Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
venerdì 2 maggio 2014
Stephen Hawking: spiega perchè Dio non esiste.
Alla gente che mi chiede se fu dio a creare l’universo, rispondo che la domanda in sé non ha senso. Il tempo non esisteva prima del big bang, quindi non c’era un tempo in cui dio potesse creare l’universo, è come chiedere indicazioni stradali per il confine della Terra: la Terra è una sfera, non ha i bordi di una tavola, dunque cercarli sarebbe assolutamente inutile. Ciascuno di noi è libero di credere ciò che vuole. Dal mio punto di vista la spiegazione più semplice è che non ci sia alcun dio, nessuno ha creato l’universo e nessuno decide il nostro destino. Questo mi porta a una rivelazione profonda: probabilmente non esiste il paradiso né una vita ultraterrena, abbiamo solo questa vita per apprezzare il grande disegno dell’universo, e io di questa vita sono estremamente grato.
Stephen Hawking
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giovedì 1 maggio 2014
PER SCHIFICIO - Marco Travaglio - Il Fatto Q.-1 maggio 2014
Con tutto il rispetto per i malati di Alzheimer, si può dire che la scelta dei giudici sul servizio sociale di B. non poteva essere più azzeccata. Soltanto a persone prive di memoria la presenza di un simile badante, sia pure per appena quattro ore a settimana, può risultare tollerabile e scongiurare reazioni scomposte e gesti inconsulti fra i beneficiari, cioè fra le vittime. Quando gli storici del futuro cercheranno una spiegazione plausibile a quest’ultimo ventennio di storia italiana, penseranno a qualcosa di simile a un’epidemia di Alzheimer che obnubilò milioni di italiani, portandoli a sopportare e addirittura a votare una simile classe politica. Sarebbe ingiusto però circoscrivere il misterioso contagio agli elettori di Forza Italia, che secondo i sondaggi sono il 17-18%, cioè gli stessi che un anno fa votarono Pdl (22%), detratti i transfughi di Ncd (5%). Prendete per esempio Renato Schifani, con rispetto parlando.
L’altro giorno ha presentato un esposto all’Agcom per denunciare tutte le reti televisive in chiaro, da quelle Rai a quelle Mediaset a La7, perché a suo dire violerebbero la par condicio oscurando il Nuovo Centro Destra a vantaggio dei partiti maggiori. Pare si tratti dello stesso Schifani, chiedendo scusa alle signore, che il 15 febbraio 2000, quando il centrosinistra approvò la legge sulla par condicio, dichiarò: “La par condicio è una legge che ci allontana dall’Europa e ci avvicina al regime. La maggioranza vuol mettere il bavaglio alle opposizioni con una legge che fa dell’Italia l’unico Paese europeo in cui l’accesso al mezzo televisivo sarà paritario a tutti i partiti e non graduato, come nelle grandi democrazie. Le sinistre sferrano un duro colpo alla libertà di comunicazione, comprimono uno dei valori essenziali della democrazia, si macchiano di concorso esterno in comunismo e introducono regole tipiche di regimi totalitari”. Ciò che lo Schifani, parlando con pardon, non poteva proprio sopportare era che tutte le liste avessero diritto agli stessi spazi televisivi in campagna elettorale, senza riguardo per quelle che alle elezioni precedenti avevano preso più voti. Un principio che, se fosse valso nel 1994, avrebbe tagliato fuori Forza Italia da tutte le tv, visto che era appena nata. Ma il nostro sincero democratico se ne infischiava bellamente: tanto ormai Forza Italia c’era, e peggio per gli altri.
