martedì 30 maggio 2017

Risparmio e Pir, l’ultima trovata del Tesoro per rilanciare l’economia a spese delle famiglie. - Fiorina Capozzi

Risparmio e Pir, l’ultima trovata del Tesoro per rilanciare l’economia a spese delle famiglie

Non è detto che i Piani individuali di risparmio siano un affare per i piccoli investitori che da un lato non pagheranno tasse sui rendimenti, ma dall’altro non avranno garanzie su guadagni e capitale. Come nel caso dei fondi di investimento, i ritorni sono infatti legati a doppio filo con la performance delle aziende su cui il gestore deciderà di puntare investendo in azioni ed obbligazioni.

Si chiamano Piani individuali di risparmio (Pir). E sono l’ultima trovata del Tesoro per racimolare denaro fra i risparmiatori nell’intento di finanziare le imprese e sostituire il più possibile il credito bancario. Non è detto però che siano un affare per i piccoli investitori che da un lato non pagheranno tasse sui rendimenti, ma dall’altro non avranno garanzie su guadagni e capitale. Come nel caso dei fondi di investimento, i ritorni dei Pir sono infatti legati a doppio filo con la performance delle aziende su cui il gestore deciderà di puntare investendo in azioni ed obbligazioni.
A differenza degli altri prodotti finanziari in circolazione, i Pir hanno come maggior vantaggio l’esenzione dall’imposta sui redditi da capitale (26% per azioni e bond, 12,5% per i titoli di Stato). A patto di non toccare i soldi per almeno cinque anni. Inoltre promettono rendimenti cospicui, anche se non stellari. I gestori dei Pir proposti dalla società di gestione di risparmio di Banca Intesa, Eurizon, prevedono, ad esempio, un rendimento annuo fra il 3 e il 7 per cento. Si tratta di guadagni consistenti in tempi di tassi bassi. Ma non è tutto oro quel che luccica: questi prodotti che, al momento, sono distribuiti da banche e assicurazioni, ma che ben presto faranno capolino anche allo sportello postale, potrebbero riservare sorprese inattese ad un risparmiatore poco avvezzo al gergo finanziario.
Innanzitutto il rendimento atteso non è una certezza, ma una previsione lorda di redditività. Dall’eventuale guadagno bisognerà poi sottrarre le commissioni bancarie che, a seconda dell’intermediario e del prodotto, variano fra l’1,15 e il 5 per cento. Inoltre, si dovranno anche detrarre le spese di gestione che variano fra l’1 e il 2,5 per cento del capitale investito. Nel caso poi la performance del Pir sia positiva, va anche detratta una commissione di risultato che varia fra il 10 e il 25 per cento. Così alla fine la convenienza rispetto ad un buon conto deposito o ad un altro prodotto finanziario è tutta da verificare.
Quanto al profilo di rischio, poi, il Pir non è certo sicuro al 100%: se il gestore sbaglia investimenti, rendimento e capitale saranno a rischio. Nulla esclude quindi performance deludenti come accaduto, ad esempio, per i fondi immobiliari collocati fra i piccoli risparmiatori all’alba della crisi sul mattone. Infine, a differenza dei fondi di investimento che puntano su grandi società quotate, su titoli di Stato o su obbligazioni di gruppi internazionali, i Pir hanno un focus specifico su piccole e medie imprese italiane. Per legge, questi prodotti investono fino al 70% del patrimonio in azioni o obbligazioni di aziende italiane quotate o europee con “stabile organizzazione” in Italia. Di quel 70%, il 30%, pari al 21% del portafoglio complessivo, deve andare in società medio-piccole quotate e non. Di conseguenza la redditività del Pir dipenderà dal successo delle aziende selezionate dal gestore. Che peraltro ha anche a disposizione un numero limitato di opportunità di investimento fra le piccole e medie imprese italiane quotate in Borsa sui segmenti Star e Aim (124 società in totale). Resta poi il fatto che per il risparmiatore investire in un Pir è un’operazione di fiducia nella banca e nel gestore dal momento che, come accade per i fondi, il cliente non può sapere in anticipo su quali imprese investirà né quali saranno i parametri di selezione che qualificheranno un’azienda come solida.
I Pir non sono quindi un prodotto per tutti come possono esserlo i buoni postali o i Btp, con bassissimi rendimenti ma a garanzia pubblica. Sono piuttosto uno strumento destinato alla diversificazione di portafoglio. Che cosa significa? In pratica, se ho 10mila euro di risparmi, è sconsigliabile investirli tutti in un piano di risparmio seguendo lo specchietto per le allodole dei vantaggi fiscali. Al limite, solo una piccola quota. Non a caso anche il governo ha fissato dei tetti massimi all’investimento in Pir (30mila euro l’anno per cinque anni senza superare la soglia dei 150mila euro). Limiti che tuttavia non sono sufficienti ad evitare il rischio che, in un Paese con un basso livello di alfabetizzazione finanziaria, i piccoli risparmiatori rimangano scottati. Anche perché la legge che ha introdotto i Pir con il positivo intento di sostenere le imprese, nulla dice sui parametri di solidità che devono avere le aziende in cui investiranno gli intermediari. Con il risultato che la discrezionalità del gestore regnerà sovrana sull’investimento e l’unica certezza saranno commissioni e spese bancarie.
Nonostante il fatto che il Pir sia un prodotto destinato ad un investitore consapevole, il Tesoro spera possa attirare l’interesse di un gran numero di risparmiatori: il ministero guidato da Pier Carlo Padoan confida nel fatto che, complice l’esenzione d’imposta, gli italiani possano destinare ai Pir buona parte dei 4mila miliardi dei loro risparmi e contribuire così al rilancio dell’economia. E c’è da dire che finora la risposta dei risparmiatori italiani è stata molto positiva: “La raccolta è al di là di ogni aspettativa”, ha spiegato al Sole24Ore del 18 maggio 2017 il capo della segretaria tecnica del ministero dell’Economia e delle finanze, Fabrizio Pagani, lo stesso che ha tirato le fila della fallimentare operazione Alitalia-Ethiad. Ed, in effetti, i numeri sono da capogiro, come da tempo la finanza italiana non ricordava: secondo Assogestioni, fra gennaio e aprile 2017 i Pir hanno raccolto tre miliardi e mezzo di euro e secondo il Tesoro si potrebbe raggiungere la cifra record di 10 miliardi entro fine 2017. Se il target dovesse essere centrato, la somma sarebbe decisamente superiore alle più rosee previsioni del Tesoro che si attendeva una raccolta fra i 16 e i 18 miliardi in cinque anni. L’altra faccia della medaglia è che il grande successo nella vendita dei Pir aumenterà anche la probabilità che il prodotto finisca nei portafogli “sbagliati” tradendo le aspettative dei piccoli risparmiatori e ripetendo così un copione già visto.

