quel conto, fra il 2009 e il 2013 (quando sua madre aveva 86-90 anni e lui ne era contitolare e beneficiario), movimentò centinaia di migliaia di euro. Faceva tutto la vecchina o vi operava pure lui nel sonno?
Tutto dichiarato. “Quel conto è dichiarato, pubblico, trasparente, riportato nella mia dichiarazione patrimoniale sui siti regionali fin dal primo giorno del mio mandato” (ibidem). Peccato che nel 2017 l’Anac abbia multato Fontana per aver omesso nel 2016 la dichiarazione patrimoniale obbligatoria dei 5,3 milioni scudati in Svizzera nel 2015. A risentirci alla prossima balla.
Almirante-Berlinguer: la provocazione politica va in Piazza. - Antonio Padellaro
Un anno fa, nel libro Il Gesto di Almirante e Berlinguer (PaperFirst) proponevo di dedicare una piazza alla battaglia comune condotta contro il terrorismo degli anni di piombo da due personaggi diversissimi e che militavano su fronti contrapposti, ostili. Due “nemici” che, come documentato da testimonianze dirette (quella di Massimo Magliaro, all’epoca dei fatti portavoce del segretario missino) decisero di incontrarsi più volte in segreto, tra il 1978 e il 1979, in una stanza di Palazzo Montecitorio, per condividere informazioni, e forse anche una condotta comune. Mentre un duplice nemico mortale – le Br e lo stragismo fascista – stava minacciando le basi stesse della democrazia repubblicana.
Che dire allora della mozione approvata dal consiglio comunale di Terracina di intitolare una piazza ad Almirante e Berlinguer? Quando pure fosse ispirata a un apprezzabile tentativo di pacificazione retrospettiva, appare tuttavia come un atto improvvisato che ha il difetto di fornire, nell’accostamento tra il fascista repubblichino e lo storico leader del Pci, una motivazione troppo generica. E dunque facilmente sospettabile di essere usata per finalità politiche di stampo locale.
Nella mia proposta invece l’accento era sul “gesto”, finalizzato a quel bene comune chiamato interesse nazionale in un momento tragico della nostra storia.
Si dice che quando la casa brucia non conta di che colore è la divisa dei pompieri: infatti, riportando alla luce quella antica vicenda volevo dimostrare che quel “gesto” – senza mettere minimamente sullo stesso piano fascisti e antifascisti, carnefici e vittime, valori e disvalori – testimoniava un modo nobile di intendere la politica di cui oggi, nell’era dell’insulto mediatico, non rimane più traccia.
A chi da sinistra parla di “indegno accostamento” vorrei ricordare che nel giorno dei funerali di Enrico Berlinguer la presenza di Giorgio Almirante alle Botteghe Oscure, il suo sostare in raccoglimento davanti alla salma del “nemico” non suscitò alcuno sdegno nel popolo rosso e ancora oggi viene ricordata come una manifestazione di rispetto e anche di coraggio. Omaggio ricambiato qualche anno dopo quando furono Nilde Iotti e Giancarlo Pajetta, nella sede del Msi, a sostare deferenti davanti alle salme di Almirante e di Pino Romualdi.
Ho scritto: “Perché non dedicare una via, una piazza a quanti presero seriamente la propria vita e quella degli altri? Sfidando il timore di non essere compresi? Di essere fraintesi? Mettendo al posto dell’odio, il rispetto. Della rivalità, la comprensione. Del sarcasmo, la lealtà. E forse, chissà, l’amicizia?”. Rilette oggi, illuminate dai bagliori di uno scontro politico sempre più rabbioso, suonano come le parole di un illuso.
Le tre facce della Meloni per ottenere consenso. - Daniela Ranieri
A un certo punto, in era ante-pandemia, quando non avevamo niente di serio a cui pensare, è diventato di moda elogiare Giorgia Meloni. Non lo facevano solo Rita dalla Chiesa e il Codacons, con le solite motivazioni (“Porta avanti i veri valori; conosce i problemi di Roma”), ma anche Le Monde, il giornale parigino della borghesia illuminata (“È dotata di un tasso di simpatia record”), e gente di sinistra: per Bertinotti “è corretta e leale”, per Roberto Vecchioni “è più a sinistra di Renzi” (e ci voleva poco), per l’archistar Fuksas “la coerenza di Giorgia Meloni è unica, è una persona profondamente legata al suo popolo”, quasi che elogiare la Meloni fosse diventato un distintivo di sciccheria da parte di gente talmente serena ideologicamente da potersi permettere di apprezzare una che condivide le idee di Ignazio La Russa, purché fosse contro il governo. Chissà cosa pensano, i fan, della performance che ha visto impegnata Giorgia alla Camera durante il voto per la proroga dello stato di emergenza, quando si è fisicamente trasfigurata, passando dall’immagine della sovranista popolana che capta gli umori del mercato della Garbatella e li porta nel palazzo del potere (a volte anche con derive un po’ così, coi toni della sora Giorgia che consiglia la fettina migliore al bancone macelleria), a quella furente e incendiaria della oppositrice che lancia l’allarme per la “vera e propria deriva liberticida” che “il governo ha messo in campo con la scusa del coronavirus”.