Così lo Schifani tornava sullo stesso concetto a ogni elezione. “La legge sulla par condicio – spiegò il 29 marzo 2008 – l’abbiamo sempre contestata perché appiattisce l’informazione ponendo sullo stesso piano piccoli e grandi partiti, con il rischio di deformare il consenso”. E il 2 febbraio 2013, mentre il Cainano imperversava a reti unificate, rincarò: “La legge sulla par condicio è ignobile”. Poi, il 18 novembre 2013, lasciò Forza Italia e aderì al Ncd. E subito uscì dal cono di luce dell’impero berlusconiano, che scoprì addirittura le sue vicende giudiziarie e lo restituì al suo peso specifico naturale: cioè zero. Fu così che il “principe del foro del recupero crediti”, come lo chiamava Filippo Mancuso, s’innamorò perdutamente della par condicio, specie nella parte che tutela i partitini. E così, mentre Angelino Jolie scopre di colpo la “macchina del fango” che tanto gli garbava quando inzaccherava gli altri, Schifani con rispetto parlando tuona contro “la grave violazione ai principi del pluralismo, della par condicio e della parità di accesso ai mezzi di informazione nei telegiornali e nei programmi di approfondimento di Rai, Mediaset e La7” a causa dei “ridotti tempi di notizia e di parola dedicati al Nuovo Centro Destra rispetto a quelli fruiti (sic) dalle altre forze politiche impegnate nella stessa competizione elettorale”. E invoca addirittura “i provvedimenti di legge”: pene esemplari per leso Ncd. Il tutto in base a una legge che ancora l’anno scorso giudicava “ignobile”. Bei tempi quando diceva che, con la par condicio, “le sinistre si macchiano di concorso esterno in comunismo”. Lui, comunque, s’è portato avanti col lavoro: infatti è indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Anche per marcare la differenza fra il Nuovo Centro Destra e quello vecchio.
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UN INFILTRATO NEL MIGLIORE DEI MONDI: AMAZON, LO SFRUTTAMENTO CON IL SORRISO. - SAMIR HASSAN
Intervista. «En Amazonie. Un infiltrato nel migliore dei mondi»: il giornalista e scrittore Jean-Baptiste Malet racconta le tremende condizioni lavorative del gigante del commercio online che ha provato sulla sua stessa pelle. «Percorrevo oltre 20km a notte tra gli enormi scaffali».
Come Amazon. «Il sorriso sulle scatole di Amazon non è certo quello di chi ci lavora, nonostante uno dei must dell’azienda sia proprio quello di inserire i suoi dipendenti in una socialità artificiale, fatta di regole, codici e senso di appartenenza: la solita litania dell’essere una “grande famiglia”».
Amazon non è però solo un’azienda: «è un sistema di produzione unico», afferma Jean-Baptiste Malet, giovane reporter francese in Italia per presentare il suo libro En Amazonie. Un infiltrato nel “migliore dei mondi” (Kogoi Edizioni).
L’incontro è avvenuto durante la fiera della piccola editoria a Roma. Oggetto dell’intervista è stato l’universo conosciuto durante la sua inchiesta: una preziosa testimonianza ricostruita dopo essersi fatto assumere (tramite agenzia interinale) dal colosso dell’«e-commerce» durante le festività natalizie dello scorso anno.
«Sono stati 3 mesi molto intensi. Facevo il picker nel turno di notte, 8 ore con due pause da 20 minuti; percorrevo oltre 20km a notte tra gli enormi scaffali dell’hangar di Montélimar, nel dipartimento della Drôme. Ma il problema reale non era solo la stanchezza. Era riuscire a mantenere i livelli di produttività richiesti».
Inutile dire che il libro di Malet, ironia della sorte, si trova anche su Amazon. Nulla di strano a pensarci bene: l’economia globale inghiotte ogni prodotto, anche quelli che la criticano. Parafrasando Humphrey Bogart nella celebre pellicola di Richard Brooks L’ultima minaccia, «è il capitalismo, bellezza. Il capitalismo! E tu non puoi farci niente. Niente».
Amazon si compiace di offrire la possibilità ai suoi utenti di acquistare comodamente con pochi click. Cosa c’è dietro lo schermo? Un’organizzazione del lavoro altrettanto digitalizzata?