lunedì 29 maggio 2017

Manovrina, l’emendamento Pd ripristina doppi incarichi per 143mila politici locali. - Thomas Mackinson

Manovrina, l’emendamento Pd ripristina doppi incarichi per 143mila politici locali

Nel 2012 è stata introdotta l'incompatibilità tra eletti e incarichi professionali retribuiti nelle pubbliche amministrazioni. Ma in Commissione Bilancio si riapre il capitolo delle consulenze. Unico limite: non potranno essere affidate dallo stesso ente in cui si è eletti. Ma basta andare nel comune a fianco o in un'altra regione. Ecco come hanno resuscitato il doppio lavoro degli eletti.

Zac e zac, un colpo di forbici e una penna. E 143mila politici locali di tutta Italia hanno riacquistato di colpo il diritto al “doppio incarico”, quello di consigliere per il quale ricevono emolumenti e rimborsi dal proprio ente d’elezione e quello ​di consulente geometra, avvocato, progettista o ingegnere collaudatore. Unico limite: non farlo nell’amministrazione in cui occupano​ la poltrona. Ma basta andare in quella a fianco e l’incompatibilità, come d’incanto, non c’è più. E’ una delle sorprese della “manovrina” che in fase emendativa sta funzionando come una macchina del tempo che sposta le lancette della legge secondo i desiderata del momento.
Il Tar ha bocciato le nomine dei nuovi direttori dei musei? L’indomani spunta l’emendamento ad hoc che reinterpreta la legge 16 anni dopo, annullando il divieto. La stessa cosa succede oggi per consiglieri di 6mila comuni ​e 20 regioni d’Italia cui il governo Monti, cinque anni fa aveva messo un freno. A garanzia del risparmio e del buon andamento delle pubbliche amministrazioni, agli eletti venne vietato per legge di svolgere incarichi professionali remunerati. Al massimo, potevano percepire il rimborso delle spese sostenute e gettoni di presenza non superiori a 30 euro ma limitatamente a quelli obbligatori per legge, come il revisore dei conti. Per il resto, niente incarichi.
Quell’impiccio, evidentemente, dà fastidio a molti. Così nella prima versione della manovrina l’incompatibilità è stata rimossa per i 1.117 consiglieri regionali, purché la pubblica amministrazione conferente operi in ambito territoriale diverso da quello dell’ente presso il quale è rivestita la carica elettiva. Per i soli consiglieri comunali la limitazione era estesa all’area provinciale o metropolitana in cui esercita la carica elettiva. Troppo, deve aver pensato il deputato Pd Giuseppe Sanga. Ed ecco che l’onorevole si fa promotore in Commissione Bilancio di un emendamento ad hoc all’articolo 22 che riduce il divieto al solo comune d’elezione.
Così il consigliere o assessore che volesse svolgere incarichi di progettista per un’amministrazione pubblica potrà farlo semplicemente in quella a fianco. Ad esempio un consigliere regionale del Lazio che svolge la professione d’avvocato potrà essere remunerato nel caso in cui sia chiamato ad assistere legalmente in una causa (o incaricato per una consulenza) un ente locale di qualsiasi livello in Liguria o in una qualunque altra Regione diversa dal Lazio. ​Idem per il consigliere comunale di Forlimpopoli che potrà esercitare la sua professione al servizio del comune di Ospedaletto con cui la sua amministrazione confina.
Il blitz a favore del doppio lavoro dei consiglieri passa, ma non inosservato. Attaccano, ad esempio, i deputati di Alternativa Libera: “La scelta del Partito Democratico di cancellare il divieto per le pubbliche amministrazioni di dare incarichi professionali retribuiti a quanti sono già titolari di cariche elettive in enti locali è un vero e proprio insulto ai tanti professionisti, soprattutto giovani, che, in un periodo di crisi come quello attuale, si vedono ridurre le opportunità lavorative e di guadagno in favore dei rappresentati dei partiti”.
