martedì 9 febbraio 2016

Il secondo buco nero più massivo della Via Lattea. - Corrado Ruscica


Illustrazione delle nubi di gas diffuse da un buco nero di massa intermedia. Credit: Tomoharu Oka/Keio University

Osservazioni in banda radio hanno fornito agli astronomi una serie di indizi correlati all’esistenza di un buco nero di massa intermedia localizzato in prossimità del centro galattico. L’oggetto potrebbe rappresentare una sorta di anello mancante per comprendere la formazione e l’evoluzione dei buchi neri supermassicci che risiedono nei nuclei delle galassie. I risultati sono riportati su ApJ Letters.

Grazie ad una serie di osservazioni realizzate con il radiotelescopio di 45m Nobeyama, gli astronomi hanno rivelato dei segnali riconducibili alla presenza di un buco nero localizzato in prossimità del centro galattico la cui massa è pari a 100 mila volte quella del Sole. I ricercatori ipotizzano che questo possibile oggetto di “massa intermedia” rappresenti la chiave per comprendere la nascita dei buchi neri supermassicci che risiedono nei nuclei delle galassie. I risultati di questo studio sono pubblicati su Astrophysical Journal Letters.
Gli astronomi, guidati da Tomoharu Oka della Keio University in Giappone, hanno identificato una enigmatica nube di gas, denominata con la sigla CO-0.40-0.22, che si trova ad appena 200 anni luce dal centro della Via Lattea. Ciò che rende insolita la nube è la sua dispersione di velocità sorprendentemente elevata: in altre parole, la nube contiene delle componenti di gas caratterizzate da un ampio intervallo di velocità. I ricercatori hanno misurato questo parametro grazie a una serie di osservazioni che sono state condotte con due radiotelescopi, lo strumento di 45m di Nobeyama in Giappone e il telescopio ASTE situato in Cile, entrambi affiliati al National Astronomical Observatory of Japan (NAOJ).

(a) La figura mostra la regione del centro galattico alle frequenze radio di 115 e 346 GHz che sono associate alle righe di emissione dell’ossido di carbonio (CO). Le zone di colore bianco mostrano la condensazione del gas denso e caldo. (b) Ingrandimento della mappa d’intensità relativa alla nube CO-0.40-0.22 osservata alla frequenza di 355 GHz che corrisponde alla riga di emissione delle molecole HCN. Le ellissi indicano delle strutture ad inviluppo nel gas distribuito in prossimità della nube C0-0.40-0.22. (c) Il diagramma della dispersione di velocità ricavato lungo la linea a tratteggio della figura b. Risalta l’elevata dispersione di velocità di 100 Km/sec. Credit: Tomoharu Oka/Keio University/NAOJ
Per analizzarla più da vicino, i ricercatori hanno osservato di nuovo la nube di gas con il radiotelescopio di Nobeyama per ricavare 21 righe di emissione associate a 18 molecole. I dati mostrano che la nube ha una forma ellittica e consiste di due componenti: una più compatta e di bassa densità, caratterizzata da una dispersione di velocità molto ampia, dell’ordine di 100 Km/sec, e un’altra più densa che si estende per circa 10 anni luce e la cui dispersione di velocità risulta più contenuta. La domanda è: che cosa rende così ampia la dispersione di velocità? Non ci sono buchi neri all’interno della nube di gas e, inoltre, le osservazioni in banda X e infrarossa non hanno rivelato alcun oggetto compatto. Questi risultati implicano che la dispersione di velocità non è dovuta ad una sorta di rifornimento di energia locale, come potrebbe derivare ad esempio nel caso delle esplosioni stellari.

La figura illustra, in alto, la simulazione di due nubi di gas che si stanno avvicinando verso una forte e compatta sorgente di gravità. Il diagramma mostra la variazione della posizione e della forma delle nubi in un periodo di 900 mila anni (a partire da t=0), mostrato ad intervalli di 100 mila anni. Gli assi sono indicati in parsec (1 pc = 3,26 anni luce). In basso, il confronto tra i dati osservativi (in grigio) e la simulazione (rosso, magenta e arancione) in termini della forma e della velocità della struttura. Nella simulazione, si nota che dopo 700 mila anni le forme e la velocità delle nubi sono in buon accordo con le osservazioni. Credit: Tomoharu Oka/Keio University
Gli astronomi hanno perciò eseguito un calcolo numerico simulando delle nubi di gas soggette all’interazione da parte di una forte sorgente di gravità. Nella simulazione, le nubi di gas sono attratte inizialmente dalla sorgente e le loro velocità aumentano man mano che si avvicinano, raggiungendo il valore massimo nel punto più vicino all’oggetto. Successivamente, le nubi superano l’oggetto e quindi le loro velocità diminuiscono. Dunque, se si considera un modello in cui la sorgente di gravità è un oggetto di massa pari a 100 mila volte la massa del Sole e si trova localizzato all’interno di una regione il cui raggio è eguale a 0,3 anni luce, allora si ottiene la migliore descrizione delle osservazioni. «Se consideriamo il fatto che le osservazioni in banda X o infrarossa non ci rivelano alcun oggetto compatto, per quanto ne sappiamo finora il miglior candidato deve essere un buco nero», spiega Oka.
Se davvero questo è il caso, potrebbe trattarsi della prima identificazione di un buco nero di massa intermedia. È noto che i buchi neri si possono suddividere in due grandi categorie: gli oggetti di massa stellare, che si formano a seguito di gigantesche esplosioni di stelle molto massive, e i buchi neri supermassicci che risiedono nei nuclei delle galassie e la cui massa può assumere valori che vanno da qualche milione a qualche miliardo di masse solari. Gli astronomi hanno già identificato un certo numero di buchi neri supermassicci ma nessuno sa come essi hanno origine. Esiste, però, un’idea secondo cui i buchi neri supermassicci potrebbero formarsi dalla fusione (merger) di diversi buchi neri di massa intermedia. Tuttavia, questa ipotesi solleva un problema perchè fino ad oggi non abbiamo una chiara evidenza osservativa dell’esistenza di un oggetto di massa intermedia. Ma se la nube CO-0.40-0.22, localizzata ad appena 200 anni luce da Sagittarius A* (Sgr A*), il buco nero supermassiccio della nostra galassia la cui massa è l’equivalente di 400 milioni di Soli, contiene in definitiva un buco nero di massa intermedia allora essa potrebbe favorire lo scenario del merger di oggetti di massa intermedia per spiegare la formazione e l’evoluzione dei buchi neri supermassicci.
Questi risultati aprono una nuova finestra verso la ricerca di buchi neri sfruttando le capacità esplorative dei radiotelescopi. Ad ogni modo, alcune osservazioni recenti hanno permesso di rivelare che esiste un certo numero di nubi di gas compatte, come CO-0.40-0.22, che possiedono un ampio spettro di dispersione di velocità. Secondo gli autori, queste nubi potrebbero contenere buchi neri. Inoltre, un altro studio suggerisce che esistono circa 100 milioni di buchi neri nella Via Lattea ma le osservazioni in banda X hanno permesso di rivelarne finora solo qualche decina.
“In generale, non è immediato rivelare ‘direttamente’ la presenza di un buco nero, qualunque sia la banda dello spettro elettromagnetico”, conclude Oka. “Ma l’analisi del moto del gas mediante le osservazioni radio potrebbe fornire un modo complementare per dare la caccia a questi oggetti ‘neri’. Ritengo che l’attuale survey della Via Lattea, che viene realizzata con il radiotelescopio Nobeyama, e le osservazioni ad alta risoluzione delle galassie vicine, che vengono condotte mediante lo strumento ALMA, abbiano quel potenziale giusto per incrementare in maniera significativa il numero di candidati buchi neri”.