Il sito di Amazon è il fiore all’occhiello del progetto. Quello che è difficile comprendere dall’interfaccia è che quella è l’unica componente informatizzata. Lo stoccaggio, il carico e l’imballaggio di ogni prodotto è affidato alla fatica di chi ci lavora: mani che spostano, braccia che alzano e gambe che trasportano. Nessuna creazione robotica.
Nei suoi stabilimenti il massimo dell’informatica presente sono i tornelli dove si timbra il proprio badge, i carrelli e i ripetitori wifi che ci fissano dalle alte scaffalature su cui viene stipata la merce. Camminando in un hangar di Amazon ci si accorge che l’unica macchina complessa che ci lavora è l’uomo.
Amazon viene presentato come un nuovo modello produttivo. È così?
Amazon utilizza in modo nuovo vecchi modelli di gestione della produzione, tipici del XX secolo. Ma i poli industriali del Novecento, seppur legati a un’idea di massimizzazione del profitto, permettevano ai dipendenti un’autonomia relazionale, un’autogestione dei rapporti personali. In Amazon questo non accade, anzi; c’è un forte controllo, invasivo, sia rispetto ai rapporti personali che alla performance lavorativa dei dipendenti. Persino ai manager non è richiesta la loro effettiva professionalità, la loro specifica competenza, ma uno sforzo congiunto per controllare i livelli di produttività dei lavoratori subordinati. Il lavoro e le intelligenze delle persone vengono sacrificati sull’altare della produttività e del controllo di questa produttività. Da questo punto di vista Amazon ha cambiato la tradizionale forma del lavoro.
Ma il punto forte di Amazon è la precarietà diffusa. Inoltre, apre i suoi stabilimenti in zone logisticamente ben servite, ovvero è necessario essere in prossimità di una rete stradale efficiente. La zona individuata deve inoltre registrare un alto tasso di disoccupazione. Maggiore è il tasso di disoccupazione, maggiore è la concorrenza tra i lavoratori e minore il salario di base. Infine, come le altre grandi multinazionali, sfrutta la bolla finanziaria che ha terremotato l’economia globale. Nei primi anni Amazon non generava profitti di rilievo, poiché si caratterizzava come intermediario di commercio e non come produttore. Nonostante ciò gli squali della finanza scelsero di investire sulle sue azioni.
Perché?
Il motivo è che anno dopo anno, spedizione dopo spedizione, il sistema Amazon stava distruggendo il piccolo commercio indipendente.
Un esempio, dunque, della «distruzione creatrice» cara a Schumpeter?
Sì. Chi investiva sulle azioni di Amazon sapeva che una nuova economia come quella avrebbe fagocitato le reti commerciali di prossimità nel giro di pochi anni, il che avrebbe permesso all’impresa di Jeff Bezos di operare, in un futuro molto prossimo, in condizione di assoluto monopolio.
Senza la Borsa, senza Wall Street, senza gli speculatori finanziari, Amazon sarebbe fallita nel giro di pochi anni.
Nella tua inchiesta parli di un accurato meccanismo di controllo (che arriva a disporre anche di numerosi vigilantes) teso a sviluppare nei lavoratori la convinzione di essere elementi inter pares della famiglia Amazon.…
È così. Il sistema di integrazione studiato da Amazon, e riassunto nel motto «work hard, have fun, make history» (lavora duro, sarai premiato, stai facendo la storia), si muove lungo un doppio binario. Da un lato il cosiddetto have fun, ovvero la possibilità per l’azienda di organizzare gratuitamente la vita sociale dei dipendenti dentro lo stabilimento, rendendo vana, inutile e costosa la possibilità di autorganizzarla fuori dall’hangar. Non tutti i lavoratori ne sono ammaliati, ma tutti usufruiscono di queste trovate: regali durante le festività, spettacoli, iniziative a sorpresa all’uscita dal turno, concorsi interni e riconoscimenti pubblici per la bravura lavorativa. Tutti orpelli che devono saldare la fedeltà del lavoratore all’azienda, spingendolo a dare il massimo in termini di produttività. D‘altro canto, se non dovesse bastare la sudditanza psicologica a «plasmare» il lavoratore, la presenza del controllo diviene tangibile, materializzandosi nelle perquisizioni campionarie ai lavoratori (per possibile taccheggio!), nell’essere trattato con sprezzante freddezza dalla vigilanza, nel sentirsi pendere sul capo la spada di Damocle del controllo aziendale.