Va anche detto che ​dal 2012 ad oggi molti consiglieri avevano fatto ricorso​ e sollevato eccezioni​ contro la legge. I ricorsi erano poi andanti però a sbattere sul portone della Corte Cost​it​uzionale che giusto l’anno scorso si è espressa ​in difesa dei vincoli riferiti a tutte le ipotesi di incarico​. Perché la ratio della legge, spiegava la Corte, non era la “preclusione dello svolgimento degli incarichi in favore delle pubbliche amministrazioni da parte dei titolari di carica” elettiva bensì “escludere che il titolare di tali cariche potesse percepire ulteriori emolumenti”. In pratica che gli incarichi venissero subordinati a logiche politiche anziché di garanzia della buon andamento dell’amministrazione. Con la manovrina quegli incarichi non saranno più vietati ma facoltativi. Basterà spostarsi di qualche chilometro per uscire dal perimetro dei divieti. Magari coperti con rimborso della benzina. E i consiglieri d’Italia, fin d’ora, ringraziano.

Ecco perché il capitale vuole l’immigrazione di massa. - Diego Fusaro




Lo spettacolo pornografico televisivo, la chiacchiera vacua giornalistica, l’opinare ortodosso con tratti di lirismo servile proprio dei chierici accademici hanno come obiettivo portante la distrazione di massa e la conservazione santificante dell’ordine simbolico che superstrutturalmente legittima l’ordine strutturale dei realissimi rapporti di forza. 

Distrazione di massa, giacché l’attenzione delle masse pauperizzate deve senza posa essere spostata dalla contraddizione economica classista. 
Conservazione dell’ordine simbolico dominante, in quanto le masse asservite devono accettare le categorie e i concetti che prevedono e legittimano il loro stesso asservimento. 
L’obiettivo è garantire che i servi lottino sempre solo in difesa delle proprie catene e contro ogni eventuale liberatore. 

Perché il Capitale vincente giubila all’arrivo dei migranti? 
Perché, pur potendo farlo, non ne regola i flussi? 
Non è difficile capirlo, per chi voglia procedere con la propria testa e senza seguire le correnti del politicamente corretto e del pensiero unico artatamente preordinato. 
Il Capitale ha bisogno di masse di schiavi ricattabili e senza diritti, disperati e disposti a tutto pur di sopravvivere. 
Ne ha bisogno per tre ragioni: 
1) perché può sfruttarli senza riserve, nel modo più efficace, come materiale umano disponibile; 
2) perché può usarli, nella lotta di classe, come strumenti per abbassare il costo della forza lavoro, costringendo il lavoratore italiano e francese a lavorare nelle stesse condizioni del migrante (è la marxiana legge dell’esercito industriale di riserva); 
3) perché può far sì che prosperino le lotte tra gli ultimi (autoctoni contro immigrati) e che la lotta resti nel piano orizzontale dei servi in lotta con i servi e mai si verticalizzi nella forma del conflitto tra servo e signore.

http://www.forzadelpopolo.org/ecco-perche-il-capitale-vuole-limmigrazione-di-massa/

Corea del Nord lancia un nuovo missile, Seul convoca Consiglio di sicurezza.

North Korea Koreas Tensions © AP
North Korea Koreas TensionsRIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA/AP

Il vettore ha coperto la distanza di circa 450 km prima di finire nelle acque del mar del Giappone.