L’allocuzione di Giorgia est omnis divisa in partes tres:
1) Accusa al governo di voler prorogare lo stato d’emergenza per fare cose nocive e/o favori a non precisate entità: per esempio, per “consentire alla Azzolina di buttare qualche centinaio di milioni euro in banchi a rotelle con cui gli studenti potranno giocare all’autoscontro”, tasto molto battuto sui social; rovinare il turismo; costringere commercianti e imprenditori a chiudere. Non c’è chi non sappia, ormai, che lo stato di emergenza non ripristina il lockdown, ma è un assetto istituzionale e logistico dello Stato che si prepara a fronteggiare ogni evenienza. In questa fase del discorso Meloni è caricata a pallettoni, mischia un po’ di Cassese e un po’ di Agamben, ma non si sa quanto ci creda ella stessa.
2) Accusa il governo di volere poteri speciali per stare “abbarbicato alla poltrona”: in base a questo assunto, Meloni chiede elezioni subito, anche se ci sono state due anni fa. Peraltro giusto un anno fa Salvini provò a “capitalizzare il consenso” (cit. Conte) chiedendo i pieni poteri e le elezioni sulla base di quei sondaggi di cui oggi entrambi, siccome ora premiano Conte, disconoscono l’attendibilità (e si sa in che stato si aggira oggi Salvini per l’Italia). in questa fase Meloni tiene la mano in tasca, minacciosa e blasé. Non si respira nessun sentimento autentico verso “gli italiani”: è pura guasconeria.
3) Accusa il governo di aver fatto in 5 mesi cose che non c’entrano con la pandemia: dalla lotta contro l’omofobia (“Che, adesso il Covid aumenta i casi d’intolleranza verso gli orientamenti sessuali? ’N c’entra niente!”), alla sanatoria degli immigrati. Questo passaggio serve a ribadire i puntelli di Fratelli d’Italia, ad assecondare l’intolleranza quasi epidermica di certi elettori verso immigrati e gay, ciò che fa dire agli ammiratori di Giorgia che ella ha i valori ed è coerente.
Il climax è raggiunto con l’anafora di “Con quale faccia?!” ripetuto 5 volte, in cui si mischia tutto, le multe ai commercianti. gli inseguimenti coi droni, i “clandestini che violano i nostri confini” e poi vanno “a zonzo violando la quarantena”.
Al di là del merito politico, ci si chiede com’è successo che una ex missina e ministra di Berlusconi, ammiratrice devota di Almirante, abbia guadagnato una stima trasversale. Forse è stato anche per via delle parodie “simpatiche” che di lei sono state fatte sui social e nei programmi di satira Tv, con la messa in burletta del suo stile oratorio tra battaglia di Lepanto e televendite di Wanda Marchi, che Giorgia è diventata pop. Meloni ha marciato su questa popolarità e, mentre la sua faccia sui manifesti ringiovaniva, lei politicamente invecchiava, accontentandosi di scavarsi una nicchia di schiettezza popolana in contrasto con la torva facies da questurino del citofonatore. Adesso che egli è bastonato dai suoi numerosi guai, è lei a fare la faccia truce. Sotto Covid la destra ha perso il treno, non ha saputo farsi carico dell’istanza di protezione degli italiani, e mentre Salvini si è rifugiato nella negazione della realtà e nella libertà di contagio, alla Meloni, che la mascherina la indossa perché sa che c’è un’emergenza, è rimasto questo impopolarissimo spicchio di mercato, inteso per una volta in senso elettorale (fermo restando che farebbe bene a tornare in quello rionale, dove scoprirebbe che tra le paure dei cittadini non c’è la deriva liberticida).
