Immerso nelle montagne Sarawat in Arabia Saudita, questo apiario medievale del 1200 circa d.C. ospitava 1.200 alveari, rendendolo un sito chiave per la produzione del miele. Le complesse terrazze in pietra sono uno splendido esempio di innovazione e adattabilità di chi le ha costruite, consentendo un utilizzo efficiente delle risorse naturali della regione. Questo sito offre uno scorcio affascinante delle tecniche agricole medievali nella penisola arabica, evidenziando la ricca storia della produzione di miele nella zona.
Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
martedì 22 ottobre 2024
domenica 20 ottobre 2024
Questo è K2-18b.
K2-18 b, noto anche come EPIC 201912552 b, è un esopianeta che orbita attorno alla stella nana rossa K2-18, situata a circa 111 anni luce dalla Terra.[1]
Il pianeta, scoperto attraverso il telescopio spaziale Kepler, ha circa otto volte la massa della Terra con un'orbita di 33 giorni. Si trova all'interno della zona abitabile della stella, rendendolo un candidato potenziale per la presenza di vita sul pianeta.
Nel 2019, due studi di ricerca indipendenti[2] hanno concluso, in base all'analisi congiunta dei dati forniti dai telescopi Kepler, Hubble e Spitzer che vi sono quantità significative di vapore acqueo nella sua atmosfera, una scoperta rivoluzionaria, la prima scoperta di questo tipo per un pianeta all'interno della zona abitabile di una stella.[3]
Scoperta
Il pianeta è stato scoperto con il metodo del transito nell'ambito della seconda parte della missione Kepler nel 2015. La stella madre è una nana rossa di classe M2.6 avente una massa e un raggio rispettivamente 0,36 e 0,41 volte quelli del Sole.[4] Analisi spettroscopiche suggerirono che il pianeta avesse caratteristiche simili a un mininettuno, ossia a una versione più piccola del gigante gassoso. Il pianeta riceve il 94% della radiazione che riceve la Terra dal Sole e la sua temperatura di equilibrio è stata stimata essere di 274 K (equivalenti a 0,85°C)[5]
Nel 2017 osservazioni col telescopio spaziale Spitzer confermarono che il pianeta orbitava nella zona abitabile di K2-18, indicando un periodo orbitale di 33 giorni circa, e che dato l'interesse che mostrava vennero programmate ulteriori osservazioni in futuro.[6]
Caratteristiche
Si stima che K2-18 b abbia un raggio di 2,71±0,07 r⊕ e una massa di 8,63±1,35 M⊕, a seconda della sua densità potrebbe essere una super Terra o, più probabilmente, un mininettuno senza superficie solida.[7] Tuttavia secondo studi del 2019 un confronto tra dimensioni, orbita e altre caratteristiche del pianeta con altri esopianeti rilevati ha suggerito che il pianeta potrebbe supportare un'atmosfera che contiene ulteriori specie chimiche oltre all'idrogeno e all'elio,[4] normalmente presenti nei giganti gassosi. Poiché il pianeta orbita all'interno della zona abitabile, è possibile che abbia acqua liquida o ghiaccio sulla sua superficie.[1][8]
Abitabilità
Sono stati effettuati ulteriori studi utilizzando il telescopio spaziale Hubble, consentendo ulteriori misurazioni dell'atmosfera del pianeta. Due analisi separate di ricercatori dell'Università di Montréal e dell'Università College di Londra (UCL) basate sui dati di Hubble sono state pubblicate nel 2019. Entrambe hanno esaminato gli spettri della luce stellare che attraversa l'atmosfera del pianeta durante i transiti, scoprendo che K2-18 b ha un'atmosfera di idrogeno ed elio con un'elevata concentrazione di vapore acqueo, che potrebbe variare da 0,01% a 12,5%, o arrivare anche fino al 50%, a seconda di quali altri elementi gassosi sono presenti nell'atmosfera. Ad alti livelli di concentrazione, il vapore acqueo sarebbe sufficiente a formare nuvole.[8][9][10]