La Corea del Nord ha lanciato oggi un missile di tipo Scud dalle vicinanze di Wonsan, città della provincia nordorientale di Gangwon: è l'ipotesi più accreditata dai militari di Seul, secondo cui il vettore ha coperto la distanza di circa 450 km prima di finire nelle acque del mar del Giappone. Il test è avvenuto alle 5:39 sudcoreane, le 22:39 di domenica in Italia, in base ai dati diffusi dal Comando di Stato maggiore di Seul. Se fosse confermato, si tratterebbe del terzo modello di missile diverso lanciato in poche settimane. La mossa di Pyongyang suona come la risposta al G7 di Taormina del fine settimana, in cui i leader dei Sette Grandi hanno concordato che la Corea del Nord "pone nuovi livelli di minaccia in crescita di grave natura alla pace e alla stabilità internazionale", invitandola all'immediato stop dei suoi piani missilistici e nucleari nella piena conformità delle diverse risoluzioni Onu sull'argomento. I missili Scud, di derivazione sovietica, usano carburante liquido e hanno una capacità di 300-500 km, avendo per target la copertura del territorio sudcoreano. Di recente, Pyongyang avrebbe sviluppato una variante, nota come Scud-ER (extended range), in grado di doppiare la distanza e di mettere nel mirino anche il Giappone, tra speculazioni che vorrebbero il Nord impegnato sul fronte dei missili terra-mare contro le portaerei Usa, sempre più numerose intorno alla penisola. Il lancio di oggi è il nono da inizio anno e il terzo da quando il presidente Moon jae-in si è insediato il 10 maggio alla presidenza della Corea del Sud: il primo test, il 14 maggio, ha interessato un Hwasong-12, vettore a medio-lungo raggio che ha raggiunto l'altitudine di 2.111,5 chilometri e la gittata di 787 chilometri (secondo il Nord); il secondo, il 21 maggio, ha visto il missile terra-aria a medio raggio Pukguksong-2, su cui il leader Kim Jong-un ha disposto la produzione di massa.

Il presidente sudcoreano Moon Jae-in ha convocato una riunione d'urgenza del Consiglio sulla sicurezza nazionale, iniziata alle 7:30 (00:30 in Italia), come risposta immediata al lancio del missile a corto raggio deciso e fatto oggi da Pyongyang. La nuova intemperanza del Nord giunge nel mezzo degli sforzi di Seul per riaprire un canale almeno sull'assistenza umanitaria. La scorsa settimana, infatti, il ministero dell'Unificazione di Seul ha approvato la richiesta di un gruppo locale per la fornitura e la consegna di reti e sostanze repellenti contro gli insetti. Seul "replicherà con decisione alle provocazioni della Corea del Nord, ma allo stesso tempo, saremo flessibili sulla revisione dei mezzi per consentire aiuti umanitari e scambi tra civili senza compromettere le sanzioni internazionali", ha detto un funzionario ministeriale citato dall'agenzia Yonhap. 