Quale composizione sociale lavora tra gli scaffali?
In Francia, dove ci sono 4 stabilimenti, ho avuto modo di conoscere solo quanto avveniva in quello di Montélimar. In generale posso dire che la situazione francese è assai differente ad esempio da quella tedesca, perché non c’è un criterio d’assunzione identico per i diversi paesi. Mentre in Germania lavorano in maggioranza giovani di diverse nazionalità (per lo più greci, spagnoli, portoghesi e turchi) e c’è una forte richiesta di manodopera (9 stabilimenti), in Francia la maggior parte dei lavoratori sono giovani francesi che hanno tra i 25 e i 30 anni. In particolare, per ciò che concerne lo stabilimento di Montélimar, i migranti sono pochi (e per lo più maghrebini); forse anche perché la zona della Drôme non ha un’economia così fiorente e, trovandosi nel cuore della Francia, non è un passaggio transitorio dei flussi migratori.
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=13300
Dal Giappone agli Usa: barca sulla spiaggia, è un relitto dallo tsunami?
Una scialuppa interamente ricoperta di vegetazione e strani organismi marini che gli scienziati stanno analizzando per prevenire eventuali rischi. Il misterioso relitto è riemerso dall'Oceano Pacifico vicino la spiaggia di Ocean Lake, nello stato di Washington, a nord della costa occidentale degli Stati Uniti. Su di esso ci sono iscrizioni in lingua asiatica su cui la polizia sta investigando e per questo è stata contattata anche l'Ambasciata giapponese. Secondo le autorità, l'imbarcazione potrebbe essere stata inghiottita dal violento tsunami che ha devastato il Giappone nel 2011 e riemersa solo ora dalle acque. Si tratta del secondo caso di ritrovamento in pochi giorni. Nella galleria, le foto dell'Ocean Shore Police Department.
http://www.repubblica.it/ambiente/2014/04/30/foto/dal_giappone_agli_usa_relitto_sulla_spiaggia_forse_viene_dallo_tusnami-84907698/1/?ref=fbpa#1
Morte Magherini, 4 carabinieri tra i 9 indagati.
Riccardo Magherini
Si profila una nuova autopsia. I militari sono indagati con l'ipotesi di accusa di omicidio preterintenzionale.
Sono indagati i quattro carabinieri che intervennero per arrestare Riccardo Magherini, morto il 3 marzo scorso a Firenze. Hanno ricevuto un avviso di garanzia anche i cinque sanitari che portarono i primi soccorsi. Per i militari l'accusa sarebbe di omicidio preterintenzionale mentre per i sanitari di omicidio colposo. La conferma dell'avviso di garanzia per i nove indagati arriva dall'avvocato Francesco Maresca, a cui si sono rivolti i quattro carabinieri. Il legale ribadisce "totale e assoluta fiducia nel lavoro del pm Luigi Bocciolini, che farà chiarezza".
L'iscrizione nel registro degli indagati dei quattro carabinieri e dei cinque sanitari coinvolti nell'inchiesta sulla vicenda è la conseguenza della denuncia presentata dalla famiglia Magherini, in procura a Firenze. La denuncia, presentata con il legale della famiglia Magherini, l'avvocato Fabio Anselmo, era stata annunciata domenica scorsa. Nel documento venivano ipotizzati i reati ora contestati dalla procura: omicidio preterintenzionale per i carabinieri e omicidio colposo per i sanitari. L'iscrizione nel registro degli indagati consentirà ai carabinieri e ai sanitari di nominare propri consulenti in caso di nuovi accertamenti tecnico-scientifici Dopo la denuncia, la procura di Firenze ha deciso di sequestrare la salma e di bloccare il permesso per la sua sepoltura. Lo dice Fabio Anselmo, legale della famiglia Magherini, per il quale questo presuppone che "sarà effettuata una nuova autopsia".