Altri analisti, tuttavia, contestano l’affermazione che il pianeta sia potenzialmente abitabile. Un’analisi indica che è improbabile che i pianeti aventi 1,5 volte la massa della Terra abbiano una superficie rocciosa. Le dimensioni e la gravità di K2-18b renderebbero difficile per il mondo sostenere la vita. Tuttavia, trovare acqua in un esopianeta in una zona abitabile aiuta a capire come si formano i pianeti.[1] Uno studio condotto da astronomi dell'Università di Cambridge ha considerato la struttura interna del pianeta e ha trovato una serie di possibili soluzioni, da un nucleo roccioso avvolto da uno spesso involucro di idrogeno a un pianeta costituito principalmente da acqua con un'atmosfera più sottile, come potrebbe essere un pianeta oceanico. Un sottoinsieme di queste soluzioni potrebbe consentire la presenza di acqua liquida sulla superficie del pianeta, anche se a temperature e pressioni superiori alle condizioni standard (STP). In uno degli ipotetici modelli sviluppati dagli astronomi il pianeta sarebbe composto da un nucleo di ferro e roccia sovrastato da uno spesso anello oceanico, sulla cui superficie la pressione di una sottile atmosfera, composta da idrogeno, elio e acqua sarebbe di 130 atmosfere e la temperatura di 287 K.[11][12] 429 / 5000
Una simulazione dettagliata dello spettro planetario nel 2020 ha indicato che la banda di assorbimento di 1,4 μm attribuita in precedenza all'acqua potrebbe essere dovuta al metano. Le firme spettrali del vapore acqueo non sarebbero dominanti nei pianeti freddi (sotto i 600 K).[13][14] In uno studio del 2021, viene indicata che la presunta caratteristica spettrale di assorbimento dell'acqua potesse provenire da macchie stellari variabili nel tempo della stella madre, e non dall'atmosfera planetaria.[15]
Nel 2023 K2-18 b è stato osservato con il telescopio spaziale James Webb, il quale ha rivelato la presenza di molecole contenenti carbonio, tra cui metano e anidride carbonica, nella sua atmosfera. L'abbondanza di queste due molecole e la scarsità di ammoniaca supportano l'ipotesi che il pianeta possa essere un pianeta oceanico con un'atmosfera ricca di idrogeno. Inoltre il James Webb potrebbe aver fornito anche un possibile rilevamento di una molecola chiamata dimetil solfuro. Sulla Terra, questa molecola è prodotta solamente dalla vita, specialmente dal fitoplancton.[16]
Si prevede che l'esopianeta verrà studiato ulteriormente dal telescopio spaziale ARIEL, che verrà lanciato nel 2028. Il telescopio ARIEL, come il James Webb, sarà dotato di strumenti progettati per determinare la composizione delle atmosfere degli esopianeti.[8]
Il grande equivoco del big bang.
Amedeo Balbi, astrofisico e autore di diversi libri di divulgazione scientifica, ne ha pubblicato uno nuovo intitolato Il cosmo in brevi lezioni (Bur Rizzoli), dedicato a spiegare – come dice il sottotitolo – “Big bang, pianeti, galassie e buchi neri”. Il libro raccoglie – con le revisioni e gli aggiornamenti opportuni – gli articoli che Balbi ha pubblicato sulla rivista scientifica Le Scienze negli ultimi dieci anni, nella sua rubrica “La finestra di Keplero”: «Con l’avvicinarsi del decennale, mi sono reso conto che tutte quelle pagine ricostruiscono una storia che racconta lo stato attuale delle nostre conoscenze sull’universo», scrive Balbi nella premessa. Storia che inevitabilmente inizia dal big bang, anzi dal “Grande equivoco del big bang”.
Amedeo Balbi parlerà del suo libro a Napoli sabato 26 ottobre, all’interno di Talk del Post, assieme al disegnatore, fumettista e regista Gipi.
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C’è un equivoco persistente che riguarda l’origine del nostro universo e la sua descrizione scientifica. In soldoni, l’equivoco nasce dal fatto che si usa lo stesso nome, ovvero «big bang», per riferirsi sia a un modello sia a un evento. È una confusione seria, che porta a conclusioni fuorvianti, e di cui vale la pena discutere. Il modello del big bang è oggi la nostra migliore descrizione dell’evoluzione dell’universo osservabile nei passati 13,8 miliardi di anni. Secondo questo modello, l’universo ha raggiunto il suo stato attuale espandendosi ininterrottamente a partire da una condizione di altissima densità e temperatura, in cui tutta la materia era scomposta nei suoi costituenti fondamentali. Il modello del big bang poggia sulle solide basi della teoria della relatività generale di Einstein, su un quadro fisico messo alla prova fino alle più alte energie raggiunte negli acceleratori di particelle, nonché su una serie impressionante di evidenze: le più notevoli sono l’espansione dell’universo, l’esistenza di un fondo cosmico di radiazione a microonde, e la corretta previsione dell’abbondanza dei nuclei di elio e degli atomi più leggeri. È un modello di straordinario successo – almeno nei limiti in cui è applicabile – e che al momento non ha alternative credibili.