sabato 27 maggio 2017

Il totalitarismo dell’odio è anche nostro. - Massimo Fini

AttentatoMolti giornali hanno pubblicato in prima pagina la fotografia di Saffie Rose Roussos la più piccola delle vittime (8 anni) della strage di Manchester. Uccidere dei bambini è una cosa orribile, ma strumentalizzarli è qualcosa che sta solo un paio di gradini sotto. Nella prima guerra del Golfo furono uccisi dai bombardieri americani e della Nato 32.195 bambini, dati inoppugnabili perché forniti, sia pur involontariamente, dal Pentagono. Se dovessimo stare nella stessa logica i giornali occidentali dovrebbero pubblicare ogni giorno, per riparazione, la fotografia di uno di questi piccoli, cioè almeno per una decina di anni. Non è che i bambini degli altri sono diversi dai nostri, se non per qualche caratteristica fisica (i bambini dei paesi musulmani, i piccoli Alì, sono in genere tutti riccioluti).
Sul Corriere della Sera Cazzullo si chiede “quale responsabilità possono portare i ragazzi che vanno a un concerto”. Nessuna, ovviamente. Ma quale responsabilità potevano portare i bambini uccisi a Baghdad e a Bassora e le altre decine di migliaia uccisi dai bombardieri americani e Nato in Afghanistan, in Iraq, in Libia?
Certo, in questi macabri conteggi, c’è un’indubbia differenza fra i bambini uccisi a Manchester e i bambini uccisi dai bombardieri americani e Nato. L’attentatore jihadista di Manchester e i suoi complici (perché tutto fa pensare che questa volta non si tratti di un ‘lupo solitario’ ma di una cellula incistata sul suolo britannico) non solo sapevano che avrebbero ucciso dei bambini ma volevano uccidere dei bambini. I piloti, e anche i non piloti nel caso dei droni, americani e Nato non volevano premeditatamente uccidere dei bambini, anche se sapevano che li avrebbero inevitabilmente uccisi e in una misura molto maggiore di quella che può fare un kamikaze. Gli jihadisti non fanno differenze. Noi occidentali qualche differenza la facciamo ancora. In questa orribile ‘guerra asimmetrica’ c’è in questa differenza il solo punto di vantaggio a nostro favore, sul piano morale, rispetto alla jihad.
Sul Foglio Giuliano Ferrara, questo acrobata professionale nel manipolare i fatti, scrive: “Attaccare, per non essere attaccati. Annientare, per non essere annientati…E noi, invece di esportare con una violenza incomparabilmente superiore alla loro l’unico modo di vita che preveda la possibilità della pace, invece di rispettare il loro progetto distruggendone le radici sociali e politiche dove risiedono, noi a baloccarci, a piangerci addosso, a ricusare la violenza e l’odio”. Ferrara riprende in toto, quasi aggravandola, la teoria di George W. Bush: esportare la democrazia con la violenza. Questo irresponsabile individuo sembra non rendersi conto, non so se volutamente o meno, che proprio da questa esportazione violenta della democrazia, in Serbia, in Afghanistan, in Iraq, in Somalia e in Libia, è nata la guerra che oggi ci contrappone non solo all’Isis ma, sia pure in forme diverse, all’intero mondo musulmano e anche a quei pochi altri mondi che ci sono restati estranei. Gli effetti devastanti, sia nelle terre arabe che nelle nostre, della ‘teoria Bush’ sono sotto gli occhi di tutti. Ma non di quelli di Ferrara. Che, pare capire (“con una violenza incomparabilmente superiore”), non sarebbe alieno da gettare qualche atomica sul “mondo della violenza e dell’odio”.
Mi piacerebbe anche capire come “l’unico modo di vita che preveda la possibilità della pace” si concili, per fare un esempio recente, con le armi che Trump si appresta a fornire nella misura di 120 miliardi di dollari all’Arabia Saudita, secondo l’accordo firmato l’altro giorno a Riad.
Questo totalitarismo della violenza, dell’odio, dell’orrore non appartiene solo agli jihadisti, appartiene anche a noi. Anzi siamo stati proprio noi, ubbriacati e resi irresponsabili dalla nostra apparente superiorità militare, a provocarlo.

G7: intesa su freno al protezionismo. Trump e Merkel disertano le conferenze stampa finali.

G7: intesa su freno al protezionismo. Trump e Merkel disertano le conferenze stampa finali

Insolita decisione dei leader di Stati Uniti e Germania. Concluso il vertice con i Paesi africani sul tema delle migrazioni. Nuova riunione dei Grandi Sette fino alle 15. Prime indiscrezioni sul dossier: stallo sul clima, "più tempo agli Usa" per prendere decisione sull'accordo di Parigi.

TAORMINA - Quello di oggi è il secondo e ultimo giorno di quello che è stato definito "il G7 più impegnativo degli ultimi anni". Dopo la prima giornata di vertice, conclusasi con l'accordo sul terrorismo, restano ancora divergenze tra i leader riguardo al clima, alla questione migranti e al commercio internazionale. Secondo le prime indiscrezioni sul dossier finale del G7, è stata raggiunta un'intesa comune sul nodo della lotta al protezionismo. Stallo invece sul rispetto degli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici: agli Stati Uniti è stato concesso più tempo per prendere una decisione.

Il vertice con i Paesi africani. Il programma di inizio mattina prevedeva all'hotel San Domenico a Taormina una sessione "outreach" dedicata al tema delle grandi migrazioni. Presenti i leader di Tunisia, Niger, Nigeria, Kenya ed Etiopia, alcune organizzazioni internazionali, il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres e Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale. Assente la premier britannica Theresa May, ripartita ieri pomeriggio per seguire da vicino le indagini sulla strage avvenuta lunedì a Manchester. Al termine del vertice, foto di gruppo in giardino, prima dell'inizio del nuovo vertice tra i 'Sette Grandi'.

Ad aprire i lavori il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni: "Quest'anno abbiamo messo al centro di questa sessione aperta i rapporti con l'Africa. Già Taormina e la Sicilia dicono quanto è importante per noi il rapporto con l'Africa, ci troviamo nel cuore del Mediterraneo e oggi la discussione si concentra sull'esigenza di partnership a tutto campo tra G7, organismi internazionali e Paesi africani". Il premier ha aggiunto che "oltre all'innovazione della produttività", all'Africa servono "infrastrutture di qualità e investimenti per lo sviluppo del capitale umano", per poi ricordare che il prossimo G20, in programma il 7 e 8 luglio in Germania, "avrà una linea di continuità con l'incontro di oggi, dedicando attenzione particolare all'Africa e all'attrazione degli investimenti". Il primo ministro italiano ha sottolineato come l'agenda del G7 debba dialogare "con quella per lo sviluppo per l'Africa, l'agenda 2063, che è un caposaldo strategico per lo sviluppo del Continente".