Onde gravitazionali, Science: “Fisici sono sull’orlo del successo”. Erano state teorizzate un secolo fa da Albert Einstein.

Onde gravitazionali, Science: “Fisici sono sull’orlo del successo”. Erano state teorizzate un secolo fa da Albert Einstein

Secondo le indiscrezioni a produrre le onde gravitazionali osservate sarebbe la "fusione" di due buchi neri molto vicini tra loro, uno con una massa 36 volte quella del Sole e uno di 29.


“In on the verge of success…”. Sull’orlo del successo. Poche righe sul sito di Science annunciano quello che da settimane è l’argomento più segreto e allo stesso tempo più chiacchierato dagli scienziati. Ovvero la possibile scoperta delle onde gravitazionali, le “vibrazioni” dello spazio tempo previste un secolo fa dalla teoria della relatività di Albert Einstein che potrebbero rivoluzionare il modo di studiare l’universo. Secondo le indiscrezioni a produrre le onde gravitazionali osservate sarebbe la “fusione” di due buchi neri molto vicini tra loro, uno con una massa 36 volte quella del Sole e uno di 29.
Il primo a dare il via a un valzer di commenti era stato il tweet di un cosmologo dell’Arizona, Lawrence Krauss, cosmologo dell’università dell’Arizona, ripreso dal quotidiano britannico The Guardian. Una eventualità che non così remota considerando il fatto che la scoperta delle onde gravitazionali è stata indicata dalle riviste Science e Nature come una delle più attese nel 2016. E bisogna sottolineare che è dal 1990 che l’esperimento Ligo (Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory) ci prova. Due enormi antenne realizzate negli Stati Uniti nell’ambito di una collaborazione internazionale di cui fa parte anche Virgo – che fa capo allo European Gravitational Observatory (EGO), a Cascina (Pisa) – fondato dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e dal Centre National de la Recherche Scientifique (Cnrs).
Vedere le onde gravitazionali permetterebbe di studiare l’universo in un modo completamente nuovo e per questo la loro osservazione diretta è considerata come uno dei massimi obiettivi della fisica. E se fosse così sarebbe sicuramente una scoperta che porterebbe dritti al premio Nobel un po’ come è avvenuto con il bosone di Higgs. Da tempo si susseguono indiscrezioni sulla loro scoperta, puntualmente smentite: il caso più recente risale al 2014, quando ricercatori dell’università di Harvard avevano affermato di aver individuato i tremori del Big Bang. Ma a distanza di un anno i dati erano stati bocciati dalla comunità internazionale.
Le indiscrezioni che si ripetono da settimane questa volta sono “firmate” da un altro fisico Clifford Burgess, teorico dell’università canadese McMaster, e sono finite nuovamente su Twitter e riprese da un articolo pubblicato, di sole sette righe, su Science Magazine e firmato da Adrian Cho.
La notizia della scoperta di onde gravitazionali grazie ai due interferometri Ligo “sembrerebbe essere vera”, si legge nel testo della mail. “Dovrebbe essere pubblicata – prosegue il testo – su Nature l’11 febbraio (nessun dubbio sul comunicato stampa), quindi tenete gli occhi aperti”. A produrre le onde gravitazionali osservate, quindi, sarebbe la “fusione” di due buchi neri molto vicini tra loro, uno con una massa 36 volte quella del Sole e uno di 29. Burgess spiega nella mail che le onde gravitazionali sarebbero state individuate con un altissimo valore di “certezza” statistica, 5.1 sigma. La mail, secondo il sito di Science, era stata spedita in via confidenziale solo a colleghi e studenti ma sarebbe stata diffusa da qualche ricevente.
Nuove indiscrezioni sulla scoperta delle onde gravitazionali (fonte: NASA/CXC/GSFC/T. Strohmayer)

sabato 6 febbraio 2016

2016: un’osservazione dall’alto della tempesta. - Federico Dezzani

Il 2016 si preannuncia un anno movimentato: la tensione internazionale, in progressivo aumento sin dal 2011, difficilmente decrescerà ma, al contrario, toccherà lo zenit in coincidenza con l’elezione del nuovo inquilino della Casa Bianca che, imprimendo una svolta militare alla situazione mediorientale, incendierà probabilmente le polveri. L’elaborazione di qualche carta è utile a comprendere la strategia di fondo delle oligarchie euro-atlantiche che, abbandonati i sogni di egemonia globale di inizio millennio, hanno ripiegato sino all’attuale ipotesi di un conflitto militare per impedire che il vuoto lasciato dietro di sé sia colmato da Russia e Cina.

