lunedì 3 agosto 2020

Immigrati, virus, tamburi e Briatore: levategli il mojito. - Selvaggia Lucarelli

Immigrati, virus, tamburi e Briatore: levategli il mojito

Deve essere un’estate durissima per Matteo Salvini, a giudicare dal livello della sua propaganda social e non solo social. Un livello così infimo e spassoso allo stesso tempo che c’è solo una spiegazione: i mojitos quest’estate ha cominciato a berseli tutti Luca Morisi. Senza zucchero di canna, succo di lime, menta e acqua di seltz: solo rum, però. Ecco dunque la speciale classifica delle minchiate postate da Matteo Salvini negli ultimi giorni.
1)Il leader della Lega esprime solidarietà a Mario Conte, sindaco di Treviso, per i 129 richiedenti asilo positivi al Covid nell’ex caserma Serena. Sindaco che afferma: “Il nuovo focolaio all’interno della struttura genera un danno incalcolabile, anche in termini di immagine, faccio causa alla Stato!”. “Sacrosante parole, questi sono i sindaci della Lega!”, tuona Matteo Salvini. Peccato che sia il sindaco di Treviso che Salvini si dimentichino, nell’ordine, che a) Treviso è stato uno dei primi focolai d’Italia e una delle prime zone rosse d’Italia, per cui “l’immagine” della città – se vogliamo scomodare un termine da soubrette – era già compromessa dal 7 marzo. b) Il 9 luglio a Treviso è arrivato un pullman di badanti dal Kosovo che rientravano in città per tornare ad assistere gli anziani: due di queste erano positive. Quindici persone di quel pullman sono risultate irrintracciabili. In quel caso il sindaco non ha parlato di bomba sanitaria e di cause al governo italiano. Si vede che se devono svuotare il pappagallo agli anziani trevigiani, gli stranieri sono un po’ meno stranieri degli altri.
2) Alla luce dell’arrivo dei migranti in Italia, Matteo Salvini mette le mani avanti e scrive: “Se tornerà l’epidemia, sappiamo chi ne sarà colpevole”. In pratica lui gira senza mascherina nel tour delle piazze stringendo mani e maneggiando i cellulari di chiunque, va in Senato rifiutandosi di indossare la mascherina, dice che il saluto col gomito è la fine della specie umana, strizza l’occhio ai no-mask, dice che non manderà sua figlia a scuola con la mascherina, lancia il messaggio che la mascherina sia una specie di bavaglio che il governo vuole mettere agli italiani e se torna l’epidemia è colpa dei migranti. Certo. I leghisti non si ammalano, basta bagnarsi con l’acqua del Po. O stringere la mano di Salvini, Gesù aveva le stimmate, lui ha gli anticorpi sui palmi. Gli dai il cinque e sei immune.
3) Posta un video di Flavio Briatore scrivendo a caratteri cubitali la frase dell’imprenditore contro il Governo: “VIVONO IN UNA BOLLA, NON HANNO IDEA DELLA VITA REALE!”. Cioè, secondo Salvini Flavio Briatore è l’esperto di vita reale. Attendiamo che citi Attilio Fontana come esperto in trasparenza bancaria.
4) Scrive: “Non vi sembra un’Italia al contrario? Quando lo spiego all’estero non ci credono!”. Ora, sarebbe interessante sapere a chi spieghi l’Italia all’estero Matteo Salvini. E in che lingua, visto che il suo unico interlocutore al momento sembrerebbe quell’Orban che a maggio gli scrisse saggiamente via sms “Dear friend! Congratulations. L’Ungheria è con te, Matteo! Viktor”. Della serie: fino a “dear friend” magari ci arriva, il resto glielo scrivo in italiano così capisce.
5) Per frignare a proposito del processo Open Arms, Salvini posta la foto di sua figlia che è in un’età – 7 anni – in cui non può ancora incazzarsi per la sua esposizione pubblica a fini propagandistici. E commentando la foto scrive: “Per amore dei nostri figli, per il bene dell’Italia, in difesa dei nostri valori e del nostro futuro. Possono anche processare un uomo, ma non potranno mai arrestare le nostre idee e la nostra voglia di Libertà”. Inutile dire che sogno un futuro in cui quella bambina, per spiegare la sua idea di libertà, a 18 anni, con una crocchia di dreadlocks in testa come Carola Rackete, speronerà un gazebo della Lega alla guida di una ruspa.
6) Salvini posta una notizia di cronaca di quelle che scuotono il paese come neppure riuscì a fare la strage di Erba e cioè: “Torino, immigrato tunisino strappa una collana a una 70enne. I passanti lo inseguono e lo bloccano”. Segue il commento: “E io a processo?”. Giuro che ho riflettuto almeno 15 minuti sul nesso tra i due avvenimenti ma non l’ho compreso. Cioè, se un tunisino delinque, Salvini non deve essere processato? E se anziché tunisino fosse stato messicano, cosa avrebbe scritto, qualcosa tipo “E noi qui mangiamo ancora nachos al formaggio?”. E se il ladro fosse stato italiano, il processo andava bene? Perché nel caso informo che ieri un italiano ha tentato di compiere un furto nel duomo di Arezzo, un altro italiano ha rubato una moto a Modugno, uno ha commesso un furto alla Ip di Sondrio, un altro ha rubato una borsa a Genova e insomma, dovrebbe essercene abbastanza per compensare il tentato furto del tunisino e chiedere il 41 bis per Salvini, se il criterio è “se delinquono solo gli stranieri niente processo”.
7) L’account ufficiale “Lega Salvini Premier” posta una foto del premier Conte, di Roberto Fico e di Teresa Bellanova che suonano i tamburi. Il commento per sbeffeggiarli è: “Mentre l’Italia affonda, loro suonano il tamburo”. Tamburo che chissà, al leghista medio deve sembrare anche uno strumento vagamente esotico, che evoca danze tribali e cannibalismo. Purtroppo l’account “Salvini premier” ignora il fatto che si trattava di un’iniziativa di inclusione per i disabili. Speriamo che nella foga di questi giorni Salvini non chieda di rispedire anche loro, in Tunisia.