E al termine della sessione estesa ai leader dei Paesi africani è arrivato un post di Donald Trump su Twitter: "Un grande meeting del G7 oggi. Molte importantissime questioni in discussione. In cima alla lista naturalmente il terrorismo".

Il presidente americano ha anche comunicato che "molti Paesi della Nato sono stati d'accordo ad aumentare il loro contributo considerevolmente, come dovrebbero. Se il denaro comincerà ad essere versato la Nato sarà molto più forte".

Niente conferenza stampa finale per Trump e Merkel. A sorpresa, la cancelliera tedesca e il presidente americano non parleranno al termine della seconda giornata di lavori del G7. Merkel avrà solo un breve colloquio con i giornalisti tedeschi e non con la stampa internazionale. 


Trump invece lascerà Taormina dopo il pranzo di lavoro con gli altri leader, per recarsi alla base di Sigonella, dove parlerà in quello che secondo il suo portavoce Sean Spicer "non sarà solo un messaggio alle truppe" Usa. Poi l'imbarco sull'Air Force One che lo riporterà con la first lady Melania a Washington. Al suo posto, parleranno con la stampa il consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca, generale H.R. McMaster, ed il direttore del Consiglio economico, Gary Cohn.

Decisioni insolite, che sottolineano il gelo tra i due leader dopo le polemiche emerse ieri in seguito ad alcune dichiarazioni di Trump, che ha definito i tedeschi "molto cattivi" sul commercio internazionale. Si terranno invece regolarmente le conferenze del premier italiano Paolo Gentiloni alle 15, e a seguire, salvo cambiamenti di programma, quelle del presidente francese Emmanuel Macron, del premier giapponese Shinzo Abe e del premier canadese Justin Trudeau.

Commercio internazionale. Il tema del commercio internazionale risulta essere "ancora una questione aperta". Il nodo riguarda la decisione di includere o meno nel documento finale una condanna ad "ogni forma di protezionismo". Ma da quanto emerge, gli Stati Uniti, pur continuando a prediligere la strada degli accordi bilaterali, avrebbero accettato che nel comunicato finale sia inserita l'espressione "lotta al protezionismo". Un traguardo che, secondo fonti diplomatiche, è un grande successo della presidenza italiana e del G7 nel suo insieme.

Clima. Secondo quanto trapela da alcune fonti al G7, dopo "un confronto franco e onesto" sulla questione del clima ci sarà "un'unica dichiarazione a sette" al termine del vertice, nella quale i sei altri partner si impegneranno "a lasciare più tempo agli Stati Uniti per prendere una decisione sull'accordo di Parigi". Una presa d'atto dello stallo sul tema del rispetto dell'accordo sui cambiamenti climatici. I Paesi europei, sostenuti da Giappone e Canada, si sono impegnati a fondo per spiegare agli Usa le ragioni "non solo ambientali, ma anche economiche" che spingono a favore dell'accordo di Parigi.

Migranti. Il tema è ancora in discussione nella riunione di oggi, ma da quanto trapela da Taormina c'è consenso sulla formulazione degli impegni sui migranti nel comunicato finale dei Sette. Non vi sarà tuttavia un documento separato, allegato al comunicato, contenente un piano per la gestione dei flussi migratori.

Caso Russia-Ucraina. All'ordine del giorno anche una discussione sulla crisi tra Russia e Ucraina: nel dossier finale i Sette Grandi si impegneranno a prendere "ulteriori azioni" nei confronti della Russia, se non rispetta gli accordi di Minsk sull'Ucraina. Sulla necessità di non levare le sanzioni a Mosca ci sarebbe quindi anche l'accordo degli Usa.

Tensione a Giardini Naxos. Proprio mentre a Taormina i leader saranno impegnati nelle conferenze stampa finali, nella vicina Giardini Naxos è previsto un corteo "no summit", in cui sono attese più di tremila persone. Un'ordinanza del sindaco Lo Turco ha previsto per oggi la chiusura di negozi, scuole e uffici. Tuttavia, molte attività sono chiuse già da ieri per timore di scontri tra i manifestanti e le forze dell'ordine. I commercianti della zona hanno realizzato barriere in legno e alluminio a protezione delle proprie vetrine.


http://www.repubblica.it/esteri/2017/05/27/news/taormina_g7_secondo_giorno-166531413/

G7?
Più che di G7 io parlerei del G1+6...: gli USA + gli altri.
Grande confusione, pertanto, su "protezionismo" e "clima", uniche certezze, invece, sulle sanzioni alla Russia.
Gentiloni: "..all'Africa servono "infrastrutture di qualità e investimenti per lo sviluppo del capitale umano.."
Questi personaggi alquanto bizzarri, son bravi a stabilire ciò che serve alle altre popolazioni, mentre sono pessimi amministratori delle popolazioni che sono stati chiamati a governare.
Paradossi e dintorni.
"Niente conferenza stampa finale per la Merkel." 
Ha, ha, ha....La Merkel non si fida dei nostri giornalisti...neanche io mi fiderei...
"Trump, invece, lascerà Taormina per recarsi alla base di Sigonella."
Naturamente, Trump a Sigonella è a casa sua....