Attraverso il loro legale, intanto, i carabinieri coinvolti invitano tutti "ad abbassare i toni e a non speculare sulla vicenda del povero Magherini", ritenendo che "debba cessare questo battage mediatico". I militari negano "ogni addebito" e Maresca annuncia la nomina di un consulente per effettuare ulteriori accertamenti.
''L'intervento dei carabinieri - spiega Maresca - è stato svolto nell'interesse del cittadino e dei cittadini, con tutte le precauzioni del caso, secondo il protocollo, nel pieno rispetto della legge come sempre fa l'Arma dei carabinieri. Magherini appariva fortemente alterato - prosegue il legale - e i militari sono intervenuti prima di tutto nel suo interesse, per mettere in sicurezza la situazione e consentire, prima possibile, l'intervento dei sanitari''. Ribadendo la vicinanza alla famiglia Magherini, Maresca, insieme ai carabinieri, ritiene ''si debba immediatamente interrompere questa ripetuta diffusione mediatica circa comportamenti non consoni dei militari che negano fortemente ogni addebito, e si mettono a disposizione del pm per ogni accertamento''. L'avvocato diffida, pertanto, ''chiunque anche sui social network, dove è stata sviluppata una campagna di attacco verso i militari, che va ad offendere l'onore e il decoro personale e professionale degli stessi. Ognuno risponderà delle dichiarazioni che fa e del modo con il quale vengono utilizzate queste dichiarazioni''
Derivati, firme false e dichiarazioni “estorte”, la sentenza Eurobox che condanna Unicredit. - Fiorina Capozzi e Gaia Scacciavillani
Il verdetto di primo grado del Tribunale civile di Salerno non è bastato a salvare l'azienda di imballaggi dal fallimento, ma ha fatto un po' di luce sul rapporto tra banche, imprese e finanza tossica. Anche se i quasi 2 milioni di euro oltre agli interessi e alle spese legali che l'istituto milanese è stato condannato a restituire, difficilmente ridaranno un lavoro alla quarantina di ex dipendenti della famiglia Mignano.
Troppo tardi. La sentenza di primo grado del Tribunale Civile di Salerno che il 19 febbraio 2014 ha dato ragione alla Eurobox contro Unicredit, se mai avesse potuto farlo, non è riuscita salvare dal fallimento la società di imballaggi metallici arrivato il 13 marzo scorso. Ma almeno ha fatto un po’ di luce sul rapporto tra banche, imprese e derivati che, in questo caso, è passato anche attraverso firme false e autorizzazioni “estorte”. Anche se i quasi 2 milioni di euro oltre agli interessi e alle spese legali che la banca è stata condannata a restituire a Eurobox, difficilmente ridaranno un lavoro alla quarantina di ex dipendenti della famiglia Mignano che all’inizio della storia, nel 1999, lavoravano per una piccola, ma promettente realtà imprenditoriale (31mila euro di utili su 5,8 milioni di euro di fatturato, con un debito bancario di 1,2 milioni) e che ora sono in mezzo ad una strada. Per di più in una regione, la Campania, dove il lavoro è una merce rara.
La storia è scritta nero su bianco nella sentenza che ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare e secondo la quale i contratti con cui Unicredit ha venduto 28 derivati alla Eurobox tra il 2000 e il 2004, non sono validi. Si tratta di prodotti finanziari altamente sofisticati e rischiosi che, lamenta l’azienda, “a dire della banca avrebbero eliminato ogni rischio e assicurato la ‘copertura’ relativa agli affidamenti concessi (quasi 3 milioni di euro, ndr)”. Ma che hanno invece “avuto esiti ampiamente negativi, causando alla società perdite incalcolabili, pari a circa 4 milioni di euro per il solo danno emergente, comprensivo della sorta capitale persa e degli interessi addebitati”, come si legge nel documento nella parte dedicata alle rivendicazioni di Eurobox.