Re Juan Carlos abbandona la Spagna e si trasferisce all’estero dopo inchieste per evasione. -

Re Juan Carlos abbandona la Spagna e si trasferisce all’estero dopo inchieste per evasione

All'origine della decisione di Juan Carlos le indagini avviate dai pubblici ministeri svizzeri e spagnoli sui presunti fondi nei paradisi fiscali. Il suo legale ha assicurato in una dichiarazione che, nonostante la partenza, il suo cliente resta a disposizione della Procura.
All’origine della decisione di Juan Carlos le indagini avviate dai pubblici ministeri svizzeri e spagnoli sui presunti fondi nei paradisi fiscali. Il suo legale ha assicurato in una dichiarazione che, nonostante la partenza, il suo cliente resta a disposizione della Procura.Non è ancora ufficialmente indagato, anche se fonti giudiziarie svizzere non escludono che lo sarà in futuro. Ma le pesanti ombre dell’inchiesta per evasione fiscale in patria e in Svizzera che lo ha coinvolto hanno spinto il re emerito di Spagna Juan Carlos ad abbandonare la Spagna e a lasciare il palazzo della Zarzuela per trasferirsi all’estero. Lo ha annunciato al figlio Felipe VI, attuale regnante, che ha ricevuto una sua accorata lettera in cui spiega la sua decisione “di fronte alla ripercussione pubblica che alcuni eventi passati nella mia vita privata stanno generando” e ha espresso al suo erede la sua “assoluta disponibilità ad aiutarvi per facilitare l’esercizio delle vostre funzioni con la tranquillità e la calma che richiede la tua alta responsabilità. Lo esigono la mia storia e la mia dignità di persona”. Il re, scrive El Pais, lo ha ringraziato per la sua decisione, esprimendo “sincero rispetto e gratitudine”.
A marzo re Felipe aveva deciso di rinunciare all’eredità del padre e aveva tolto la pensione ai genitori proprio a seguito dell’apertura da parte dell’autorità anticorruzione di un’inchiesta su cento milioni di euro che Juan Carlos avrebbe ricevuto su un conto svizzero a nome di una fondazione panamense della casa reale saudita. Soldi che sarebbero stati ripartiti fra l’allora re e altre persone affinché l’appalto per la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità fra la Mecca e Medina, nel 2011, venisse assegnato a ditte spagnole, su cui pendono sospetti di corruzione.
L’indagine dell’anticorruzione per far luce sull’appalto risale al 2018. Il coinvolgimento di Juan Carlos, padre dell’attuale re Felipe, è nato da una telefonata fra l’imprenditore Juan Villalonga e Corinna zu Sayn-Wittgenstein, amica del sovrano da molti ritenuta sua amante. L’inchiesta però sarà è stata limitata al periodo successivo al 2014, anno della sua abdicazione: nel momento in cui ha lasciato il trono al figlio, Juan Carlos ha perso l’immunità legata al suo ruolo.