Sui musei si riapre lo scontro tra Governo e magistrati. Il Pd vuole riformare i Tar, i giudici: "Cambiare leggi, non i tribunali". - Claudio Paudice



Il prof Cerulli Irelli all'HuffPost: "Andava interpretata diversamente, ma le leggi siano scritte in modo più chiaro."


"Non ho parole, ed è meglio...". È con il tweet delle 9.37 di Dario Franceschini che iniziano le tensioni tra il Governo e giudici amministrativi. Ed è con il post su Facebook a mezzogiorno del segretario Pd Matteo Renzi che le tensioni si trasformano in uno scontro tra politica e magistratura. Dopo la decisione del Tar del Lazio di bocciare le nomine di cinque direttori di musei avvenute per effetto della riforma targata Franceschini è partito, puntuale, il treno delle dichiarazioni politiche. Con il segretario dem Matteo Renzi che ha di fatto indossato l'elmetto: "Non abbiamo sbagliato perché abbiamo provato a cambiare i musei: abbiamo sbagliato perché non abbiamo provato a cambiare i Tar". Tar nel mirino, tanto che il ministro della Giustizia Andrea Orlando ne chiede una 'riforma'. "Andrebbero cambiati, senza demonizzarli, precisando meglio qual è l'ambito di competenza della politica e quello del tribunale amministrativo che spesso entra nel merito di scelte che dovrebbero essere della politica", ha dichiarato a L'Aria che Tira.
Il mondo ha visto cambiare in 2 anni i musei italiani e ora il TAR Lazio annulla le nomine di 5 direttori. Non ho parole, ed è meglio..
Con due sentenze, la 6170/2017 e la 6171/2017, i giudici laziali hanno bocciato cinque nomine di direttori di musei avvenute sulla base della riforma dei voluta da Dario Franceschini, sotto il governo Renzi, con il decreto legge 83/2014. Tre le motivazioni: criteri "magmatici" di valutazione dei candidati con riduzione a sole tre classi di merito (A, B e C), prove orali di una selezione pubblica svolte a porte chiuse, in alcuni casi via Skype. E un pasticcio, più lessicale che meramente giuridico, sull'assegnazione di incarichi dirigenziali nella pubblica amministrazione a candidati di origine straniera.
Un duro colpo per il Governo e, di riflesso, per il Pd di Matteo Renzi che proprio sul tema della cultura ha impostato larga parte della sua narrazione e che rivendica, non da oggi, la crescita di visitatori nei musei italiani degli ultimi anni. "Il fatto che il Tar del Lazio annulli la nostra decisione merita il rispetto istituzionale che si deve alla giustizia amministrativa ma conferma - una volta di più - che non possiamo più essere una repubblica fondata sul cavillo e sul ricorso", ha attaccato il segretario dem.
Gli attacchi serrati del Pd alla magistratura amministrativa non potevano passare sotto silenzio dei diretti interessati. "Le istituzioni rispettino i magistrati, chiamati semplicemente ad applicare le leggi, spesso poco chiare se non incomprensibili. La nomina di dirigenti pubblici stranieri (chiamati a esercitare poteri) è vietata nel nostro ordinamento. Se si vogliono aprire la porte all'Europa - e noi siamo d'accordo - bisogna cambiare le norme, non i Tar", ha dichiarato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati amministrativi (Anma) Fabio Mattei.
"I concorsi - ha aggiunto Luca Cestaro, segretario generale Anma - per definizione sono pubblici. Un concorso il cui colloquio avviene via skype con candidati collegati magari dall'Australia e senza possibilita' di assistervi - com'è capitato ad alcuni candidati alla direzione dei musei - semplicemente non è un concorso. E' una conversazione privata, senza alcuna garanzia sulla trasparenza della procedura".
Posizione più cauta quella assunta dal professore Vincenzo Cerulli Irelli, esperto di diritto amministrativo: "È evidente che il decreto era volto a favorire l'adeguamento a standard internazionali nella gestione dei musei, in questo senso credo che il Tar abbia interpretato male la riforma Franceschini. L'intento era proprio quello di svecchiare questo Paese", ha commentato all'HuffPost. "Quanto alla questione degli orali a porte chiuse, qui è evidente l'errore procedurale: i concorsi si fanno a porte aperte. Tuttavia mi sembra esagerato che venga chiesto di riformare i Tar: come tutti i giudici a volte fanno bene, a volte male. Anzi, a me sembra che i Tar funzionino meglio di altri giudici. Di certo le norme vanno interpretate in base alla ratio e agli obiettivi che si danno. Certo, il decreto poteva essere scritto in maniera più chiara, ma io l'avrei interpretata diversamente dal Tar", ha concluso Cerulli Irelli.