Il piano A
Per comprendere la realtà, afferrarne le dinamiche sottostanti ed ipotizzarne gli sviluppi, bisogna sempre partire dagli obbiettivi di fondo di chi occupa la stanza dei bottoni: solo così si può evitare di interpretare i fatti secondo i propri parametri e scadere in analisi autoreferenziali. La corretta comprensione degli attuali avvenimenti necessita quindi dell’interrogativo: qual è l‘obbiettivo strategico delle oligarchie euro-atlantiche? La risposta, può sembrare sproposita, ma non lo è, è il dominio globale, una meta quasi raggiunta nel periodo che intercorre tra il collasso dell’URSS (1991) e la bancarotta di Lehman Brothers (2008).
L’ambiziosa piano di controllare l’intero globo terracqueo si basava su tre cardini: l’inglobamento delle nazioni europee nell’Unione Europea che, in prospettiva, avrebbe dovuto evolversi negli Stati Uniti d’Europa, l’annichilimento della Russia e la sua successiva cooptazione come potenza di secondo rango nella UE/NATO, l’asservimento della Cina al sistema finanziario anglofono ed il suo accerchiamento per terra e per mare, così da neutralizzare le sue capacità di proiettarsi all’estero.
Nel dicembre del 1991 l’Unione Sovietica scompare ufficialmente dalla storia; nel febbraio del 1992 è firmato iltrattato di Maastrich che pone le basi della moneta unica e del futuro allargamento dell’Unione Europea; sempre nel 1992, il 14esimo congresso del Partito Comunista Cinese abbraccia ufficialmente “l’economica socialista di mercato”, facendo di Pechino la “fabbrica del mondo”, che produce le merci consumate dagli Stati Uniti e ne finanzia anche l’acquisto, comprando porzioni crescenti del debito pubblico americano.

Nel 1995 c’è il primo allargamento dell’Unione Europea (Austria, Finlandia e Svezia) che spinge i propri confini a ridosso della Russia. Mosca è allora in pessima acque: nel 1998, il cocktail micidiale di privatizzazione selvagge ed ingerenze del FMI, portano il Paese alla bancarotta: nel frattempo, con la prima (1994-1996) e la seconda (1999-2009) guerra cecena, angloamericani e sauditi cercano di espellere i russi dal Caucaso, la storica “porta d’ingresso” da cui Mosca entra nel Medio Oriente. Si procede altresì allo smembramento della Jugoslavia (guerre balcaniche del 1991-1999), così da eliminare uno storico bastione filo-russo nel sud-est europeo. Lo scopo ultimo non è tanto lo smembramento della Russia, entità pluri-nazionale per definizione, quanto la sua riduzione a potenza di secondo ordine, da fagocitare nella UE/NATO. Tra la fine degli anni ’90 ed i primi anni del 2000, l’ingresso di Mosca nel blocco atlantico è uno scenario concreto, tanto che Silvio Berlusconi insiste nel 2003 per il suo ingresso nell’Unione Europea1 e le ultime voci di una possibile partecipazione all’Alleanza Nord Atlantica si spengono solo nel 20102.

Nel dicembre del 2001 la Cina, con il suo enorme bacino di lavoratori a basso costo, è ufficialmente ammessa al WTO, l’organizzazione mondiale del commercio: così facendo le oligarchie anglofone consentono a Pechino di diventare la “fabbrica del mondo”, garantendo il rapido arricchimento degli industriali cinesi e lauti profitti per le imprese che trasferiscono lì i loro siti produttivi. In cambio, però, la City e Wall Street pretendono “l’apertura del sistema finanziario” dell’Impero d Centro, ossia la possibilità di estendere anche alla Repubblica Popolare cinese, come nel resto dell’Occidente, il controllo del vitale sistema bancario, strumento principe sin dall’Ottocento con cui le oligarchie anglofone tirano i fili di nazioni e popoli. “U.S., EU, Japan press China on financial services at WTO”3 si legge ancora nel 2011 sull’agenzia Reuters, ricordando come la contropartita per il libero acceso ai ricchi mercati occidentali, fosse la possibilità da parte della finanza anglofona di installarsi stabilmente in Cina.
Dulcis in fundo, sempre negli ultimi mesi del 2001, scatta l’operazione Enduring Freedom, utile agli angloamericani ad installarsi nello strategica regione dell’Afghanistan, già teatro del Grande Gioco tra impero britannico ed impero russo durante il XIX secolo: in verità Kabul è solo la prima tappa di un più ampio disegno egemonico, perché, come viene riferito ad uno sconcertato generale Wesley Clarck, appena dopo l’Undici settembre, l’intenzione è di “take out seven countries in five years, starting with Iraq, and then Syria, Lebanon, Libya, Somalia, Sudan and, finishing off, Iran4. Per concludere l’amministrazione di George W. Bush si adopera per attrarre l’India in orbita statunitense, elevandola ad “alleato strategico”, ovviamente in chiave anti-cinese5.
A questo punto abbiamo informazioni a sufficienza per disegnare la prima carta, quella del “piano A”.
Mondo2001
Come è ben visibile, il piano “A”, se completamente realizzato, avrebbe garantito alle oligarchie anglofone l’egemonia globale, assicurando loro una fetta del PIL mondiale superiore al 50%, il pieno possesso delle riserve petrolifere mediorientali, una proiezione sull’intero continente euro-asiatico, un’influenza decisiva sulla Cina attraverso il sistema bancario, l’egemonia del Mar Mediterraneo (ridotto a “lago della NATO”) e degli oceani.
Il piano “A” va in fumo per i seguenti motivi:
  • l’occupazione dell’Afghanistan e dell’Iraq si trasforma rapidamente in un pantano, che impedisce gli strategici cambi di regime manu militari in Iran e Siria. Inoltre l’eliminazione di Saddam Hussein, dittatore sunnita di un paese a maggioranza sciita, unita al parallelo mancato intervento in Iran, aumenta esponenzialmente l’influenza regionale di Teheran;
  • i rapporti tra le oligarchie anglofone e Vladimir Putin si raffreddano progressivamente ed entrano in crisi già con la guerra in Ossezia (agosto 2008), rimandando sine die l’ingresso della Russia nella UE/NATO;
  • la Cina si guarda bene dall’aprire il proprio sistema finanziario alla City ed a Wall Street;
  • il capitalismo anglosassone imbocca la via del tramonto con il fallimento di Lehman Brothers nel settembre del 2008, palesando che gli angloamericani non hanno più “i dané” per reggere l’impero.
Il primo piano per il dominio globale è quindi archiviato e si passa al successivo.