domenica 2 agosto 2020

Processi e altre indagini, cosa resta di Consip. - Marco Lillo

Processi e altre indagini, cosa resta di Consip

4 anni dopo - Agosto 2016: iniziano le intercettazioni dell’inchiesta sulla centrale acquisti. Ad oggi l’ex ministro è a processo, il padre dell’ex premier non ancora archiviato.
Il 3 agosto del 2016, esattamente quattro anni fa, le microspie dei Carabinieri del Nucleo Tutela Ambiente, Noe, intercettavano per la prima volta Carlo Russo che parlava di Tiziano Renzi con Alfredo Romeo negli uffici romani dell’imprenditore, vicino alla Camera. I pm napoletani Henry John Woodcock e Celeste Carrano si imbattono per puro caso in questo 33enne di Scandicci molto amico di Tiziano che si offre di aiutare Romeo nelle gare. Romeo si era aggiudicato provvisoriamente 3 lotti della gara più grande d’Europa: 2,7 miliardi in tutto per la pulizia e manutenzione dei palazzi pubblici italiani. Temeva di essere fatto fuori in graduatoria definitiva e di perdere così 609 milioni di euro. Inoltre era interessato a altre gare di Inps e Grandi Stazioni. Così inizia quattro anni fa il caso Consip. Gli incontri proseguono. Le microspie registrano le chiacchiere in libertà di Russo e Romeo.
Secondo le informative dei Carabinieri, Romeo un mese dopo offre a Russo nell’incontro del 14 settembre 2016 un informale “accordo quadro” che prevedeva dazioni (mai avvenute) di 30 mila euro al mese per “T.” (alias Tiziano Renzi) e 5 mila a bimestre per “CR” (Carlo Russo per i pm). Romeo in cambio voleva entrare in contatto con Luca Lotti e con l’Amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni.
Tiziano Renzi si è sempre dichiarato all’oscuro di tutto. L’indagine è funestata subito dalle fughe di notizie a favore degli indagati. Il 21, 22 e 23 dicembre Il Fatto svela le indagini sulle fughe suddette in una serie di articoli: il ministro Luca Lotti e il generale dei Carabinieri Emanuele Saltalamacchia (ex comandante della Toscana) sono indagati perché avrebbero spifferato l’esistenza dell’indagine a Luigi Marroni e il comandante generale dei Carabinieri, Tullio del Sette, è indagato per un “allarme” dato a Luigi Ferrara, presidente della Consip. L’inchiesta poi nel 2017 passa per competenza alla Procura di Roma e cambia obiettivi e passo.
Quattro anni dopo cosa resta dell’inchiesta Consip? Al tagliando, la Procura di Roma non fa una bella figura. Vediamo la sorte dei protagonisti della vicenda.
Luca Lotti Accusato di aver rivelato l’inchiesta.
La Procura di Roma a dicembre 2018 ha chiesto il rinvio a giudizio sia per l’ex ministro Luca Lotti che per il generale Emanuele Saltalamacchia per favoreggiamento. Per entrambi invece i pm hanno chiesto l’archiviazione per la rivelazione di segreto. Lotti e Saltalamacchia avrebbero rivelato un segreto che non era proprio del loro ufficio, per i pm. Il Gip Gaspare Sturzo però ha rigettato questa impostazione e alla fine il Gup Niccolò Marino ha disposto – contro il parere dei pm – il rinvio a giudizio anche per rivelazione di segreto. Al processo, fissato il 13 ottobre, Lotti e il generale Saltalamacchia dovranno difendersi da entrambe le accuse. Dalle intercettazioni del maggio 2019 agli atti di un’altra inchiesta, quella di Perugia su Luca Palamara, emerge l’ostilità di Lotti verso i pm romani: il deputato Pd probabilmente si aspettava la richiesta di archiviazione per entrambi i reati.
Nell’indagine Consip, chi fa il suo nome è l’ex ad Luigi Marroni, teste che i magistrati ritengono affidabile. É il 20 dicembre del 2016 quando i carabinieri del Noe dice: “Ho appreso in quattro differenti occasioni da Vannoni, dal generale Saltalamacchia, dal presidente di Consip Luigi Ferrara e da Lotti di essere intercettato”. Ferrara, spiega Marroni, lo avrebbe saputo dall’ex comandante generale dell’Arma Tullio Del Sette. Tutti hanno respinto le accuse. Il processo è in corso.
Tiziano Renzi L’incontro a Firenze con Romeo e l’amico Carlo Russo.