LA FIRMA APOCRIFA SUI CONTRATTI - Alla base delle operazioni, i contratti quadro siglati dalle parti e dai quali dipende la validità delle successive operazioni, ma anche la relativa dichiarazione di operatore qualificato sottoscritta dalla società. Ed è proprio qui che mettono il dito i giudici avallando la posizione di Eurobox. Perché dei due contratti quadro prodotti dalle parti uno è risultato “a firma apocrifa”, quindi falso, in seguito a un accertamento di autenticità mediante consulenza grafica d’ufficio “che ha concluso per la natura apocrifa della firma disconosciuta” dal rappresentante legale della società. E, dunque è “da ritenersi inesistente”. Invece per quanto riguarda il secondo, non disconosciuto, i giudici notano che le operazioni poi realizzate non sono affatto quelle indicate nell’accordo, ma al contrario “presentano caratteristiche strutturali molto più complesse”. In sostanza “la funzione del contratto quadro, consistente nel regolamentare operazioni elementari che la banca avrebbe posto in essere sulle oscillazioni dei tassi di cambio, non ha alcuna attinenza con i prodotti finanziari posti in essere altamente sofisticati e difficilmente comprensibili, basati su di una ‘complessa combinazione di opzioni, parte in acquisto e parte in vendita’ che divenivano sempre più ‘criptici’ e scarsamente trasparenti (…) tanto da vanificare la funzione di copertura”, come scrivono i magistrati sintetizzando la ricostruzione del consulente tecnico d’ufficio. Dall’inquietante ricostruzione, la conclusione circa “la nullità delle operazioni finanziarie, che risulta supportata dall’inesistenza di un contratto quadro sia per i derivati appartenenti alla categoria swap, data la falsità della firma sul contratto quadro disconosciuto, sia per i derivati riconducibili alle opzioni strutturate, data la discrasia tra la previsione relativa all’oggetto dei contratti specifici contenuta nel programma del contratto quadro non disconosciuto e le operazioni in titoli, di tutt’altra natura, concretamente poste in essere”.
E L’ESTORSIONE DELLA DICHIARAZIONE DI COMPETENZA FINANZIARIA - Ma non finisce qui. C’è anche la questione della dichiarazione di “operatore qualificato”. Unicredit, infatti, si era appellata all’artico 31 del Regolamento Consob in base al quale, tra il resto, la nullità dei servizi prestati da un intermediario senza un contratto non si applica nei rapporti tra intermediari autorizzati e operatori qualificati. Definizione, quest’ultima, che oltre agli operatori finanziari include “ogni società o persona giuridica in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari espressamente dichiarata per iscritto dal legale rappresentate”. Permettendo così alla banca di effettuare transazioni su derivati senza preventive autorizzazioni da parte del cliente. E qui ricasca l’asino. Tra i documenti agli atti c’è infatti una prima dichiarazione di operatore qualificato che “è uno dei tre documenti disconosciuti e risultati a firma apocrifa. Come tale da ritenersi inesistente”, si legge ancora nel documento. Ce n’è poi una seconda, datata 26 aprile 2001, che però, sempre secondo i giudici “è stata indotta dalla banca, la quale era perfettamente a conoscenza della sua contrarietà al vero”. La prova l’ha fornita la testimonianza di un quadro direttivo dell’allora Unicredit Banca d’Impresa che all’epoca era gestore dei rapporti tra la banca e le imprese clienti. “Il teste ha confermato di aver chiesto alla società di dichiararsi operatore qualificato contestualmente alla stipula dei contratti swap nell’anno 2000; ha aggiunto che la società Eurobox srl aveva comunicato alla banca, sin dall’inizio del rapporto, la non conoscenza degli strumenti finanziari ed in particolare dei contratti swap e di aver illustrato di quali prodotti si trattasse, la loro struttura ed i rischi”. E se l’organo amministrativo della società non era in grado di capire il funzionamento degli strumenti più semplici, è la deduzione dei giudici, “a maggior ragione non poteva avere alcuna capacità di comprensione della complessa struttura delle altre e più sofisticate operazioni”.