Il piano B

Il piano “B” consiste nella riproposizione del precedente con alcuni strutturali modifiche: la Russia di Vladimir Putin non è più una potenza di secondo rango, ancillare agli interessi euro-atlantici, ed i cambi di regime in Medio Oriente, archiviata l’epoca delle imponenti campagne militari di George W. Bush, sono condotti prima con le “Primavere Arabe”, classiche rivoluzioni colorate in salsa mediorientale, e poi con le milizie dello Stato Islamico, un’entità forgiata da angloamericani ed israeliani con l’ausilio delle autocrazie sunnite.
Sul Vecchio Continente avanza spedita l’operazione per inglobare le nazioni europee in un soggetto atlantico: l’eurozona, introdotta calando un regime a cambi fissi su un’area valutaria non ottimale, accumula sufficienti tensioni da esplodere al primo choc esterno (il fallimento di Lehman Brothers) ed avviare così la preventivata eurocrisi. Gli assalti speculativi che partono dalle piazze finanziarie anglofone non mirano, ovviamente, alla frantumazione della moneta unica, bensì a creare uno stato di crisi permanente ed isteria collettiva, propedeutici alla fondazione degli Stati Uniti d’Europa, ottenibili solo con uno svuotamento della sovranità delle singole nazioni nei momenti di crisi più acuta. Lo zenit dell’eurocrisi è toccato nel biennio 2011-2012, dove emerge però con chiarezza che né la Francia, né soprattutto la Germania, sono disponibili all’atto pratico a cedere poteri ad un organismo sovranazionale: l’euro imbocca una lunga e dolorosissima strada verso la dissoluzione.
In concomitanza, sfruttando il momento di grande debolezza di alcuni Stati rivieraschi come l’Italia, si procede con i cambi di regime in Medio Oriente attraverso la “primavera araba”, perseguendo due obbiettivi: l’eliminazione dei governi ostili così da trasformare il Mediterraneo nel “lago della NATO” e la balcanizzazione delle regione così da renderne più agevole il controllo. La “Primavera Araba” colpisce in Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Siria, Iran e Yemen. In alcuni Paesi fallisce (Algeria ed Iran), in altri riesce (Tunisia, Yemen ed Egitto), in altre ha solo un mezzo successo, tanto da necessitare dell’intervento della NATO per concludere il lavoro: è il caso della Libia e, soprattutto della Siria. Qui, in particolare, Russia e Cina non ripetono l’errore commesso con la Libia (l’astensione sulla risoluzione ONU 1973) e decidono di difendere a spada tratta il Paese: per Mosca è in ballo anche la base navale di Laodicea e la capacità di proiettarsi nel Mediterraneo.
L’insurrezione armata contro Damasco segna quindi il passo, tanto che nell’agosto del 2013 è organizzato l’attentato falsa bandiera alla periferia della capitale, con l’impiego di armi chimiche (la celebre “linea rossa” da non varcare) utile a giustificare l’intervento militare occidentale: Russia ed Iran affermano che reagiranno a qualsiasi aggressione contro la Siria, con il concreto rischio di un’escalation militare globale. Il premio Nobel per la pace, Barack Obama, desiste dall’intervento, scontentando quegli importanti settori dell’establishment a stelle e strisce pronti alla guerra anche con la Russia: accetta invece il compromesso per lo smantellamento delle armi chimiche. L’umiliazione è cocente e si somma ad una grave impasse strategica, data dal fatto che ci sono buone probabilità che Bashar Assad sopravviva ai tentativi di rovesciarlo con l’esercito ribelle (FSA) e la galassia terroristica sunnita (Al Qaida, Al Nusra, etc.). Come reagisce l’establishment euro-atlantico?
In due modi: con il golpe filo-occidentale in Ucraina (febbraio 2014) ed il parallelo scatenamento dell’ISIS (inverno 2013 e primavera 2014).
Con il Califfato si vuole portare a compimento la destabilizzazione della Siria e la balcanizzazione dell’Iraq, dove i governi democratici rispecchiano inevitabilmente la maggioranza sciita del Paese, avvicinando così Baghdad all’Iran, anziché alle autocrazie sunnite filo-occidentali. La diffusione dello Stato Islamico, che dietro di sé lascia una scia di morte e distruzione, ottempera anche ad un altro obbiettivo, collegato alla situazione europea di cui sopra: ossia l’attivazione di quelle ondate migratorie, “epocali” per definizione, utili a generare l’ennesima crisi da cui dovrebbe scaturire la domanda di “più Europa”, ovvero la disponibilità a cedere quote crescenti di sovranità nazionali per fronteggiare un’altra emergenza storica.
Per non elargire verità apodittiche, riportiamo a questo proposito il discorso di Sergio Mattarella del giugno 2015, in occasione del The European House – Ambrosetti di Cernobbio6:
La logica emergenziale sta rendendo l’Europa più debole, i suoi cittadini più insicuri e produce diffidenze tra gli Stati membri. Occorre, al contrario, una visione adeguata di lungo periodo ; e consapevolezza del destino comune. Va sconfitta la paura e il senso della comunanza di interessi deve tornare ad essere la base della strategia continentale. Le crisi non devono paralizzarci. L’Europa, come sottolineava Jean Monnet, si è fatta nelle crisi ed è attraverso le crisi che statisti illuminati hanno saputo intravedere, e perseguire, obiettivi di crescita. L’Europa si trova nel pieno di un passaggio storico simile a quelli indicati da Monnet(…) Lo avvertiamo di fronte alle tragedie, spaventose, di profughi e di migranti, purtroppo sempre più frequenti. (…) Questa stessa condizione di asimmetria, di sproporzione, di inadeguatezza degli Stati nazionali, contrassegna anche il loro rapporto con il fenomeno migratorio. Anche per queste ragioni, malgrado lo spirito critico con cui si guarda ai limiti dell’Europa di oggi, mi sento, personalmente, più europeista che mai.
Parallelamente Barack Obama porta avanti il “pivot to Asia”, lo spostamento del baricentro della politica americana verso l’Oceano Pacifico, che culmina nel 2015 con la firma dell’accordo commerciale Trans-Pacific Partnership, in chiara funzione anti-cinese.
L’opprimente accerchiamento angloamericano attorno alla Russia ed alla Cina le induce, prima, a divincolarsi dall’abbraccio mortale della finanza anglofona con la costituzione nel 2014 della Nuova Banca di Sviluppo (che ingloba un Paese strategico come l’India) e, poi, ad incrementare la collaborazione in ambito economico e militare, attraverso la Shanghai Cooperation Organisation (SCO).
Alla SCO intende aderire anche l‘Iran che, potenza regionale in ascesa, lavora gomito a gomito con Mosca sul dossier iracheno e siriano: è proprio l’attivismo internazionale di Teheran che induce l’Arabia Saudita ad avventurarsi nel marzo del 2015 nelle sabbie mobili yemenite, con l’obbiettivo di reprimere l’insurrezione sciita filo-iraniana.
A questo punto, abbiamo dati a sufficienze per stilare la carta del piano “B”.
mondo2011
In piano “B” abortisce per i seguenti motivi:
  • l’eurocrisi, anziché fornire l’assist decisivo per la federazione dell’eurozona, crea un corrosivo rapporto centro-periferia, creditori-debitori che divora progressivamente l’Unione Europea: l’imposizione dell’austerità per riequilibrare il regime a cambi fissi dell’eurozona peggiora ovunque le finanze pubbliche, produce tassi allarmanti di disoccupazione ed annichilisce il tessuto economico. Non solo,l’emergenza migratoria, anziché produrre “più Europa” (con la distribuzione pro-quota dei rifugiati, stabilita da Bruxelles in deroga alla sovranità dei singolo membri) crea ulteriori linee di fratture: i paesi dell’Est europeo (il gruppo di Visegrad) escludono a priori l’accoglienza di migliaia di rifugiati;
  • il congiunto intervento russo-iraniano frena il processo di destabilizzazione di Siria e Iraq, dove l’ISIS è messo in difficoltà strategica dall’avvio dei raid russi nell’autunno 2015;
  • il capitalismo finanziario anglosassone dà segnali di cedimento strutturali e le risorse per proiettarsi su cinque continenti cominciano a scarseggiare. Nonostante il saggio di risconto della FED sia a zero dal 2008 e Wall Street in bolla, il tasso di partecipazione alla forza lavoro è al minimo degli ultimi 30 anni, il debito pubblico statunitense ha ormai raggiunto il 100% del PIL e le infrastrutture del Paese cadono letteralmente a pezzi7. Se garantire la pax americana diviene impossibile, è prioritario per le oligarchie anglofone che nessuno colmi il vuoto di potere, creando nuovi assetti che inevitabilmente relegherebbero ai margini Londra e Washington.
Si passa così al piano “C”, l’extrema ratio dinnanzi alla dissoluzione dell’Unione Europea, testa di ponte angloamericana sul Vecchio Continente, ed al crescente attivismo russo-iraniano in Medio Oriente.

