martedì 3 novembre 2020

Il cavaliere nostro. - Marco Travaglio

 

“Me so’ fatto fa’ ’na piscinetta… ’st’estate ce devi venì! Io me ne sto bono bono in auto-clausura e aspetto… Ci ho pure tre galline che me fanno l’ovetto fresco…”. Quando chiamava Gigi – e capitava spesso, specie durante il lockdown per ridere un po’ dei virologi da divano che dicevano tutto e il contrario di tutto nella stesso programma, spesso nella stessa frase (“Ma come fanno? Boh”) – stentavi a credere che fosse proprio lui: il più grande mattatore vivente. Ora che questo 2020 di merda ci ha portato via anche lui, proprio mentre un inutile cinquantenne twittava sull’inutilità degli ottantenni, si affollano i ricordi di un’amicizia nata grazie al Fatto. Proietti ci leggeva per primi, poi telefonava per commentare, suggerire, soprattutto sghignazzare (“Chi non sa ridere mi insospettisce”). Ogni tanto ci mandava uno stornello, un sonetto in romanesco (“Se pubblichi, non mi firmare: metti ‘Agro Romano’…”). Una volta, alla nostra festa all’isola Tiberina, doveva essere un’intervista e invece portò il suo pianista Mario e fece uno spettacolo intero col meglio del suo repertorio (“aggràtise”): da Nun me rompe er ca’ a Pietro Ammicca, dal Cavaliere nero a Toto nella saùna (con l’accento sulla u), dal vecchietto delle favole sconce all’addetto culturale pieno di tic al prof che declama La pioggia nel pineto in barese. Il meglio di A me gli occhi please, poi travasato in Cavalli di battaglia, che doveva andare una sera sola all’Auditorium e diventò un tour infinito, sempre sold out.

Frammenti di memoria e lampi di genio si mischiano alle lacrime. Il nasone fin sopra la fila di denti bianchi. Gli occhi che roteano. Il vocione cavernoso da fumatore. La risata aperta e la gioia di strapparne agli altri. Sempre in scena, anche per strada e in trattoria. L’opposto del cliché del grande comico, allegro sul palco e sul set, cupo e depresso in privato: a lui ridere piaceva un sacco, almeno quanto far ridere. Lui nel camerino del Globe Theatre a villa Borghese, qualche estate fa, esausto e zuppo di sudore dopo due ore di Edmund Keane con 30 e passa gradi: “Che fate, annate a cena da Dante? Io nun so se me la sento, stasera avrò perso cinque chili…”. Poi si presenta al ristorante e ci ammazza di barzellette e aneddoti su Gassman, Bene, Fabrizi e Stoppa fino alle tre di notte, lui fresco come una rosa, noi tramortiti. “Questa la sapete senz’altro…”. “Questa è troppo feroce… che faccio, la racconto?”. “Marché, famme fa’ ’n tiro de sigaretta, mentre Sagitta nun guarda. E dammene ’n’artra de frodo, che me la fumo quanno tutti dormono…”. Ancora domenica mattina, in rianimazione, con la compagna di sempre Sagitta, le figlie Carlotta e Susanna, il manager Alessandro Fioroni, parlava di lavoro.

Del film in uscita su Babbo Natale con Giallini. Della stagione appena chiusa al Globe, unico grande teatro aperto in Italia (“Chissenefrega dei soldi, io i fondi del Fus non me li intasco, facciamo lavorare ’sti ragazzi prima che richiudano tutto”). Dei progetti futuri: rivoleva un teatro tutto per sé, dopo lo scippo del Brancaccio a opera di Costanzo&C., progettava con Renato Zero un nuovo teatro tenda come quello degli anni 70-80 (“Renato fa i concerti e io metto in scena tutto Molière, sto convincendo Corrado Guzzanti e Verdone ad alternarsi con me, tu mi fai il teatro-giornale e magari rimetto su la scuola di teatro che la Regione mi ha chiuso”; seguiva imitazione irresistibile del funzionario dell’assessorato che gli comunica, a gesti e a grugniti, le ragioni dello stop). Un anno fa viene a vedere Ball Fiction e alla fine, in camerino, si accorge di aver perso il portafogli. La nostra Amanda si precipita in sala e lo trova sulla sua poltrona. “Vedi, Gigi, i nostri amici sono tutti onesti!”. “Ma va, penzano che nun ci ho ’na lira!”.