Scusate il ritardo. - Marco Travaglio
Non ci volevo credere. Ma, a furia di leggere gli interventi di Stefano Folli e Michele Ainis su Repubblica, e soprattutto quelli di Sabino Cassese su Corriere, Foglio, convegni, tutte le tv, Protestantesimo, Radio Maria e segnale orario, mi sono convinto: siamo in piena svolta autoritaria, tacere ancora sulle continue violazioni della Costituzione di un potere abusivo che conculca le libertà dei cittadini sarebbe complicità. C’è un presidente che si crede il Re Sole e, con la scusa dell’emergenza, calpesta la volontà degli elettori e del Parlamento. Concede la grazia alle spie della Cia latitanti dopo la condanna per aver sequestrato l’imam Abu Omar a Milano, deportandolo in Egitto per farlo torturare: e così viola la sentenza della Corte costituzionale che limita la grazia a “motivi umanitari” per chi ha già scontato una parte della pena (e le spie Cia, mai estradate, non hanno mai visto la cella). Traffica col suo consigliere giuridico, su richiesta del suo amico Mancino, per deviare l’indagine sulla trattativa Stato-mafia. Fa trascinare al Csm i pm di Palermo con accuse infondate. E li trascina alla Consulta per la pretesa, contraria alla legge, di bruciare i nastri delle sue telefonate con Mancino senza farli ascoltare ai difensori. Attacca la stampa che osa occuparsi dello scandalo e invoca leggi per imbavagliarla sulle intercettazioni. Mette nel mirino altri pm insensibili alla “ragion di Stato”: Woodcock, De Magistris, Nuzzi, Verasani, Apicella, Forleo, Robledo. Entra a gamba tesa al Csm per impedire a Lo Forte di diventare procuratore di Palermo e mandarci il meno anziano e titolato Lo Voi. Il tutto in piena èra Palamara, che fa comodo a tutti.
Sabota il governo Prodi2 auspicando larghe intese con B. Salva B. dalla sfiducia chiesta da opposizioni e finiani, rinviando il voto di un mese e consentendo a B. di acquistare 30 deputati. Un anno dopo B. cade lo stesso e lui, anziché far scegliere agli italiani il governo che dovrà ricostruire il Paese, impone al Pd di appoggiare Monti con B. Poi invita i cittadini a non votare il M5S, che invece vince le elezioni: allora fa di tutto per tenerlo fuori dal governo, con le larghe intese fra gli sconfitti. A costo di farsi rieleggere contro ogni prassi costituzionale e ogni sua promessa, per sbarrare la strada a Rodotà, che la Carta la conosce e minaccia di applicarla davvero. Diffida i pm dallo “scontro” con la politica e le imprese, predicando il “dialogo” mentre emergono gravissimi delitti nelle banche, nelle grandi opere, all’Expo, al Mose, all’Ilva, alla Fiat, all’Eni. Impartisce ordini al Parlamento che l’ha appena rieletto, minacciando di dimettersi anzitempo se non cambierà la Costituzione su cui ha giurato da presidente ben due volte.
Delegittima la magistratura e le sue sentenze riabilitando il pluripregiudicato latitante Craxi. E, appena B. viene condannato definitivamente per frode fiscale, gli fa balenare una grazia condizionata alle sue dimissioni dal Senato (inutili perché la legge vieta ai pregiudicati di sedere in Parlamento): grazia illegittima perché tutt’altro che umanitaria, sempre alla luce della nota sentenza della Consulta che lui finge di ignorare. Poi, per salvare Letta, benedice la scissione da FI del Ncd di Alfano, Schifani &C. Ma Letta cade lo stesso e allora avalla il ribaltone dell’Innominabile, ma a patto che si metta d’accordo col pregiudicato B. per scassare la Costituzione. E depenna dalla lista dei ministri il nome più nobile: Nicola Gratteri alla Giustizia, perché “quel ministero non fa per i magistrati” (per i delinquenti invece sì). I suoi ordini categorici e imperativi per tutti (che i suoi corazzieri e turiferari chiamano eufemisticamente “moniti”) non risparmiano nessuno dei poteri che dovrebbero controllare lui, non essere controllati da lui: Parlamento, governo, partiti di maggioranza e opposizione, elettori, magistrati, Consulta, giornalisti, sindacati, movimenti di piazza, persino gli storici (quelli che osano sostenere l’esistenza di un “doppio Stato”: quello che combatte mafia e terrorismo, e quello che li fomenta, fiancheggia e copre) e i produttori-sceneggiatori-registi di film (quelli che sostengono, sugli anni di piombo, idee diverse dalle sue). Mancano solo i panettieri e i trapezisti. Firma circa 200 decreti senza che nessuno gridi alla tirannide. Non respinge alle Camere una sola delle decine di leggi-vergogna di B.&C. perché non ne ha il potere (invece ce l’ha: vedi l’art. 74 della Costituzione e i celebri “no” dei suoi predecessori Scalfaro e Ciampi).