Il piano C

Il piano “C” è, a sua volta, una diretta conseguenza del fallimento del precedente e contempla, per la prima volta, la possibilità di un conflitto regione/internazionale con le due maggiori potenze (Russia e Cina) che solo quindici anni prima le oligarchie anglofone speravano di inglobare nella loro sfera di influenza, mentre oggi sono in diretta concorrenza per l’egemonia globale.
Il piano si basa sul presupposto che, come il collasso dell’URSS ha comportato l’avanzata della UE/NATO in Europa e l’indietreggiamento della Russia, così il collasso della UE/NATO implicherà il prepotente ritorno di Mosca sulla scena europea. Non solo: la congiunta azione russo-iraniana, debellando l’ISIS, mette in crisi l’intera strategia di destabilizzazione del Medio Oriente condotta da angloamericani ed israeliani. Bisogna tornare all’Ottocento per incontrare una Russia così attiva sullo scacchiere mediorientale e già allora, proprio come oggi,l’impero britannico sosteneva i turchi per arginare l’esuberanza di Mosca (vedi la guerra di Crimea del 1853-1856).
Partiamo dall’Europa dove sei anni di eurocrisi hanno irreparabilmente compresso le finanze pubbliche a la salute economica dei membri dell’eurozona (eccezion fatta per il cuore tedesco) e sfilacciato il tessuto politico.
Sull’Italia ci siamo già soffermati di recente, così come abbiamo già analizzato lo stadio comatoso dell’economia francese: non c’è alcun dubbio che l’opprimente cappa di terrore in cui vive la Francia (in stato d’emergenza dagli attentati del 13/11), costantemente alimentata con nuovi attentati (lo squilibrato ucciso davanti un commissario parigino il 7 gennaio e l’evacuazione il 10 gennaio di Disneyland Paris sulle voci di un attacco terroristico), rientra nella classica strategia della tensione. L’emergenza terrorismo è infatti funzionale all’offuscamento di un’altra crisi, quella niente affatto artificiale, ossia l’allarmante tasso di disoccupazione superiore al 10% e lo scricchiolare dei conti pubblici: sono la montante insofferenza dell’elettorato per le condizioni economiche, i crescenti consensi raccolti dal Front National, la popolarità ai minimi storici del presidente François Hollande e del premier Manuel Valls, un debito ormai vicino al 100% del PIL ed un deficit cronicamente al di fuori dei parametri di Bruxelles, la vera causa dell’attivismo “dell’ISIS” nell’Esagono.
La situazione non va meglio in Spagna dove gli elettori, piegati da un cronico tasso di disoccupazione superiore al 20%, hanno frantumato lo storico bipolarismo iberico, rendendo problematica la formazione di un esecutivo che succeda a Mariano Rajoy, ligio esecutore delle ricette della Troika. Per non parlare della Grecia che, tenuta nell’eurozona per il rotto della cuffia durante gli estenuanti negoziati dell’estate 2015, rischia ora di essere espulsa dall’area di Schenghen, facendo sorgere seri dubbi sul senso della sua permanenza nella moneta unica.
Se la situazione è critica a livello di singole nazioni, necessariamente non va meglio a livello aggregato: a distanza di quasi un anno dall’avvio dell’allentamento quantitativo, la BCE è costretta a constatare che l’eurozona flirta di nuovo con la deflazione. Per un’area monetaria come l’euro, appesantita da una mole insostenibile di debiti ed alla prese con l’aggiustamento delle bilance commerciali attraverso il meccanismo della svalutazione interna, l’andamento negativo dei prezzi significa morte certa.
La precarietà delle finanze pubbliche e del sistema bancario europeo è ormai tale da rendere sempre più concreto (ed imminente) lo scenario di un’implosione dell’eurozona, privata peraltro della guida politica di Angela Merkel che, fortemente indebolita dalla politica delle porte aperte all’immigrazione, difficilmente avrà ancora la forza politica per mantenere integra la moneta unica come nel caso della scongiurata “Grexit”.
La frantumazione dell’Unione Europea è per l’establishment euro-atlantico una debacle strategica: rompendo il contenitore in cui sono racchiuse le nazioni europee, costrette a subire un’agenda che, dalle sanzioni alla Russia alla politica energetica, rispecchia la volontà atlantica, si permette a queste di tornare ad una politica estera secondo i propri interessi nazionali, ampliando così esponenzialmente gli spazi di manovra di Mosca. Tipico a questo proposito è il caso dell’Italia: dopo aver subito la cancellazione del South Stream su pressione angloamericana e la destabilizzazione della Libia ad opera della NATO, difficilmente Roma continuerà ad appoggiare la farsa della “guerra all’ISIS” condotta dagli “alleati” angloamericani e francesi una volta liberatasi dalla gabbia dell’euro. Più probabile, invece, sciolti i laccioli dell’Unione Europea, è una convergenza dell’Italia verso Mosca con cui, dalla Siria alla Libia, passando per l’Egitto, condivide l’interesse a combattere la destabilizzazione della regione condotta dal sedicente Stato Islamico.
Veniamo così al capitolo mediorientale, dove l’intervento militare russo dell’autunno 2015 si è rivelato risolutivo: nell’arco di tre mesi l’esercito regolare siriano ha riconquistato le frontiere con la Turchia e la Giordania, da dove sono immessi i terroristi al soldo della NATO, e si prepara per la decisiva battaglia di Aleppo,che deciderà le sorti della guerra. Lo stesso discorso vale per l’Iraq, dove la costituzione a Baghdad di un centro di coordinamento con Iran, Siria e Russia, ha consentito la riconquista pressoché totale di Ramadi, città strategica lungo il fiume Eufrate e cuore pulsante del Califfato.