All’ultima festa del Fatto, in streaming dal giardino della redazione, doveva venire alla serata di apertura: “Magari chiacchieriamo di come nascono le barzellette, che molti considerano umorismo di serie B perché non le sanno raccontare, non hanno i tempi, la faccia. Il mistero umano di come scocca la scintilla della risata è un tema affascinante. Potrebbe nascerne uno spettacolo, ho letto anche dei saggi molto pensosi…”. Perché era coltissimo, come lo sono quelli che lo dissimulano e si fanno beffe dei colleghi engagé (“Natale in casa Latella”) o “di ricerca (“‘Sospendete immediatamente le ricerche!’, diceva Gassman quando li vedeva”). Ma stava già male (“Famo ’st’altr’anno”). Un paio di mesi fa feci una battuta in un pezzo sugli orrori di stampa: “Se tornasse Il Male con un falso giornalone dal titolo ‘Arrestato Gigi Proietti: è il capo dell’Isis’, tutti commenterebbero: embè?”. Ed ecco puntuale il suo sms: “Salam da Rebibbia! Speravo di passare inosservato, poi invece arriva Travaglio. E scusa: il turbante non lo trovo, acc…”. Lo inseguivamo da due settimane per l’intervista degli 80 anni. Silenzio. Poi, sabato sera, l’sms: “Caro Marco, purtroppo al momento non sono in grande forma e l’intervista temo non si possa fare, poi ti racconterò. Ci sentiamo con calma. Ti abbraccio”. Solo a lui poteva venire in mente di nascere e morire lo stesso giorno, il 2 novembre. Che per un comico non è niente male. Anche Shakespeare ci era riuscito, ma il 23 aprile, non il giorno dei morti. Si dice che far ridere sia impresa molto più difficile che far piangere. E Gigi ne era la prova vivente. Ma ieri, con quell’uscita di scena, è riuscito nelle due imprese insieme.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/03/il-cavaliere-nostro/5989342/

lunedì 2 novembre 2020

Gigi Proietti "Il cassamortaro" -



Ti vogliamo ricordare così.

Ma mi faccia il piacere. - Marco Travaglio

 

Congiuntivite. “Siamo stati anche i primi a riconoscere che il sacrificio che hanno fatto i veneti, dovesse essere poi ricon… stat… fosse, dovesse essere stato… avess… insomma fosse… fosse stato… mi sono incasinato coi verbi… lo devo dire col condizionale giusto” (Luca Zaia, Lega, presidente Veneto, 27.10). Prima regola: conoscere il nemico.

Il virologo del grappino. “In Lombardia situazione migliore del previsto” (Fabio Rubini, Libero, 29.10). Malgrado Fontana e Gallera c’è ancora qualcuno vivo.

Il virologo di Pulcinella. “Oggi in Campania la situazione del Covid 19 è pienamente sotto controllo” (Vincenzo De Luca, Pd, presidente Campania, alla vigilia delle Regionali, 18.9). “Già oggi dovremmo prendere decisioni drastiche” (De Luca, dopo le elezioni, 9.10). “È indispensabile subito il lockdown. È necessario chiudere tutto, fatte salve le categorie dei beni essenziali. In ogni caso la Campania si muoverà in questa direzione a brevissimo” (De Luca, 23.10). “Chiedo che ristoranti e bar restino aperti fino alle 23” (De Luca sul Dpcm di Conte che li chiude alle 18, 25.10). “Serve muoversi in maniera unitaria; differenziazioni territoriali in Campania non sarebbero capite e sono improponibili” (De Luca, dopo le rivolte di piazza, 1.11). Non ho detto ciò che ho detto e, se l’ho detto, mi sono frainteso.