LA CONDANNA E IL RISARCIMENTO - Da qui la condanna a Unicredit alla restituzione di 1.985.670 euro alla società “ a titolo di indebito oggettivo conseguente alla nullità delle operazioni in derivati”, oltre agli interessi, alle spese processuali nonché a quelle della consulenza tecnica d’ufficio. Niente da fare, invece, per quanto riguarda la richiesta di risarcimento dei danni subiti (quantificati in 2 milioni) in conseguenza primo delle operazioni nulle, secondo del ritiro degli affidamenti e, terzo, delle segnalazioni che Unicredit aveva fatto alla Centrale Rischi della Banca d’Italia. Questo a causa di questioni meramente tecniche. Per quanto riguarda il primo punto, il rifiuto è motivato proprio della nullità del contratto che esclude la responsabilità precontrattuale. Sulle conseguenze del ritiro degli affidamenti, il no dei giudici al risarcimento è invece motivato dal fatto che Eurobox, appellandosi al recesso immotivato da parte della banca, non ha assolto all’onere di “enunciare le ragioni della sua tesi e fornire la prova del canone di buona fede e del danno risarcibile”. L’azienda avrebbe infine dovuto documentare adeguatamente anche la segnalazione alla Centrale Rischi in quanto il tabulato fornito è inutilizzabile “trattandosi di documento prodotto da una parte già decaduta dalla facoltà processuale e stante l’opposizione della controparte alla sua introduzione nel processo”. E così il risarcimento è stato rigettato.
IL “PADRE” DEL COMMERCIO ITALIANO DEI DERIVATI, PIETRO MODIANO - Se ne riparlerà, probabilmente, in sede penale, dove l’ex imprenditore Rino Mignano ha presentato denuncia contro i vertici di Unicredit per usura su derivati e conti correnti. La prima udienza è in calendario per il prossimo 6 maggio. E scriverà un altro capitolo di una storia che ha dell’incredibile con una banca che presenta in Tribunale documenti con firme false e un’azienda che cade sui derivati fabbricati dalla divisione di Unicredit all’epoca dei fatti guidata da Pietro Modiano, oggi alla guida della Sea, la società che gestisce gli aeroporti di Milano, e della Carlo Tassara, l’indebitata holding del finanziere Romain Zaleski che non fa dormire sonni tranquilli ai banchieri, a partire dalla Intesa SanPaolo di Giovanni Bazoli. Del resto lo stesso Modiano – che ha guidato Unicredit Banca Mobiliare dal 1999 al 2004 e Unicredit Banca d’Impresa dal 2003 al 2004 – aveva ampiamente riconosciuto gli errori della commercializzazione dei prodotti finanziari strutturati ammettendo tra il resto che “ci sono situazioni in cui si sono fatti errori e quindi si deve riparare”.
Il caso della Eurobox ricorda molto da vicino quello della Divania, l’azienda pugliese per il cui fallimento del giugno 2011 la Procura di Bari ha recentemente chiamato in causa i derivati di Unicredit accusando di bancarotta i vertici e gli ex vertici della banca milanese, a partire dall’ex ad Alessandro Profumo oggi al Montepaschi e dall’attuale numero uno, Federico Ghizzoni.