Secondo i giudici del Lazio l'assegnazione della direzione dei musei, che si configura come incarico di livello dirigenziale, a cittadini stranieri non è esplicitata nel testo del decreto. In altre parole, la riforma Franceschini, per come è scritta, non deroga al divieto di assegnazione di incarichi dirigenziali a cittadini non italiani come regolato dal decreto legislativo 165/2001: "Le disposizioni speciali introdotte dall'art. 14, comma 2-bis, del d.l. 84/2014, convertito in l. 106/2014, non si sono spinte fino a modificare o derogare l'art. 38 d.lgs. 165/2001", si legge nella sentenza. Tradotto: se nel decreto fosse stato chiaramente superato il divieto stabilito dalla legge che regola le modalità di assegnazione di incarichi dirigenziali nelle pubbliche amministrazioni, quali sono le figure di direttori di museo come stabilito dalla riforma Franceschini, le nomine in oggetto sarebbero state valide a tutti gli effetti.
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"Deve quindi affermarsi che il bando della selezione qui oggetto di contenzioso non poteva ammettere la partecipazione al concorso di cittadini non italiani in quanto nessuna norma derogatoria consentiva al MIBACT di reclutare dirigenti pubblici al di fuori delle indicazioni, tassative, espresse dall'art. 38 d.lgs. 165/2001", scrive sempre il Tar. E questo perché, si legge, "l'articolo 38 [..] non è citato". E l'entità e la portata della deroga in questione "va circoscritta al numero dei conferimenti di incarichi dirigenziali a soggetti esterni all'amministrazione", in quanto è chiaro, "anche sotto il profilo di semplice analisi lessicale", che la riforma dei musei impatta esclusivamente sull'articolo 19 della norma di riferimento che regola la percentuale di personale di livello dirigenziale nelle pubbliche amministrazioni.
Quanto al fatto che alcune prove orali si siano svolte a porte chiuse, il giudice amministrativo rileva che "secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale, al fine di assicurare il rispetto dei principi di trasparenza e parità di trattamento tra i candidati di una selezione pubblica [...]) occorre che durante le prove orali sia assicurato il libero ingresso al locale, ove esse si tengono, a chiunque voglia assistervi e, quindi, non soltanto a terzi estranei, ma anche e soprattutto ai candidati, sia che abbiano già sostenuto il colloquio, sia che non vi siano stati ancora sottoposti [...] al fine di verificare di persona il corretto operare della commissione". Tradotto: i concorsi pubblici sono tutti a porte aperte per motivi di ovvia trasparenza. E non su Skype, come invece è accaduto per i candidati Stefano Carboni e Flaminia Gennari Santori, residenti in Australia il primo e in Usa la seconda.
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Infine il Tar del Lazio contesta le tre classi di giudizio dei candidati ammessi al colloquio con la Commissione: valutazione contraddistinta con tre lettere (A per i punteggi da 15 a 20 punti, B per i punteggi da 11 a 14 e C per i candidati meritevoli di 10 punti). "Come è noto, in punto di diritto, il voto numerico attribuito dalle competenti commissioni alle prove scritte od orali di un concorso pubblico o di un esame esprime e sintetizza il giudizio tecnico-discrezionale della commissione stessa, contenendo in sé la motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni o chiarimenti", scrive il Tar. E infatti, nel caso in questione la "magmatica riconduzione" dei 20 punti alle tre classi di valutazione "non consente di comprendere il reale punteggio attribuito a ciascun candidato, anche in ordine al criterio di graduazione di ogni singolo punto dei 20 da assegnare all'andamento della prova orale, a conclusione del colloquio sostenuto".
HPhttp://www.huffingtonpost.it/2017/05/25/sui-musei-si-riapre-lo-scontro-tra-governo-e-magistrati-il-pd-v_a_22109486/?utm_hp_ref=it-homepage
Loro fanno le leggi, ma quando la magistratura le applica si ribellano.
"Le istituzioni rispettino i magistrati, chiamati semplicemente ad applicare le leggi, spesso poco chiare se non incomprensibili. La nomina di dirigenti pubblici stranieri (chiamati a esercitare poteri) è vietata nel nostro ordinamento. Se si vogliono aprire la porte all'Europa - e noi siamo d'accordo - bisogna cambiare le norme, non i Tar", ha dichiarato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati amministrativi (Anma) Fabio Mattei. 

Lo sostengo da sempre: le leggi vengono costruite per essere interpretate e manipolate a seconda delle situazioni e per agevolare gli approfittatori, non per trasmettere un senso di logica e giustizia.