Il virologo del Papeete/1. “Siamo nel caos. Serve un Cts alternativo a quello ufficiale. Propongo di istituire un altro comitato: dieci scienziati autorevoli scelti dal Parlamento” (Matteo Salvini, segretario Lega, Verità, 26.10). Non vedo l’ora di vedere quello della Lega.

Il virologo del Papeete/2. “Ma perché dovrebbe esserci una seconda ondata di contagi? ‘Sta roba che dicono: ‘Attenzione attenzione! è a ottobre, è a novembre!’… Inutile continuare a terrorizzare le persone!” (Salvini, Aria Pulita, 7Gold, 25.6). Nostradamus gli fa una pippa.

Il virologo primate. “Secondo me i monopattini hanno ucciso più persone del Covid” (Alessandro Meluzzi, primate della Chiesa Ortodossa Italiana Autocefala Antico-Orientale, La Zanzara, Radio 24, 18.10). Vedi sopra.

Il Covid alla testa. “Appena guarito ho sognato un governo di unità nazionale presieduto da Mario Draghi. Tra i suoi ministri, oltre ai capi dei partiti di maggioranza e opposizione, le più  autorevoli e prestigiose personalità politiche e ‘tecniche’ di cui questo Paese dispone” (Massimo Giannini, Stampa, 1.11). Non bastava il Covid: pure gli incubi.

Tutta invidia. “Conte non faccia il populista” (Renzi, ibidem). Sarebbe concorrenza sleale.

Bollino di qualità. “Riforma Bonafede bocciata dai capi della Cassazione” (manifesto, 29.10). Quindi, a occhio e croce, dev’essere ottima.

Fuffa di Porro. “Il blocco dei licenziamenti è una cretinata” (Nicola Porro, Verità, 26.10). Giusto: impedisce di licenziare lui.

Senza parole/1. “’Atlantide’, le angosciose domande sulla morte di Pantani”, “Pantani è morto più volte. E’ morto quando fu appiedato senza alcun riguardo, come un delinquente, perchè nel suo sangue erano stati trovati livelli troppo alti di ematocrito” (Aldo Grasso, Corriere della sera, 26.10). Una domanda, in particolare: era dopato, oppure era dopato?

Senza parole/2. “Pantani voleva la verità. Gli dissero che nella coca avrebbe trovato risposte’. Intervista a Manuela Ronchi, manager delle star” (Repubblica, 29.10). “La risposta è dentro di te, epperò è sbajata!” (Corrado Guzzanti, Quèlo).

Putinate. “Riparte la disinformazione filorussa. Mattarella e il governo nel mirino. Servizi e Copasir indagano sull’ondata di tweet e fake news per alimentare le proteste di piazza contro i nuovi divieti” (Repubblica, 29.10). Ah, ecco chi è stato: Putin.

Cick to Cick/1. “Entrai nella P2 come si entra al Rotary. Credevo di farmi qualche amico al Corriere. Ma ero l’ultimo degli stronzi…” (Fabrizio Cicchitto, Foglio, 27.10). Il solito modesto: dài, proprio l’ultimo no.

Cick to Cick/2. “Poi pensai al suicidio” (Cicchitto, ibidem). Invece si iscrisse a Forza Italia.

Non sappia la destra. “Questo governo non può continuare a gestire il virus. Il governo Conte non è in grado… Conte e i suoi hanno fallito nella prima ondata, hanno fallito nel prevenire la seconda” (Domani, pag.1, 27.10). “Mi pare che sia assolutamente irresponsabile chiedere la sostituzione del presidente del Consiglio” (Domani, pag. 8, 27.10). Che fico: due giornali in uno.

La parola all’esperto. “La guerra del Pd a Calenda è suicida” (Roberto Giachetti, deputato Iv, Riformista, 28.10). S spera che lo ascoltino: nessuno meglio di lui sa come si perde.