Il punto di svolta nella lotta contro l’ISIS è coinciso con l’avvio dei bombardamenti russi sulle vie del contrabbando di greggio, tra i giacimenti controllati dai fondamentalisti e la Turchia: privato dei proventi del petrolio, commerciato con il placet angloamericano, lo Stato Islamico si è accartocciato su sé stesso.
Ne sono seguiti l’abbattimento del SU-24 russo per mano turca, un’evidente rappresaglia contro Mosca, e la corsa degli occidentali verso l’Iraq, sull’onda dell’attentato di Parigi del 13/11, così da ritagliarsi una regione (il Kurdistan iracheno) da cui continuare l’opera di destabilizzazione: sono di nuovo 3.700 i soldati americani in Iraq (formalmente sgombrato il 31 dicembre del 2011), affiancati da italiani, tedeschi, inglesi e francesi. Spicca in particolare l’attivismo della Germania di Angela Merkel, dichiaratasi disponibile, sempre dopo gli attentati del 13/11, ad incrementare i propri sforzi bellici anche in Mali ed in Libia8è in queste regioni infatti che i militanti dell’ISIS, in fuga dalle bombe russe, trovano un sicuro riparo, salpando indisturbati dalle coste turche per attraccare ai porti libici di Sirte e Derna.
Chi è in evidente difficoltà strategica è Ankara che, dopo aver scommesso tutto sulla caduta di Bashar Assad e sullo smembramento della Siria e dell’Iraq, vede ora sfumare i suoi obbiettivi a causa dell’ingerenza russa: l’evidente frustrazione della Turchia, oltre che dall’abbattimento del Su-24, è testimoniata anche dal tentativo nel dicembre 2015 di occupare la regione attorno a MosulSminuita dall’attivismo russo-iraniano e sgomenta per il ribollio della minoranza curda, Ankara è una mina vagante, capace di azioni inconsulte e potenzialmente esplosive: non c’è infatti alcun dubbio che un eventuale conflitto tra Mosca ed Ankara implicherebbe l’avvio delle ostilità con gli angloamericani, preoccupati che i russi, travolta la Turchia, dilaghino nel Mediterraneo. Timori non dissimili da quelli di Ankara sono nutrititi anche in Israele, dove, dall’iniziale speranza del 2011 di una totale balcanizzazione della regione, si è passati alla dura constatazione della sempre maggiore influenza dell’Iran, coperto dalla macchina bellica russa: cade in queste settimane la consegna a Teheran dei sistemi missilistici S-3009, capaci di complicare non poco i bombardamenti aerei sul suolo iraniano.
Non se la passa meglio l’Arabia Saudita che, avendo un’economia molto meno diversificata di quella russa (che può contare anche sui pilastri degli armamenti e dei cereali), è la prima vittima del petrolio a 30$ al barile: per far fronte ai crescenti deficit di bilancio (98 $mld nel solo 201510) si è ventilata per la prima volta la possibilità di vendere una quota dell’Aramco, la compagnia petrolifera di proprietà della famiglia Saud. La mossa ha il sapore della disperazione ed equivale all’impresa costretta ad ipotecare i beni strumentali pur di continuare l’attività. Un pozzo senza fondo, come avevamo previsto, si è rivelata la campagna in Yemen, che lungi dal raggiungere l’obbiettivo di reprimere l’insurrezione filo-iraniana, ha solo esposto Riad a cocenti scacchi militari, con l’aggravante di mettere in ebollizione la cospicua minoranza sciita (concentrata nelle regioni petrolifere). Come nel caso della Turchia, lasceranno angloamericani ed israeliani affondare l’alleato con cui hanno condiviso tante avventure, dall’invasione sovietica dell’Afghanistan all’Undici Settembre? È molto difficile, perché ciò comporterebbe l’ulteriore rafforzarsi dell’Iran e della Russia nel Golfo Persico.
Nell’Estremo Oriente la Cina è vittima invece della stessa sindrome da “soffocamento navale” di cui soffrì già la Germania guglielmina durante la prima guerra mondiale e l’Italia fascista durante la seconda: Washington e gli alleati regionali cercano di depotenziare la crescente flotta militare e commerciale di Pechino attraverso una serie di basi marittime attorno alle coste cinesi, così da impedirne l’accesso agli stretti (specialmente a quello di Malacca, dove Singapore ha aderito al TTP) ed all’oceano aperto. La tensione con la marina statunitense si concentra in particolar modo nel Mar Meridionale Cinese, attorno alle isole Paracel e Spratly. Per ovviare alle restrizioni di un possibile blocco navale in caso di guerra, Pechino dà molta enfasi allo sviluppo della nuova via della seta terrestre che, connettendola alla Russia, dovrebbe sopperire ai problemi di approvvigionamento di combustibili e minerali.
Concludendo, lo scenario più probabile è quello di un’escalation militare che, partendo dal Medio Oriente, si diffonde a livello internazionale: devono essere quindi monitorare con attenzione la Turchia e l’Arabia Saudita, entrambe in situazioni critiche, e le elezioni americane di novembre, dove il nuovo presidente, eletto probabilmente con l’apporto decisivo delle lobby israeliane e saudite, sosterrà, a differenza di Barack Obama, un intervento diretto sullo scacchiere mediorientale. L’Unione Europea sarà a quel punto in un avanzato stato di decomposizione ed i singoli interessi nazionali (vedi il recente accordo russo-tedesco per il potenziamento del North Stream) preverranno quasi certamente sugli obblighi verso la NATO. Ponderare attentamente le mosse, non sarà un’opzione: specialmente per un Paese come l’Italia, al centro del decisivo Mar Mediterraneo.
Anno2016 