La perizia di parte redatta dal consulente Roberto Marcelli racconta che Eurobox nel 1999 era una piccola azienda “in forte espansione, operante nel settore dello scatolame pressoché esclusivamente sul territorio nazionale”. Poi sono arrivati i derivati per coprire esposizioni sul dollaro che in realtà l’impresa aveva solo in minima parte rispetto al proprio fatturato. E, sempre secondo il perito di parte per il quale in Italia i “derivati creativi” siano stati venduti a 35mila aziende, “la banca ha condizionato il mantenimento e l’estensione delle linee di credito della società, alla sottoscrizione dei contratti derivati: in più circostanze si è riscontrata la concomitanza delle due operazioni”. La conclusione, scrive il perito, è arrivata “quando si è raggiunto il limite della capacità di credito del cliente” e l’istituto di credito ha proposto alla società un ultimo prodotto per il progressivo rientro. Ma l’imprenditore si è rifiutato di pagare per la chiusura dell’ultimo derivato. Così Unicredit ha segnalato Eurobox alla Centrale di rischi facendo scattare in automatico le richieste di rimborso di tutti i finanziamenti concessi all’impresa. A quel punto, l’azienda, che ha continuato industrialmente a funzionare (nel 2012 ancora produce utili per 1.500 euro su 90mila euro di fatturato, ma ha accumulato debiti per quasi 11 milioni e ha un patrimonio netto negativo con 8 milioni di perdite riportate a nuovo), è entrata in crisi di liquidità.
La perizia di parte redatta dal consulente Roberto Marcelli racconta che Eurobox nel 1999 era una piccola azienda “in forte espansione, operante nel settore dello scatolame pressoché esclusivamente sul territorio nazionale”. Poi sono arrivati i derivati per coprire esposizioni sul dollaro che in realtà l’impresa aveva solo in minima parte rispetto al proprio fatturato. E, sempre secondo il perito di parte per il quale in Italia i “derivati creativi” siano stati venduti a 35mila aziende, “la banca ha condizionato il mantenimento e l’estensione delle linee di credito della società, alla sottoscrizione dei contratti derivati: in più circostanze si è riscontrata la concomitanza delle due operazioni”. La conclusione, scrive il perito, è arrivata “quando si è raggiunto il limite della capacità di credito del cliente” e l’istituto di credito ha proposto alla società un ultimo prodotto per il progressivo rientro. Ma l’imprenditore si è rifiutato di pagare per la chiusura dell’ultimo derivato. Così Unicredit ha segnalato Eurobox alla Centrale di rischi facendo scattare in automatico le richieste di rimborso di tutti i finanziamenti concessi all’impresa. A quel punto, l’azienda, che ha continuato industrialmente a funzionare (nel 2012 ancora produce utili per 1.500 euro su 90mila euro di fatturato, ma ha accumulato debiti per quasi 11 milioni e ha un patrimonio netto negativo con 8 milioni di perdite riportate a nuovo), è entrata in crisi di liquidità.
mercoledì 30 aprile 2014
La Cassazione: il Parlamento è incostituzionale.
"Il Parlamento e Napolitano sono anti costituzionali.
La Cassazione dà ragione al M5S sull'incostituzionalità del Parlamento dopo la sentenza n.1/2014 ammazza Porcellum della Consulta, allo stesso tempo ci dà ragione sull'obbligo costituzionale, disatteso da Napolitano, di sciogliere le Camere in tempi brevi.
In sostanza la Suprema Corte, nella sentenza promossa contro il Porcellum e dalla stessa rimandata alla Consulta, sostiene il concetto più volte ribadito dal M5S che se le Camere sono state elette con una legge incostituzionale, allora esse devono essere rimosse e sostituite.
E ciò perché il principio di continuità degli organi costituzionali può consentire una dilazione dei tempi dello scioglimento per consentire alle Camere, per esempio, di modificare proprio la legge elettorale; non consente però di portarle avanti fino alla fine naturale della legislatura. Il titolare, però, del potere di effettuare tale valutazione è il Capo dello Stato.
Scalfaro avrebbe sicuramente sciolto,
Napolitano da monarca qual è, è del tutto insensibile su questo tema.
L'Italia deve tornare ad essere un Paese democratico, dove la sovranità appartiene al popolo.
Napolitano, ormai garante solo della casta, se ne deve andare subito a casa, non prima di aver sciolto le Camere."
Danilo Toninelli, cittadino portavoce M5S alla Camera
Leggi la sentenza della Cassazione
http://www.beppegrillo.it/2014/04/la_cassazione_il_parlamento_e_incostituzionale_napolitanoacasa.html
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