Il titolo della settimana/1. “Basta bugie. Il virus della menzogna” (Giornale, 29.10). Sallusti ha deciso di consegnarsi?

Il titolo della settimana/2. “Berlusconi candidato al Quirinale. Il patto di fedeltà nel centrodestra. Vespa rivela la promessa di Salvini e Meloni per tenere unita la coalizione” (Corriere della sera, 29.10). Dài che forse abbiamo trovato qualcuno più bugiardo di B.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/02/ma-mi-faccia-il-piacere-208/5987799/

domenica 1 novembre 2020

Catastrofisti voluttuosi. - Marco Travaglio



Confesso un mio limite: non capisco la voluttà con cui, mentre le persone responsabili fanno tutto il possibile per scongiurare il dramma di un nuovo lockdown totale, personaggi anche rispettabili continuano a sparare cifre e giudizi a casaccio senz’alcuna attinenza con dati, fatti e i problemi reali. L’altra sera, in tv, Veltroni col librino sottobraccio ripeteva la gnagnera dell’aumento esponenziale della curva, che invece è costante da una settimana: basta guardare non il tasso di positività (rapporto positivi-tamponi): lunedì era al 13,6%, ieri al 14,7%. Che c’è di esponenziale in un punto percentuale? Idem per l’aumento dei ricoveri in terapia intensiva, che si è persino ridotto: erano 127 martedì e 125 mercoledì, poi negli ultimi tre giorni sono scesi a 115, 95 e 97. I 297 di ieri sono un dato terribile, che però risale a contagi di almeno due settimane fa. Ciò che può mandare in tilt gli ospedali sono i ricoveri ordinari, che però da una settimana aumentano anch’essi in modo costante: lunedì +991, ieri +972.

A questo ritmo, gli ospedali non reggono. Ma non reggerebbero nemmeno se fossimo il Paese più organizzato del mondo, cioè se governo e soprattutto Regioni non avessero sbagliato nulla. Perciò si spera che i medici di base superstiti (circa 40mila) aiutino gli ospedali ad alleggerire la pressione, curando i pazienti con sintomi lievi a casa. Il commissario Arcuri s’è appellato a loro e ai pediatri di libera scelta, promettendo da lunedì 10 milioni di testi molecolari rapidi antigenici per chiunque sappia di aver avuto un contatto stretto con un positivo. Speriamo che arrivino e aiutino ad abbattere l’aumento dei ricoveri, lasciando a casa i tanti paucisintomatici che oggi corrono ai pronto soccorso anche per una febbre a 38. Su questa trincea si decide se torneremo ai domiciliari o no. Fermo restando che zone fuori controllo come Milano, Brianza, Varese, Napoli, forse Genova, Torino e Cuneo vanno chiuse subito per qualche settimana. Anzi dovrebbero già esserlo da un pezzo se gli sgovernatori (e alcuni sindaci) non fossero degl’irresponsabili. Ma, anziché concentrarsi sulle questioni cruciali, il dibattito pubblico vaga nell’iperuranio: dal rimpasto al Mes, dalla crisi di governo alle larghe intese (idea geniale lasciare senza guida il Paese in piena seconda ondata). E il ritorno all’autoflagellazione compiaciuta. “Dobbiamo smetterla di dire che siamo stati bravi”, intimava Veltroni. E perché mai, visto che ce l’hanno riconosciuto tutti gli altri Paesi, la Ue, le organizzazioni e i giornali internazionali? E visto che le ultime misure del governo Conte sono state ancora una volta riprese da Francia e Germania?