L’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, l’aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Mario Palazzi hanno chiesto l’archiviazione per il traffico di influenze illecite ipotizzato da loro stessi all’inizio. L’amico Carlo Russo, che spendeva il nome di Tiziano per trattare compensi, sarebbe per i pm un millantatore. Conclusione mantenuta anche quando i pm hanno individuato, grazie allo studio delle celle telefoniche agganciate dai rispettivi cellulari, un incontro a tre a Firenze il 16 luglio 2015 tra Alfredo Romeo, Carlo Russo e Tiziano Renzi. Incontro negato dai protagonisti. Il Gip Gaspare Sturzo ha accolto la richiesta di archiviazione per alcuni episodi minori di traffico di influenze ma non ha voluto archiviare i due episodi più importanti: la gara Consip e la gara Grandi Stazioni. Sturzo ha chiesto alla Procura di fare nuove indagini e i pm hanno sentito nei mesi scorsi come persone informate dei fatti l’ex tesoriere del Pd renziano Francesco Bonifazi (estraneo all’inchiesta) e hanno risentito l’amministratore di Consip, Marroni.
A settembre potrebbero seguire l’orientamento del Gip e chiedere il rinvio a giudizio di Tiziano Renzi. Oppure insistere con la richiesta di archiviazione.
Alfredo Romeo A giudizio nella capitale per corruzione.
Arrestato dai pm di Roma nel marzo 2017 e poi scarcerato dalla Cassazione. Ora è a processo sia a Napoli che a Roma con l’accusa di corruzione. A Roma perché avrebbe consegnato circa 100mila euro all’ex dirigente Consip Marco Gasparri (che ha già patteggiato), in cambio di favori. A Napoli il processo riguarda fatti di corruzione minore in Campania. Su entrambi i processi incombe la sentenza della Cassazione che va nel senso dell’inutilizzabilità delle intercettazioni captate dai pm di Napoli. Il Consiglio di Stato e la Cassazione intanto hanno confermato l’esclusione dalla gara Consip per la società di Romeo. L’imprenditore resta in ballo a Roma per l’ipotesi più delicata politicamente: quella di traffico di influenze illecite contestata a lui in concorso con Carlo Russo e Tiziano Renzi. Come gli altri è in attesa anche lui delle determinazioni dei pm di Roma dopo il rigetto della richiesta di archiviazione e la richiesta di nuove indagini.
John Woodcock Il pm al centro di accuse infondate.
Il pm di Napoli nell’estate del 2017 è stato indagato ingiustamente per rivelazione di segreto in concorso con la sua amica Federica Sciarelli e anche per falso in concorso con il capitano del Noe Gianpaolo Scafarto. Tutte le accuse erano infondate. Come poi la Procura di Roma ha dovuto ammettere chiedendo e ottenendo l’archiviazione, Woodcock non era la fonte del Fatto. La sua amica Federica Sciarelli non era il tramite della trasmissione delle notizie. Inoltre i giudici hanno stabilito che Scafarto ha fatto errori ma non c’era nessun falso voluto. Soprattutto Woodcock non c’entrava nulla perché aveva solo chiesto a Scafarto di fare un capitolo apposito dell’informativa sull’argomento servizi segreti.
Sciarelli è stata perquisita, nel luglio 2017, e i Carabinieri le hanno sequestrato e analizzato il cellulare perché accusata ingiustamente di essere il tramite delle notizie al Fatto. Tutto falso.
Woodcock è stato sottoposto anche a un procedimento disciplinare tanto lungo quanto ingiusto dal Csm. Il magistrato era accusato di avere parlato con la giornalista Liana Milella mancando di rispetto al suo capo: il procuratore reggente Nunzio Fragliasso. Dopo un primo verdetto di censura del Csm e l’annullamento con rinvio della Cassazione, Woodcock è stato definitivamente “assolto” da ogni addebito nel giugno 2020. Luca Palamara, amico di Luca Lotti, si era interessato attivamente del procedimento contro Woodcock, partito nella consiliatura precedente quando lui era membro del Csm.
Giampaolo Scafarto Il maggiore silurato.
Il capitano dei Carabinieri che ha svolto l’inchiesta scrivendo molte cose sbagliate nelle sue informative è stato accusato dalla Procura di Roma di numerosi reati: dalla rivelazione di segreto al falso fino al depistaggio. La Procura di Roma – come per Woodcock – manifesta nei confronti del Carabiniere una pervicacia degna di miglior causa. Al padre di Matteo Renzi, Tiziano, i pubblici ministeri romani non hanno mai fatto una perquisizione o un sequestro di cellulare, mentre Scafarto ha subito due sequestri di cellulare. La Procura di Roma ha chiesto e ottenuto dal Gip nel gennaio 2018 per lui la sospensione dal servizio. Il Tribunale del Riesame però nel marzo 2018 l’ha annullata. Infine il gup Clementina Forleo ha disposto il non luogo a procedere per Scafarto su falsi, rivelazioni di segreto e depistaggi. Il capitano, nel frattempo divenuto maggiore, per i giudici (Gip e come detto prima anche tribunale del Riesame) non ha fatto nulla di penalmente rilevante. La Procura ha fatto ricorso e il processo è fissato il primo ottobre davanti alla Corte di Appello.