Ecco con chi ce l’hanno oggi Folli, Ainis e Cassese quando agitano la svolta autoritaria: dicono Conte, ma pensano a Napolitano, tentando di recuperare il tempo perduto. Già allora volevano denunciare i superpoteri illegittimi, ma non potevano. Folli era troppo impegnato a incensare Re Giorgio sul Sole 24 Ore. Cassese a fare la chioccia al principe ereditario Giulio e a candidarsi al Quirinale nel nome del padre. Ainis a fare uno dei 35 “saggi” ricostituenti (poi saliti a 42+7) scelti da Napolitano&Letta per cestinare la Carta del 1948. Combattevano la tirannide in gran segreto e in silenzio. Come Fantozzi quando si martella il dito montando la tenda in piena notte, temevano di svegliare qualcuno: allora si son tappati la bocca e hanno corso nel bosco fino all’altroieri, quando sono finalmente usciti e hanno cominciato a strillare. Con appena dieci anni di ritardo. Ma che sarà mai.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/07/31/scusate-il-ritardo/5885810/
giovedì 30 luglio 2020
“Polemica assurda”. Così Arcuri punta a riaprire le scuole. - Virginia Della Sala
Attendere e vedere come va: poi, in caso, se ne riparla. Il commissario all’emergenza, Domenico Arcuri, insiste sulla correttezza della gara pubblica per la fornitura dei banchi monoposto per le scuole e, va detto, mostra anche un discreto ottimismo. Si vedrà tra un paio di giorni, poi, se sia tattico oppure se dipenda dal fatto che la soluzione esiste (magari dall’estero). O, ancora, si vedrà se sia ottimista perché, qualora la gara pubblica andasse deserta sul lato italiano, dimostrerebbe che i produttori nostrani non vogliono in realtà mettere a disposizione neanche i pezzi che hanno in deposito e quelli che avrebbero potuto produrre dall’avvio delle pratiche, magari consorziandosi come prevede il bando. Oggi, il commissario sarà in audizione alla Camera per parlare appunto dell’avvio dell’anno scolastico 2020/21 e delle misure “di contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica nelle scuole”. E ci va nei giorni in cui è assediato dalle accuse dei produttori italiani di arredi scolastici che, come avete potuto leggere nel pezzo qui accanto, non sembrano essere intenzionati a partecipare alla gara.
Alle polemiche, racconta chi gli è vicino, risponde con quelli che ritiene fatti inconfutabili. “La scuola deve riaprire, per garantire distanziamento abbiamo previsto un bando di banchi monoposto”. Classifica le polemiche come “surreali”. Pur ammettendo che il bando superi di gran lunga la capacità produttiva nazionale, oggi spiegherà che è per questo che è stata bandita una gara europea, proprio per permettere anche ad aziende estere di partecipare. E se è vero che i tempi sono troppo stretti (“innegabile”) è anche vero che il Comitato Tecnico Scientifico ha deliberato a inizio luglio con le indicazioni sul distanziamento per gli alunni. Impossibile per la struttura commissariale sapere prima di cosa avrebbero avuto bisogno le scuole.
Arcuri non ama le polemiche. I dubbi, le osservazioni, le richieste di spiegazioni – come ha potuto notare chi lo segue sin dai suoi primi interventi nell’emergenza da Coronavirus – vengono spesso derubricati a mero scontro tra parole e fatti, tra polemizzare e lavorare. Il punto: il problema della scuola, ora, riguarda la disponibilità dei prodotti e su questo le aziende italiane potrebbero e dovrebbero cercare di dare il massimo. La distribuzione e lo smaltimento (a carico delle aziende), poi, rappresentano un passo successivo. E non si può escludere possa essere una fase supportata dallo Stato proprio come già avvenuto per la, seppur contestata, distribuzione dei dispositivi di protezione (anche se sarebbe utile ricevere qualche segnale a tal proposito) per i quali, oltretutto, sono state attivate nuove gare quando la richiesta non è stata soddisfatta. Per il commissario, comunque, l’atteggiamento verso la necessità di partecipare ai bisogni del Paese da parte delle aziende non sembra essere dei migliori. E dall’esterno la sensazione è che se i produttori dovessero decidere di non partecipare alla gara neanche per i pezzi che hanno a disposizione, per il governo sarà solo loro responsabilità.