Massimo Gramellini, sul Corriere, scrive che “politici e amministratori hanno passato l’estate a farci la predica, mentre loro vivevano alla giornata e discettavano di banchi a rotelle”. Forse non ricorda che, mentre alcune Regioni riaprivano le discoteche, il governo non faceva prediche né discettava di banchi a rotelle (piccola porzione dei 2,4 milioni di nuovi banchi acquistati per le scuole): si batteva in Europa per avere la fetta più grossa del Recovery Fund e la otteneva (209 miliardi), assumeva 34 mila medici e infermieri, stanziava 8 miliardi per la sanità (che purtroppo è regionale, infatti non ne ha speso neppure 1), organizzava la riapertura delle scuole in sicurezza da tutti ritenuta impossibile (anche dal Corriere) e prorogava lo stato d’emergenza con tutti contro (incluso il Corriere con Giucas Cassese). Faceva errori, certo: per esempio sui trasporti, anche se è impossibile acquistare decine di migliaia di autobus in pochi mesi. Ma ora Veltroni vuol sapere perché quest’estate non si è ricostruita la medicina di base sul territorio: come se in tre mesi si potesse rimediare a 30 anni di tagli e privatizzazioni, quando lui non faceva ancora il giallista, il regista e il giornalista, ma il vicepremier e il segretario del Pd.

Ecco: è questa voluttà catastrofista un tanto al chilo che dà l’orticaria anche più del “Covid governo ladro” delle opposizioni di ogni colore, anche perché non serve a nulla, salvo forse a vendere qualche libercolo. La stessa voluttà che porta una persona seria come Carlo Verdelli a scrivere sul Corriere che abbiamo “la curva peggiore d’Europa” (invece abbiamo la meno peggiore, dopo quella tedesca). E che “non è come a marzo, è molto peggio”. Ma a marzo finiva in ospedale il 50% dei positivi, oggi il 6% (0,6% in terapia intensiva), mentre il 94% è asintomatico e sta a casa. E i ricoverati sono, sì, troppi. Ma le degenze durano la metà (7-9 giorni contro i 15-17 della prima ondata), grazie a diagnosi precoci, età media più bassa e progressi nelle cure; quindi la capienza dei posti letto è raddoppiata. E ora il prof. Rino Rappuoli annuncia per marzo la cura con gli anticorpi monoclonali. Secondo Verdelli, Conte deve scusarsi per “l’imperdonabile errore” di annunciare “un vaccino che non arriverà a dicembre”. E allora perché il governo Merkel prepara un piano per distribuirlo già da fine 2020? E se poi fosse a gennaio, cosa cambierebbe? Se si riuscisse ad averne abbastanza per mettere in sicurezza anziani e personale sanitario, gran parte del problema sarebbe risolta: i giovani positivi sono quasi tutti asintomatici. Per questo, con buona pace dei catastrofisti voluttuosi, oggi è molto meglio che a marzo: perché si intravede il traguardo.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/01/catastrofisti-voluttuosi/5987161/

sabato 31 ottobre 2020

Morto Sean Connery: l’attore si è spento nel sonno. Dal ruolo di James Bond che non si è più scollato di dosso al rifiuto de Il Signore degli Anelli. - Davide Turrini

 

L’agente 007 inventato da Ian Fleming che Connery interpretò casualmente per la prima volta nel 1962, 007 – Licenza di uccidere (in originale Doctor No), diventerà la sua fortuna, come del resto anche una sorta di cliché zavorra difficile da mettere da parte per nuovi ruoli, anche se con quel Jimmy Malone de Gli Intoccabili (1988) per il quale vinse un Oscar.