Amenità.

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Ungaretti: "M'illumino d'immenso"

Quasimodo: "Ed è subito sera"


Poche parole, molto pathos.


Bologna, a 40 anni dalla strage “la luce in fondo al tunnel della verità. Dopo i mandanti ed esecutori bisognerà individuare gli ispiratori politici”. L’inchiesta sui mandanti massoni della P2 apre nuovi scenari. - Giovanna Trinchella

Bologna, a 40 anni dalla strage “la luce in fondo al tunnel della verità. Dopo i mandanti ed esecutori bisognerà individuare gli ispiratori politici”. L’inchiesta sui mandanti massoni della P2 apre nuovi scenari

Paolo Bolognesi, il presidente dell'Associazione 2 agosto, non fa nomi ma è facile verificare che dal 30 luglio 1976 e fino a un anno prima dell'eccidio il premier fosse Giulio Andreotti (al suo quinto mandato) e fino al 18 ottobre 1980 a guidare il governo fosse Francesco Cossiga. Agli atti dell'indagine che vede il defunto Licio Gelli tra coloro che pagarano i Nar perché facessero esplodere l'ordigno documenti inediti e fino a poco fa "insabbiatI" che hanno introdotto gli inquirenti verso nuovi percorsi investigativi.
“Una luce in fondo al tunnel della verità ora c’è. Sarà un processo durissimo. Noi chiediamo ancora completa verità e dopo i mandanti, non più presunti perché ci sono i conti e non lo dico io mai i giudici, bisognerà individuare gli ispiratori politici. Tutti i capi dei servizi erano appartenenti alla loggia massonica P2 e li nomina il presidente del Consiglio. La strage è stata preordinata e calibrata un anno e mezzo prima del 2 agosto 1980″. Paolo Bolognesi, il presidente dell’Associazione 2 agosto, non fa nomi ma è facile verificare che dal 30 luglio 1976 e fino a un anno prima dell’eccidio il premier fosse Giulio Andreotti (al suo quinto mandato) e fino al 18 ottobre 1980 a guidare il governo fosse Francesco Cossiga. Che da presidente emerito – come rivelato da MillenniuM – avrebbe raccontato al faccendiere Francesco Pazienza, una vita nei servizi segreti, che l’ordigno “era un transito. Una bomba esplosa per sbaglio. Io volevo dirlo ai giudici dell’ultimo processo ma non mi hanno voluto sentire…”.
La nuova inchiesta e i vecchi depistaggi – Ma Pazienza – insieme ai dirigenti del Sismi, il generale Pietro Musumeci e il colonnello Giuseppe Belmonte, e Licio Gelli – è stato però condannato per aver depistato le indagini e aveva recentemente dichiarato che la strage era responsabilità di Gheddafi. E per questo la corte ha ritenuto quindi la sua testimonianza “inutile” o “addirittura fuorviante”. I giudici hanno respinto al mittente anche la proposta di Ilich Ramirez Sanchez, meglio conosciuto come Carlos lo Sciacallo, il terrorista venezuelano detenuto in Francia. Carlos sarebbe stato testimone della difesa di Gilberto Cavalliniil quarto Nar condannato all’ergastolo in primo grado, il 9 gennaio scorso. Mentre per Giusva Fioravanti e Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, sentiti come testimoni, il verdetto di responsabilità è definitivo.
La “pista palestinese” è stata archiviata nel 2015 e per i giudici dell’Assise di Bologna non solo l’indagine, durata nove anni, ha esplorato ogni possibilità ma Carlos non è stato mai considerato credibile o attendibile, anzi valutato come reticente. La nuova indagine, quella sui mandanti, chiarisce che quella suggestione e la figura di Carlos “sono stati introdotti preventivamente alla perpetrazione della strage”, ricorda l’avvocato di parte civile, Andrea Speranzoni.
Le motivazioni dei giudici saranno depositate il 7 settembre. E sapremo perché i giudici, presieduti da Michele Leoni, per Cavallini hanno riqualificato il reato escludendo che avesse come finalità di attentare alla sicurezza dello Stato. E se è definitivamente chiusa l’era dei depistatori di professione e non. In attesa dell’individuazione degli “ispiratori politici“, a 40 anni dalla strage gli inquirenti di Bologna hanno ottenuto il fine pena mai e individuato il filo nero che dal Maestro Venerabile della P2 passa dal cuore dello Stato e finisce agli estremisti di destra. Seguendo la traccia dei soldi incassati per quella mattanza.