PERCHE' MICHAEL HUDSON E' IL MIGLIOR ECONOMISTA DEL MONDO. - PAUL CRAIG ROBERTS (*)

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L'Occidente sta imboccando la strada della rovina economica.

Michael Hudson è il miglior economista del mondo. Anzi, potrei quasi dire che è l'unico economista nel mondo. Quasi tutto il resto sono neoliberisti, che non sono economisti, ma imbonitori degli interessi finanziari. Se non avete sentito parlare di Michael Hudson questo dimostra semplicemente la potenza della Matrix. Hudson avrebbe dovuto vincere diversi premi Nobel in economia, ma non ne prenderà nessuno.

Hudson non aveva intenzione di diventare un economista. Presso l'Università di Chicago, che aveva un'eccellente facoltà di economia, Hudson ha studiato musica e storia culturale. Partì per New York per lavorare nel campo dell'editoria. Stava pensando di  mettersi in proprio quando gli furono riconosciuti i diritti per gli scritti e gli archivi di George Lukacs e Leon Trotsky, ma le case editrici non erano interessate al lavoro di due marxisti ebrei che ebbero un impatto significativo sul 20° secolo.

Alcune amicizie misero in contatto Hudson con un ex economista della General Electric che gli insegnò il flusso dei fondi attraverso il sistema economico e gli spiegò come si sviluppa la crisi quando il debito diventa troppo grande per l'economia. Appassionatosi all'argomento, Hudson si iscrisse al corso di laurea di economia alla New York University e ottenne un posto di lavoro nel settore finanziario per il quale si occupava di calcolare come i risparmi venivano riciclati in nuovi mutui. Hudson imparò l'economia più dalla sua esperienza di lavoro che dal suo Ph.D.

A Wall Street imparò anche come il prestito bancario gonfia i prezzi dei terreni così come il pagamento degli interessi per il settore finanziario. Più le banche prestano, e più i prezzi del settore  immobiliare aumentano, incoraggiando così più prestiti bancari. Più il debito  ipotecario aumenta, e più il reddito delle famiglie e il valore locativo degli immobili vengono pagati al settore finanziario.

Quando lo squilibrio diventa troppo grande, la bolla scoppia. Nonostante la sua importanza, l'analisi della rendita fondiaria e la valutazione della proprietà non facevano parte del dottorato di ricerca dei suoi studi in economia.

Il successivo lavoro di Hudson fu con Chase Manhattan, dove utilizzò i proventi delle esportazioni dei paesi del Sud America per calcolare quanto il servizio del debito dei paesi potevano permettersi di pagare alle banche degli Stati Uniti.

Hudson imparò che, proprio come gli erogatori di mutui riguardano il reddito da locazione da proprietà come un flusso di denaro che può essere dirottato verso il pagamento di interessi, le banche internazionali riguardano i proventi delle esportazioni di paesi stranieri come ricavi che possono essere utilizzati per pagare gli interessi sui prestiti esteri. Hudson ha imparato che l'obiettivo dei creditori è quello di catturare l'intero surplus economico di un Paese per convertirlo in pagamenti per il servizio del debito. Subito i creditori americani e il FMI si misero a prestare i soldi ai paesi indebitati per pagare gli interessi.

Ciò causò l'aumento del debito estero dei paesi ad interesse composto. Hudson aveva previsto che i paesi indebitati non sarebbero stati in grado di pagare i loro debiti, una previsione sgradita che è stata confermata quando il Messico annunciò che non poteva pagare.

Questa crisi è stata risolta con il "Brady bond", dal nome del segretario al Tesoro degli Stati Uniti, ma quando nel 2008  la crisi dei mutui ha colpito gli Stati Uniti, così come aveva previsto Hudson, nulla è stato fatto per i padroni di casa americani. Se non sei una mega-banca, i problemi non sono un punto focale della politica economica americana.

Chase Manhattan aveva accanto Hudson nel mettere a punto un formato contabile per analizzare il bilancio dei pagamenti dell'industria petrolifera statunitense. Qui Hudson ha imparato un'altra lezione sulla differenza tra le statistiche ufficiali e la realtà. Utilizzando i "prezzi di trasferimento", le compagnie petrolifere sono riuscite ad evitare di pagare le tasse, creando l'illusione di zero profitti. Le società affiliate alla compagnia petrolifera che sono situate nei paradisi fiscali acquistano il petrolio dai produttori a prezzi irrisori. Da queste sedi-bandiere ombra, che non hanno alcuna imposta sui profitti, il petrolio è stato poi venduto alle raffinerie occidentali a prezzi contrassegnati fino ad eliminare i profitti.

Gli utili sono stati registrati da parte degli affiliati delle compagnie petrolifere in giurisdizioni non fiscali (le autorità fiscali hanno represso in qualche misura l'utilizzo dei prezzi di trasferimento per sfuggire alla tassazione). Il successivo compito di Hudson è stato quello di stimare la quantità di denaro sporco andato a finire nel segreto sistema bancario della Svizzera.