Addio Sean Connery. L’attore scozzese è morto la scorsa notte nella sua villa alle Bahamas. La scorsa estate aveva compiuto 90 anni. Lontano dagli schermi oramai dal 2003 (La leggenda degli uomini straordinari), la sua ultima immagine, una foto paparazzata pochi mesi fa con un teleobiettivo era stata pubblica dai tabloid inglesi recentemente. Mentre risalgono al 2017 le foto ufficiali della sua presenza in tribuna, tra l’altro in notevole forma, agli US Open. Eppure Connery, amato da tutte le donne (e chissà anche da molti uomini) del mondo, rimarrà immortale – più lui, Ramirez, che l’highlander botulinizzato Christopher Lambert – vestito in smoking, pistola d’ordinanza, parrucchino, brillantina e sorriso affabile nella silhouette universale di James Bond. L’agente 007 inventato da Ian Fleming che Connery interpretò per la prima volta nel 1962, 007 – Licenza di uccidere (in originale Doctor No) – diventerà la sua incredibile fortuna professionale, come del resto anche una sorta di clichè zavorra difficile da mettere da parte per nuovi ruoli. Anche se nel 1987, con il sergente di polizia Malone de Gli Intoccabili, per il quale vinse un Oscar come attore non protagonista, fu davvero un’interpretazione di valore immenso. In Connery ovvero in quel suo elegante e mai scomposto Bond, sempre sugli scudi, sempre in pericolo, ma sempre disinvolto e audace nel tirarsi fuori dalle trappole mortali più sadiche impostegli dai suoi nemici, gli spettatori riconobbero subito una sorta di presenza rassicurante, fisicamente aitante e fascinosa, che gli rimase appiccicata addosso come un marchio di fiducia senza tempo.

Già, il corpo come croce e delizia di Connery, ragazzone alto e robusto nato ad Edimburgo da papà camionista e mamma cameriera. Fisico slanciato, atletico, proporzionato, con un viso ed un sorriso magnetici, eppure con un problema non da poco di cui molti non si accorsero da subito. Connery già da giovanissimo era calvo. Tanto che il toupet utilizzato per farlo diventare 007 rimase segreto per alcuni anni, fino a quando ne La collina del disonore (1965), un sottovalutato film antimilitarista di Sydney Lumet, con Connery protagonista soldato ribelle in un campo di prigionia, si cominciò a scorgere il parrucchino mancante di Bond. Connery aveva fatto di tutto nella vita, prima di iniziare a 19 anni, una breve carriera da modello (anche nudo). La partecipazione a Mister Universo (1953), dove arrivò terzo, fu il suo trampolino di lancio per la carriera d’attore, tanto che sul finire degli anni cinquanta interpretò piccole parti in film per la tv diretti da registi inglesi e anche in una produzione Disney.

Poi all’improvviso la luce. Albert Broccoli e Harry Saltzman, detentori dei diritti della spy story di Fleming, scelgono senza grande entusiasmo, dopo aver scartato ogni attore possibile (Cary Grant, Rex Harrison, Gregory Peck, David Niven, Trevor Howard, ma anche il vincitore del concorso indetto proprio per quel ruolo, tal Peter Anthony), lo sconosciuto Connery (la particina nel kolossal Il giorno più lungo è successiva al set di 007 anche se risulta dello stesso anno). Al trentaduenne attore scozzese fanno stipulare un contratto per cinque film. Connery ne interpreterà poi sei. Ma il successo arriva subito nel ’62. Dopo seguono: Dalla Russia con amore, Missione Goldfinger (dio quanto ci piace questo film e la sequenza di Bond che sta per essere tagliato in due da un laser), Thunderball e Si vive solo due volte. Ricoperto letteralmente d’oro, Connery lascia. Capisce che a continuare si farebbe solo del male. Così lasciando in ambasce Broccoli&co, che infatti scelgono per rimpiazzarlo il fiasco George Lazenby, Connery si avventura nel mare aperto di una Hollywood che comunque sta cambiando pelle cinematograficamente ed esteticamente.

La tradizionale figura tutta d’un pezzo del bellone anni cinquanta/sessanta non tira più di fronte a nuovi modelli di fascino maschile più attenti a doti più caratterialmente stanislavskijane (si pensi ai Pacino, Hoffman, Redford). Tra il ’69 e il ’71 non ha grande fortuna tra il western atipico Shalako, la grande produzione italo-russa de La tenda rossa (dove interpreta l’esploratore Amundsen) e il bel film storico politico di Martin Ritt, I cospiratori, dove con un ciuffo ribelle interpreta un capo incazzato di un gruppo di minatori nella Pennsylvania del 1876. Il flop dello 007 con Lazenby spinge la produzione a richiamare Connery che, a sua volta, non era riuscito a rilanciarsi oltre lo smoking dell’agente segreto al servizio di sua maestà. Siamo nel 1971, Connery tentenna, ma alla fine cede per il compassato capitolo della saga Una cascata di diamanti. Ritorno comunque felice, anche se è il seguito che torna a far preoccupare il quarantenne Sean.