Cavallini, il quarto Nar che si dichiara innocente (come tutti gli altri)– “Di quello che non ho fatto non mi posso pentire. Dico anche a nome dei miei compagni di gruppo che non abbiamo da chiedere perdono a nessuno per quanto successo il 2 agosto 1980. Non siamo noi che dobbiamo abbassare gli occhi a Bologna”. Cavallini, come gli altri Nar, si è sempre dichiarato innocente. Per i magistrati che hanno condotto il processo, durato due anni, quaranta udienze e ascoltato oltre cinquanta testimoni, è lui il quarto uomo. Infanzia a Milano, padre fascista, madre che gli insegna “l’amore per il vangelo”, poi fondatore dei “Boys San” dell’Inter, picchiatore affascinato dalla Repubblica di Salò, assassino di rossi, poliziotti e giudici, come Mario Amato, reati sempre rivendicati, ma stragista “no”, Bologna “no”. Come del resto hanno sempre detto anche gli altri con Ciavardini che, sentito al processo, a un familiare ha detto di essere l’86esima vittima suscitando indignazione universale. Il nucleo storico dei Nar – senza dimenticare gli altri camerati come Walter Sordi (poi pentito) e Fabrizio Zani, anche loro di nuovo in aula chiamati a testimoniare – a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 ha insanguinato le strade. “Spontaneisti” per Fioravanti e Cavallini“carne da macello che doveva difendersi” per Mambro, “manovrati” da P2 e servizi segreti deviati per il collegio di parte civile e per i familiari delle vittime della strage, che non hanno perso una sola udienza, come fecero nei processi passati. In due anni c’è stato spazio anche per un accertamento genetico che ha visto la riesumazione della bara di una vittima, Maria Fresuscoprendo che il Dna dei resti contenuti nel feretro non era quello della giovane donna morta.
Da Licio Gelli mandante – Per anni i familiari delle vittime hanno chiesto di conoscere i mandanti dell’attentato come ora chiedono di conoscere gli “ispiratori politici”. Era uno dei tasselli mancanti nel grande mosaico storico giudiziario che gli inquirenti stanno cercando di mettere insieme per cercare una ragione alla bomba fatta esplodere nella sala d’aspetto della stazione. Quest’anno ci sono quattro nomi, anche se rimarranno sulla carta: Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato, Mario Tedeschi. Tutti e quattro sono morti e non potrà mai esserci un processo, né una sentenza di condanna o di assoluzione. Ma non tutti i protagonisti di questo nuovo capitolo sono usciti di scena. Ci sono Paolo Bellini, l’ex terrorista di Avanguardia Nazionale, per concorso in strage; l’ex generale dei servizi oggi 90enne Quintino Spella e l’ex carabiniere Piergiorgio Segatel, per depistaggio; e l’amministratore del condominio di via Gradoli a Roma, Domenico Catracchia, per false informazioni al pm al fine di sviare le indagini. Via Gradoli, la strada romana dove le Brigate rosse avevano allestito il carcere di Aldo Moro nel 1978, era emersa anche nel processo a Cavallini grazie ad alcuni documenti prodotti dalle parti civili. Nella stessa via, infatti, anche i Nar avevano due covi, nel 1981. E gli appartamenti in uso ai terroristi di estrema destra, così come quello delle Br, erano riconducibili a società immobiliari e a personaggi legati al Sisde.
La Procura generale, che nel 2017 ha avocato a sé l’indagine innescata dalla meticolosa analisi dei documenti da parte dell’Associazione 2 agosto, è arrivata alla conclusione che dietro alla bomba alla stazione c’erano quattro menti nere: quelle di Licio Gelli, del suo braccio destro Umberto Ortolani, del potentissimo capo dell’ufficio Affari riservati del Viminale, Federico Umberto D’Amato, e del piduista senatore del Msi, Mario Tedeschi. Gelli era stato già condannato come depistatore dell’attentato, mentre il suo braccio destro Ortolani era stato prosciolto. Accusato di essere stato al centro degli intrighi finanziari della loggia, Ortolani era sparito per sottrarsi a due mandati di cattura internazionali. Rifugiatosi a San Paolo, il Brasile si era sempre rifiutato di arrestarlo perché cittadino brasiliano. Nel 1996, nel processo sulla loggia P2, venne assolto dall’accusa di cospirazione politica contro i poteri dello Stato. Nel 1998 la Cassazione lo ha condannato in via definitiva a 12 anni per il crac del Banco Ambrosiano. Gelli e Ortolani vengono considerati mandanti-finanziatori della strage. Il potentissimo D’Amato, ex agente anglo americano, regista delle principali trame occulte italiane, è invece accusato di essere mandante-organizzatore della bomba: uomo dei mille misteri, anche D’Amato era iscritto alla P2. Faceva parte della loggia di Gelli – tessera numero 1.643 – anche Tedeschi, storico direttore de Il Borghese e senatore del Movimento sociale: per gli inquirenti ha aiutato D’Amato nella gestione mediatica degli eventi preparatori e successivi alla strage, ma anche delle attività di depistaggio.
Paolo Bellini tra gli esecutori – È Paolo Bellini l’uomo con i baffi e capelli ricci, che si aggirava alla stazione di Bologna poco prima della disintegrazione della sala d’aspetto. Ex estremista nero protagonista di una vita spericolata, per la strage di Bologna era già stato indagato e prosciolto il 28 aprile del 1992: negò la sua presenza, indicata da due testimoni, in città la mattina del 2 agosto e fornì un alibi ottenendo il proscioglimento, annullato solo qualche mese fa dalla giudice Francesca Zavaglia. Una revoca che era stata richiesta dalla Procura generale e legata a tre nuovi elementi raccolti. Tra questi c’è il fotogramma che compare in un filmato amatoriale Super 8 girato da un turista tedesco negli attimi immediatamente precedenti alla strage. A recuperarlo nell’archivio di Stato i difensori dei familiari delle vittime, gli avvocati Andrea SperanzoniGiuseppe GiampaoloNicola Brigida e Roberto Nasci, che lo hanno poi depositato alla procura generale. A differenza di quello che avviene oggi con gli smartphone, infatti, nel 1980 le riprese amatoriali erano realizzate solo da pochi appassionati in possesso di videocamere. Il turista filmò dal treno l’arrivo in stazione sul primo binario, alle 10.13, 12 minuti prima dello scoppio. E riprese anche quell’uomo che per la sua ex moglie è proprio Bellini.