Tuttavia, la maggior parte delle persone (scienziati inclusi) usa il termine «big bang» in un altro senso, per riferirsi all’evento che avrebbe dato inizio al nostro universo.
E qui le cose si fanno confuse, per almeno due ragioni. La prima è che non è del tutto chiaro a quale evento ci si riferisca. La possibilità meno problematica è che si usi il termine «big bang» per indicare uno stato primordiale in cui densità e temperatura avevano valori enormi ma non infiniti, e da cui si è dipanata la successiva evoluzione dell’universo osservabile (descritta dal modello del big bang). In questo senso, che è quello generalmente inteso (magari senza dirlo in modo esplicito) dagli addetti ai lavori, il big bang non è altro che una fase all’interno di una cornice fisica preesistente, che si può descrivere ragionevolmente bene con le teorie conosciute.
Ma c’è un’altra possibilità, più problematica. Se si spinge ancora più indietro nel tempo la descrizione dell’evoluzione dell’universo basata sulla relatività generale, si arriva fatalmente a uno stato in cui la temperatura e la densità diventano infinite: è quello che i fisici chiamano una «singolarità». Questo stato segnerebbe l’inizio stesso del tempo e dello spazio, ed è quello a cui molti pensano quando usano la parola «big bang»: un istante che non ha un prima, l’improvvisa comparsa dal nulla di tutto ciò che esiste.
Purtroppo (e questa è la seconda e più grave ragione di confusione), mentre non abbiamo praticamente alcun dubbio sul fatto che l’evoluzione dell’universo sia iniziata 13,8 miliardi di anni fa da uno stato di enorme densità e temperatura (che possiamo continuare a chiamare «big bang» per comodità), non c’è alcuna prova che esso sia originato da una singolarità. Ed è proprio la comparsa degli infiniti a metterci in guardia: ci dice che la fisica che usiamo per spingerci in quei territori è inadatta a descriverli e che dovrà necessariamente essere aggiornata a una versione migliore, che ancora non abbiamo. Di fatto, le idee che i fisici teorici stanno esplorando, in questo senso, presuppongono che il nostro universo sia il risultato di processi precedenti, che per ora non abbiamo gli strumenti concettuali per comprendere. Ex nihilo nihil fit, dicevano i filosofi antichi: nulla viene dal nulla, e la cosmologia moderna, intesa correttamente, non avrebbe niente da eccepire.
sabato 19 ottobre 2024
Lo scorpione blu.
Meshgin-shahr - Iran
venerdì 18 ottobre 2024
Salpa fusiformis. - David Attenborough
giovedì 17 ottobre 2024
La Via Lattea si è scontrata con questo, non è una bella notizia.
Questi nuovi dati ci stanno dando una nuova immagine della nostra galassia.
Le collisioni e le fusioni tra galassie sono eventi giganteschi e lentissimi. Attualmente sappiamo che la Via Lattea sta inglobando piano piano le Grande e la Piccola Nube di Magellano. Ma qual è stata l'ultima imponente fusione di cui siamo stati protagonisti?
Secondo molti studiosi sarebbe avvenuta tra gli 8 e gli 11 miliardi di anni fa, ma una recente ricerca afferma che sarebbe ancor più fresca di così: "appena" 3 miliardi di anni fa.
Scontri galattici
"Diventiamo più rugosi man mano che invecchiamo, ma il nostro lavoro rivela che è vero il contrario per la Via Lattea. È una sorta di Benjamin Button cosmico, che diventa meno rugoso nel tempo", ha detto l'autore principale Thomas Donlon, ricercatore in Fisica e Astronomia presso l'Università dell'Alabama, Huntsville.
“Osservando come queste rughe si dissipano nel tempo, possiamo risalire al momento in cui la Via Lattea ha vissuto il suo ultimo grande incidente – e si scopre che ciò è avvenuto miliardi di anni dopo di quanto pensassimo”.
Questa teoria è stata avanzata grazie ai dati del progetto Gaia che supportano lo scenario di fusione più recente, la Virgo Radial Merger. Questi dati mostrano che le rughe sono molto più diffuse rispetto ai dati precedenti e agli studi basati su di essi.
"La storia della Via Lattea viene costantemente riscritta al momento, in gran parte grazie ai nuovi dati provenienti da Gaia", aggiunge Thomas. “La nostra immagine del passato della Via Lattea è cambiata radicalmente anche rispetto a dieci anni fa, e penso che la nostra comprensione di queste fusioni continuerà a cambiare rapidamente”.
https://www.esquire.com/it/lifestyle/scienza/a61748613/via-lattea-scontrata/