Nel 1974 si dà alla fantascienza, protagonista di Zardoz di John Boorman, titolo curioso e sui generis, ma non memorabile; seguito poi da un buon successo di pubblico in Assassinio sull’Orient Express, sempre regia di Lumet; e poi nel 1975, con due interpretazioni in cui mostra doti che vanno ben oltre lo sguardo sciupafemmine, rimaste però sempre laterali, ai margini del mainstream dell’epoca. Fa coppia con uno scoppiettante Michael Caine, ne L’uomo che volle farsi re di John Huston, interpretando un lestofante avventuriero di fine ottocento che assieme al compare vuole conquistare il titolo di re di una ignara tribù; poi è un attempato e acciaccato Robin Hood in Robin e Marian di Richard Lester assieme a Audrey Hepburn. Come dire, per noi, basterebbe già. Idolo dei nostri cuori e delle nostra cinefilia autoriale anni settanta. Però a Connery qualcosa non torna. Manca la parte della vita, quella che lo faccia uscire almeno per una volta dal ruolo di James Bond. Ne prova diverse per almeno sei sette anni, fino a quando torna a passare dal via. Nel 1983 riveste i panni di 007, in Mai dire mai, che oramai anche i sassi sanno non essere capitolo ufficiale della saga inventata da Fleming, perché non prodotto da Broccoli e dalla United Artists. Connery dà vita comunque ad un Bond ultraquarantenne che già si lecca le ferite di una vita di spia.

Sarà tra l’altro il regista Irving Kershner a suggerire il titolo del film su una frase detta da Connery nel 1969 dopo l’ultimo suo Bond: “Mai dire mai”. Volente o nolente, l’icona che l’ha marchiato per sempre lo rilancia e per sette anni dà vita a personaggi che gli faranno vivere la fase della maturità. Dicevamo in apertura del ruolo di Ramirez in Highlander, a cui seguono l’arguto, risoluto e potente frate Guglielmo da Baskerville ne Il Nome della Rosa e nel 1986 finalmente la consacrazione, con Oscar, dello splendido poliziotto irlandese della Chicago proibizionista anni venti: il Jimmy Malone de Gli intoccabili. Il film di De Palma sprizza sangue e glamour da tutti i pori. Mentre al pool speciale anticorruzione di Elliott Ness (un Kevin Costner da urlo) per incastrare Al Capone (Robert De Niro “siete solo chiacchiere e distintivo”) si aggiungono la recluta Andy Garcia, l’esperto fiscalista Oscar Wallace e Malone. Il poliziotto scafato e saggio, schizzato anche lui dal fango della corruzione imperante, ma onesto quanto basta per diventare il simbolo della lotta contro il male e leader morale del piccolo gruppo. Script di David Mamet, colonna sonora sontuosa di Morricone, Connery muore ucciso barbaramente, crivellato di colpi, sanguinante e urlante dentro casa, in una delle sequenze più tragiche della storia del cinema. Morte che Ness vendicherà in un’altra vertigine visiva di questo capolavoro di De Palma.

Va bene, aggiungiamoci pure un’altra particina per l’amico Lumet – Sono affari di famiglia (1989), mettiamoci pure Caccia a ottobre rosso (1991), ma oramai per Connery nemmeno sessantenne è giunto il momento dei camei da grande vecchio: si veda il re Riccardo in Robin Hood principe dei ladri (sempre Costner ad attenderlo per la consacrazione); Il primo cavaliere, un’opera un po’ pacchiana ma è su grande schermo a contendere la palma di più figo con niente meno che Richard Gere; infine infine gareggia in avventuroso istrionismo, febbrile archeologica ironia, in Indiana Jones e l’ultima crociata (1989), dove ricopre il ruolo del papà di Indy (Harrison Ford), chiudendo da star di Hollywood che non ha più niente da chiedere alla sua carriera d’attore. Si ritirerà nella sua amata villa delle Bahamas, con l’altrettanto amata moglie Micheline (45 anni di matrimonio), a giocare a golf, e rifiutando la parte di Gandalf ne Il signore degli anelli.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/10/31/morto-sean-connery-lattore-si-e-spento-nel-sonno-dal-ruolo-di-james-bond-che-non-si-e-piu-scollato-di-dosso-al-rifiuto-de-il-signore-degli-anelli/5986695/