Il secondo elemento che “inguaia” Bellini è rappresentato da un’intercettazione ambientale del 1996: Carlo Maria Maggi, ex capo di Ordine Nuovo, condannato per la strage di Brescia e ora deceduto, parlando con il figlio disse di essere a conoscenza della riconducibilità della strage di Bologna alla banda Fioravanti (“Sì sicuramente…sono stati loro… Eh, intanto lui ha i soldi”) e che all’evento partecipò un “aviere“, che portò la bomba. Proprio Bellini era infatti conosciuto nell’ambiente dell’estrema destra per la passione per il volo tanto che conseguì il brevetto da pilota. Per collegare mandanti ed esecutori, i magistrati e la Guardia di Finanza hanno seguito il flusso di denaro. Circa cinque milioni di dollari partiti da conti svizzeri riconducibili a Gelli e Ortolani e alla fine arrivati al gruppo dei Nar, con una consegna in contanti di un milione, il 30 luglio, e non solo. Circa 850mila dollari, per gli inquirenti, furono intascati da D’Amato che secondo l’ipotesi investigativa teneva i contatti con la destra eversiva tramite Stefano Delle Chiaie, capo di Avanguardia nazionale. E ancora un’altra fetta di quel denaro sarebbe servita invece a finanziare il depistaggio a mezzo stampa. In particolare, la Procura generale ritiene che una somma andò a Tedeschi perché portasse avanti una campagna sul suo giornale avallando l’ipotesi della “pista internazionale”.
Il flusso di denaro, i documenti “Bologna” e “artigli” – Il prezzo della strage, secondo gli accertamenti, fu pagato tra il 16 febbraio 1979 e il 30 luglio 1980, anche se il saldo economico inizia a sedimentarsi a partire dal 22 agosto 1980. La chiave di volta è stato il lavoro fatto sugli atti del crac del Banco Ambrosiano e sul documento Bologna, sequestrato nel 1982 al massone Gelli ma “fatto inabissare”. Il foglietto, il cui originale è stato scovato all’archivio di Stato di Milano nel portafogli sequestrato allo stesso Venerabile, aveva l’intestazione ‘Bologna – 525779 – X.S.’, con il numero di un conto corrente aperto alla Ubs di Ginevra dal capo della P2. Al documento Bologna c’è un riferimento in uno degli atti considerati più importanti dagli investigatori, il documento artigli. Un appunto per il ministro dell’Interno, all’epoca Amintore Fanfani, classificato come riservatissimo, datato 15 ottobre 1987 e firmato dall’allora capo della polizia Vincenzo Parisi. Il documento mai protocollato è stato scovato tra le carte del cosiddetto deposito della via Appia: un archivio segreto dell’Ufficio Affari riservati, scoperto solo nel 1996, dopo la morte di Federico Umberto D’Amato. In quel documento top secret si ricostruiva il colloquio tra il legale di Gelli, Fabio Dean, ricevuto nell’ufficio del direttore centrale della polizia di prevenzione Umberto Pierantoni. L’avvocato non è certo sibillino nel suo discorso, sostiene che la polizia “può fare molto” per “ridimensionare il tutto”. Sostiene che il capo della P2 ha già “contattato” altri politici “del Psi e della Dc” e invita “il ministro” a “prendere in mano la situazione”. “Se la vicenda viene esasperata e lo costringono necessariamente a tirare fuori gli artigli, allora quei pochi che ha, li tirerà fuori tutti”, disse Dean, parlando del suo assistito, in quel momento in carcere e di lì a poco interrogato, anche sul 2 agosto 1980. “Tra i documenti sequestrati a Gelli nel 1982 vi sono degli appunti con notizie riservate, che spetterà, poi, a Gelli avallare o meno, sulla base di come gli verranno poste le domande stesse”. Una minaccia allo Stato. Di cui ancora non si conosce origine, movente e appunto ispirazione. Ma proprio questi documenti inabissati stanno stanno introducendo gli inquirenti verso nuovi percorsi investigativi. Giovedì il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a Bologna, ha chiesto di continuare nel percorso della ricerca della verità. Quella “completa” che invocano i familiari delle vittime che bollano come “depistaggio mediatico” la frase di Carlo Maria Maggi che, intercettato, dice che l’eccidio di Bologna “è stato un tentativo di confondere le acque, capisci?! Per far dimenticare Ustica”. La cui storia giudiziaria, nei soli processi civili, ha individuato però e per ora nello Stato l’unico responsabile.