In questa indagine, l'ultima per conto di Chase, Hudson scoprì che sotto la direzione del Dipartimento di Stato Chase e altre grandi banche avevano fondato banche nei Caraibi con lo scopo di attrarre denaro in riserve in dollari da spacciatori di droga al fine di sostenere il dollaro (alzando la domanda di dollari da parte dei criminali) al fine di pareggiare o compensare le spese di Washington per operazioni militari all'estero. Se i dollari fluissero fuori dagli Stati Uniti, ma la domanda non aumentasse per assorbire la maggiore offerta di valuta, il tasso di cambio del dollaro cadrebbe, minacciando così la base del potere degli Stati Uniti.

Rifornendo le banche delocalizzate in cui i criminali potevano depositare denaro sporco, il governo degli Stati Uniti ha sostenuto il valore di cambio del dollaro. Hudson ha scoperto che il deficit della bilancia dei pagamenti, una causa di depressione sul valore del dollaro statunitense, era esclusivamente di  carattere militare. Il Ministero del Tesoro e il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti hanno sostenuto il rifugio dei Caraibi per i profitti illeciti al fine di compensare l'impatto negativo sulla bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti per le operazioni militari all'estero. In altre parole, se la criminalità può essere utilizzata a favore del dollaro statunitense, il governo degli Stati Uniti è a completa disposizione della criminalità.

Quando si è trattato della situazione dell'economia, la teoria economica non ne aveva la minima idea. Né i flussi commerciali, né gli investimenti diretti sono stati importanti nel determinare i tassi di cambio. La cosa importante erano gli "errori e le omissioni", quello che Hudson ha scoperto era un eufemismo per il denaro liquido bollente di spacciatori e funzionari di governo che si appropriano indebitamente dei proventi delle esportazioni dei loro paesi. Il problema per gli americani è che entrambi i partiti politici considerano le esigenze del popolo americano come passività e come un ostacolo per i profitti del complesso militare / sicurezza, per Wall Street e le mega-banche, e per l'egemonia mondiale di Washington.

Il governo di Washington rappresenta potenti gruppi di interesse, e non i cittadini americani. Questo è il motivo per cui il 21° secolo è contraddistinto da un attacco contro le protezioni costituzionali dei cittadini in modo che i cittadini stessi possano essere estromessi dal modo di soddisfare le esigenze dell'Impero e dei suoi beneficiari. Hudson ha imparato che la teoria economica è davvero uno strumento per strappare via l'ideologia razzista dell'Untermenschen
La teoria del commercio internazionale, afferma che i paesi possono gestire enormi debiti semplicemente abbassando i salari nazionali, al fine di pagare i creditori.

Questa è oggi la politica attualmente applicata alla Grecia, ed è stata la base dei programmi di adeguamento strutturale o di austerità del FMI imposto ai paesi debitori, essenzialmente una forma di saccheggio che trasforma le risorse nazionali a favore degli istituti di credito esteri. Hudson ha imparato che la teoria monetaria si occupa solo di salari e prezzi al consumo, non con l'inflazione dei prezzi delle attività, come quello immobiliare e delle scorte. Si è reso conto che la teoria economica serve come copertura per la polarizzazione dell'economia mondiale tra ricchi e poveri.

Le promesse del globalismo sono un mito. Anche gli economisti marxisti dell'ala di sinistra pensano ad uno sfruttamento in termini di salari e non sono consapevoli che il principale strumento di sfruttamento è l'estrazione di valuta del sistema finanziario nel  pagamento degli interessi. L'abbandono della teoria economica del debito come strumento di sfruttamento ha portato Hudson ad analizzare la storia per studiare come civiltà preesistenti hanno gestito l'accumulo del debito.

La sua ricerca è stata così innovativa che l'Università di Harvard lo ha nominato ricercatore in storia economica babilonese nel Museo Peabody. Nel frattempo ha continuato ad essere richiesto da società finanziarie. È stato assunto per calcolare in quanti anni l'Argentina, il Brasile, il Messico sarebbero stati in grado di pagare i tassi di interesse estremamente elevati sulle loro obbligazioni.

Sulla base del lavoro di Hudson, il Fondo Scudder ha ottenuto il secondo tasso più alto di rendimento in tutto il mondo nel 1990. Le indagini di Hudson nei problemi del nostro tempo lo hanno portato attraverso la storia del pensiero economico. Hudson ha scoperto che gli economisti del 18° e 19° secolo avevano capito il potere invalidante del debito molto meglio degli economisti neoliberisti di oggi che fondamentalmente lo trascurano al fine di soddisfare meglio l'interesse del settore finanziario. Hudson dimostra che le economie occidentali sono state finanziarizzate in modo predatorio il che sacrifica l'interesse pubblico agli interessi del settore finanziario.

Questo è il motivo per il quale l'economia non opera più per la gente comune. La finanza non è più produttiva. E' diventata un parassita per il sistema economico. Hudson racconta tutta la storia nel suo recente libro, "Killing the Host"(2015).

I lettori spesso mi chiedono come possono imparare l'economia. La mia risposta è quella di trascorrere molte ore con il libro di Hudson. In primo luogo, rileggere il libro una o due volte al fine di avere un'idea di ciò che è scritto tra le righe. Poi studiare attentamente sezione per sezione.

Quando hai compreso il suo libro, capirai l'economia meglio di qualsiasi economista da premio Nobel. Considerate questa rubrica come un'introduzione al libro. Scriverò di più su di esso come argomento d'attualità e tempo permettendo. Per quanto mi riguarda, molti eventi d'attualità non possono essere compresi senza prescindere dalla spiegazione di Hudson dell'economia occidentale finanziarizzata. Anzi, siccome la maggior parte degli economisti russi e cinesi sono esperti in economia neoliberista, anche questi due paesi potrebbero seguire lo stesso percorso verso il basso dell'Occidente.

Se si mette l'analisi della finanziarizzazione di Hudson insieme con la mia analisi dell'impatto negativo della delocalizzazione dei posti di lavoro, si capisce che l'attuale percorso economico del mondo occidentale è la strada verso la distruzione. 

(*)Paul Craig Roberts è stato Assistente Segretario per la Politica Economica del Ministero del Tesoro ed editore associato del Wall Street Journal. E' stato editorialista del Business Week, Scripps Howard News Service, e Creators Syndicate. Ha avuto molte cariche universitarie. Le sue rubriche su internet hanno attirato un seguito in tutto il mondo. I libri più recenti di Roberts sono: Il fallimento del laissez faire e la dissoluzione economica dell'Occidente, Come è stata abbandonata l'America, e La minaccia Neoconservativa all'Ordine Mondiale. 

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