Come auto lesionarsi, chi la fa, l'aspetti.

 


Chiudere i vecchi, la nostra via virale al darwinismo etico. - Daniela Ranieri

 

Lo studio dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) condotto dal ricercatore Matteo Villa stima che, poiché l’82% dei morti per Covid ha più di 70 anni e il 94% più di 60, isolando solo le persone anziane si ridurrebbe drasticamente la mortalità, si libererebbero le terapie intensive e si eviterebbe un lockdown generale, paralizzante per la comunità e distruttivo per l’economia. Lo studio intravede dei problemi logistici (dove isolare gli anziani che vivono coi figli?), e ne adombra di comportamentali (accetterebbero di auto-isolarsi?), ma trascura del tutto quelli antropologici ed etici. Noi siamo un Paese di famiglie, unità sociali che in molti casi hanno permesso di sopperire alle lacune del welfare sotto i colpi della prima ondata. È vero che il contagio avviene per lo più in famiglia: persone che per tutta la primavera e l’estate hanno adottato mille accorgimenti sanitari sono venute in contatto con chi alla fine della clausura si è concesso una vita sociale più attiva, e il virus ha colpito laddove le distanze tra persone si restringono, ci si concede l’abbraccio e si cerca riparo. Come un mantra consolatorio (e falso), da marzo ci ripetiamo che “muoiono solo i vecchi”, più fragili e soggetti ad avere malattie pregresse. Questo stride con i diktat progressisti di una società improntata alla prevenzione e alla medicalizzazione, con cui si cerca di procrastinare la morte stanando ogni possibile malattia e consentendo attraverso i farmaci di allungare l’età media. Perciò la nostra società invecchia progressivamente: i 37 miliardi sottratti alla Sanità pubblica in 7 anni e i 5 milioni di poveri non compaiono nelle statistiche in cui finiscono triturate vite, biografie di anziani che magari, fossero stati più in salute, non sarebbero morti.

Il Covid ha annullato queste conquiste (o dogmi, a seconda di come si intende la dialettica tra scienza e natura), come fosse l’incarnazione di una Parca, o Moira, capace di recidere il filo che eroicamente la Medicina aveva tessuto per tenerci attaccati alla vita. Questo virus destinale ci ha “donato” una specie di fatalismo, sfociato nel vitalismo dell’estate e nel darwinismo etico che oggi ci fa pensare di poter sterilizzare le vite di un terzo o di un quarto degli italiani per non bloccare noi sani, pronti a goderci il rischio dell’infezione. Certo, la soluzione proposta nello studio è mossa dalla volontà di salvare il “sistema” proteggendo anzitutto i vecchi (cioè gli improduttivi); ma siamo sicuri che non sia invece l’altra faccia, il volto speculare dello stesso nichilismo? Al di là degli aspetti costituzionali (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”), in definitiva si tratterebbe di lasciare i nostri vecchi da soli di fronte alla paura e alla morte. Si vive tutta una vita per comprendere il senso del dolore e dell’amore: noi doneremmo a chi è arrivato all’ultimo tratto della vita un presente disinfettato, impaurito, con la consolazione di lasciar vivere noi e con la promessa di un futuro sanificato che sarebbe solo più vicino. Il freddo della morte sociale portato da questa separazione igienica non è meno rigido del freddo della morte biologica.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/31/chiudere-i-vecchi-la-nostra-via-virale-al-darwinismo-etico/5986399/