Uri Galler. - Marco Travaglio

Zona rossa? Non ci sarà”. Gallera si sbugiarda da sé - Il Fatto ...
Invidioso marcio per le ultime irresistibili gag della sua spalla Fontana, che tenta di soffiargli la parte di capocomico, Gallera recupera subito terreno con una raffica di nuove scempiaggini, malgrado il triplo handicap di non avere un cognato nel ramo camici, né un conto in Svizzera, né una madre dentista con 5,5 milioni alle Bahamas (brava, ma un po’ cara). Il Giulio, che sta all’Attilio come Mario Santonastaso sta a Pippo, ha commentato l’audio, diffuso dal Corriere, della riunione del 4 marzo con Fontana e il ministro Speranza. Si parlava dell’ipotesi di una zona rossa ad Alzano e Nembro: i comuni della Val Seriana alle porte di Bergamo dove il 22 febbraio era esploso il secondo focolaio lombardo dopo quello di Codogno (subito cinturato dal governo). E il contributo di Gallera fu memorabile: “Secondo me, l’idea della zona rossa lì, al di là che dia il messaggio che magari non è perfettamente lì… però c’abbiamo il secondo focolaio, sta crescendo… bisognerebbe proprio…”. Ci scusiamo con i lettori per l’idioma di ceppo non indoeuropeo balbettato dall’assessore, ma è testuale. Voi cosa ci capireste? Che sta invocando la zona rossa? A parte il fatto che, nel caso, avrebbe dovuto già disporla lui da 11 giorni, in base alla legge 883/1978 sul Ssn. Ma no, non la chiede neppure il 4 marzo, quando ormai il contagio dilaga. Tant’è che Speranza, allertato il giorno prima non da Gallera ma dall’Iss, dice in italiano: “Tutto quel che abbiamo fatto finora non porta nessun segnale minimo di contenimento, ancora zero”. Ma Gallera minimizza: “É presto, e poi il dato è un po’ grezzo”. E attende il governo. Che si muove il 5, appena l’Iss raccomanda la zona rossa, e fa di più: due decreti per chiudere l’intera Lombardia (7 sera) e poi tutt’Italia (10).
Ora il Corriere domanda a Gallera perchè non chiese a Speranza la zona rossa. E lui: “Cosa dovevamo fare? Urlare o mettergli le mani addosso?”. No, bastava disporla o – in mancanza di coraggio (Confindustria non voleva) – chiederla. “Eravamo gli unici a spingere… abbiamo fatto di tutto per convincerli”: forse con la telepatia, visto che dagli atti risulta l’opposto. Per 11 giorni non chiede mai la zona rossa in privato (vedi audio). E chiede addirittura di non farla in pubblico: “Nuove zone rosse non sono all’ordine del giorno, Alzano compreso” (29.2), “Più che fare la zona rossa, isoliamo i positivi” (2.3). Negli anni 80 spopolava Uri Geller, l’illusionista anglo-israeliano che piegava i cucchiai e fermava le lancette degli orologi con la forza del pensiero. Ora abbiamo Uri Galler, l’illusionista padano che tenta di piegare i governi e fermare le pandemie con la forza del pensiero. Purtroppo gli manca il pensiero.