Nell’attesa di sciogliere il nodo banchi, oggi Arcuri racconterà cosa invece è già stato fatto: ci saranno 11 milioni di mascherine al giorno distribuite in 43mila istituti, gel igienizzante, test sierologici gratuiti per il personale docente e non e test molecolari a campione sugli studenti. Ieri è stata poi firmata una ordinanza che permette al docente positivo al sierologico di contare come giorni di malattia quelli tra il sierologico e il tampone. La riapertura delle scuole si incontra, poi, con la necessità di prolungare lo stato d’emergenza al 15 ottobre sostenuto ieri dal premier Giuseppe Conte, tanto più se dovessero esserci questioni irrisolte, dal rafforzamento dei presidi sanitari al potenziamento dei braccialetti elettronici per il sovraffollamento delle carceri.
Gettoni in pieno lockdown. Indaga la Corte dei Conti. - Giacomo Salvini
Non basterà la restituzione, ex post, dei rimborsi spese incassati dai consiglieri regionali di tutta Italia durante il lockdown, nonostante non dovessero spostarsi per andare in aula. Adesso, sulla questione anticipata sabato dal Fatto, si stanno muovendo i giudici contabili con l’ipotesi di danno erariale: in Friuli-Venezia Giulia la procuratrice della Corte dei Conti Tiziana Spedicato ha aperto un fascicolo sul “bonus trasferte” riscosso dai 49 consiglieri durante e da ieri un’inchiesta è stata avviata anche in Toscana. Nel mirino della procuratrice, Acheropita Rosaria Mondera, c’è la delibera dell’Ufficio di Presidenza del 25 maggio che, fissando le regole delle sedute telematiche, stabiliva che per i rimborsi forfettari dei consiglieri valessero le stesse regole delle sedute in presenza. Anche quelli relativi agli spostamenti verso Firenze, la sede del consiglio regionale. I giudici contabili stanno facendo tutti i conti per capire se si possa ipotizzare un danno erariale e individuare le relative responsabilità amministrative di quell’atto. Un fascicolo che potrebbe preoccupare non poco Eugenio Giani, candidato governatore del Pd alle prossime Regionali, e che da presidente del consiglio regionale quell’atto ha firmato. Lui sulla questione, è lapidario: “Era pienamente legittimo” spiega al Fatto.
Nel frattempo spunta un’altra delibera, successiva di un mese a quella del 25 marzo, che crea altri imbarazzi in Toscana. Non contento del primo atto, il 4 maggio l’Ufficio di presidenza stabilisce le modalità delle nuove sedute in presenza per la “fase 2” e conferma tutte le “disposizioni” di quelle via telematica già messe nero su bianco un mese prima. La delibera riguarda le quattro commissioni che, per rispettare le regole anti-Covid, si sarebbero riunite quasi tutte via Skype. Continuando quindi a incassare anche il “rimborso spese” anche se collegati da casa. Da inizio marzo ad oggi, i 40 consiglieri toscani si sono riuniti via computer 36 volte per partecipare a sedute di commissione per un totale di circa 3mila euro di “rimborsi chilometrici” per ogni seduta. Fino a luglio, le indennità dei consiglieri arrivavano a un totale di 229 mila euro su 2 milioni di stipendio totale. Ad agosto poi, quando il consiglio regionale chiuderà per ferie, come ogni anno i 40 rappresentanti continueranno a prendere un rimborso spese, nonostante la fine delle attività istituzionali: 40 mila euro che, per cinque anni di legislatura, portano il totale a 200 mila euro. Non pochi spiccioli. Intanto ieri, nella penultima seduta della legislatura, si è discusso del caso e tutti i consiglieri si sono dimostrati filantropi, ex post: molti hanno annunciato di aver già fatto donazioni con quei soldi ma Giani non ci sta e ha chiesto a tutti di restituire quei soldi entro 15 giorni. “In un momento in cui chiediamo sacrifici ai toscani, è stato inopportuno prendere quei rimborsi” ammette ora il candidato governatore dem. Il M5S, unico gruppo ad aver donato 85 mila euro, tramite la candidata Irene Galletti attacca: “Non basta, quei soldi vanno rendicontati”. La patata bollente passa al prossimo consiglio. Dopo le elezioni.