lunedì 13 novembre 2017

"Voti delle Regionali comprati a 25 euro". Avviso di garanzia per Edy Tamajo. - Emanuele Lauria e Salvo Palazzolo



Il neo deputato di Sicilia Futura indagato dai pm di Palermo per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione elettorale. La difesa: "Accuse inesistenti, chiariremo tutto".

Nell’ultima campagna elettorale per le Regionali siciliane, appena qualche giorno fa, sarebbero bastati 25 euro per comprare un voto. E’ più di un sospetto. La procura diretta da Francesco Lo Voi ha notificato un avviso di garanzia a uno dei recordman del nuovo Parlamento isolano, Edmondo Edy Tamajo, appena eletto con quasi 14 mila preferenze nelle fila di  Sicilia Futura, che ufficialmente sosteneva il candidato del centrosinistra Fabrizio Micari. Tamajo è stato il più votato a Palermo, il terzo in Sicilia. Adesso, è indagato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione elettorale, i magistrati hanno mandato la Guardia di finanza a perquisire il suo comitato elettorale. Per i prossimi giorni, l’esponente politico è convocato al palazzo di giustizia, davanti al procuratore aggiunto Sergio Demontis e al sostituto Fabiola Furnari.

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E’ ormai bufera sull’Assemblea regionale siciliana: il giorno dopo le elezioni, mentre ancora era in corso lo spoglio delle schede, è stato arrestato Cateno De Luca, uomo forte dell’Udc di Messina, ora è ai domiciliari per evasione fiscale (ieri ha comunque incassato un’assoluzione nell'ambito di un'altra indagine). Ora, il caso Tamajo, che alle Comunali di Palermo del giugno scorso aveva già centrato un filotto da consegnare agli archivi: c’era il suo zampino nell’elezione di tutti e cinque i consiglieri comunali della lista di Uniti per Palermo. Il deputato originario di Mondello aveva insomma creato il suo partito personale nell’alveo di un movimento, Sicilia Futura, guidato da uno che di conquista di consensi se ne intende, l’ex ministro Salvatore Cardinale.

Ora, Tamajo, 41 anni, è l’ultimo entrato — suo malgrado — nella schiera degli “impresentabili”. Lui si difende: "Tutto falso, non conosco affatto le persone di cui si parla nel provvedimento della procura". I suoi legali, Giovanni Castronovo e Nino Caleca, ribadiscono: "Chiariremo tutto, e alla fine Tamajo ne uscirà come parte offesa, per qualcosa che altri hanno commesso alle sue spalle".

Di sicuro, comunque, Tamajo è un moltiplicatore di preferenze. Ne prese 2.727, da candidato al consiglio comunale, nel 2007. Cifra quasi raddoppiata cinque anni dopo, quando si candidò all’Ars: 5.107. Bottino incrementato ancora qualche giorno fa, quando è stato rieletto a Palazzo dei Normanni con 13.984 suffragi. D’altronde, la scuola è di quelle buone. Quella di un altro Tamajo, Aristide, il padre di Edy che è stato consigliere comunale e assessore dell’Udc, uno dei fedelissimi di Cuffaro negli anni d’oro del centrodestra. I Tamajo hanno tenuto a battesimo il primo comizio di Micari, al ristorante “Le Antiche Mura” di Mondello. Ma nel corso della campagna elettorale è sorto il sospetto che alla fine Edy abbia dirottato parte dei suoi consensi non sul rettore voluto dal centrosinistra ma sull’avversario di centrodestra Nello Musumeci.


http://palermo.repubblica.it/cronaca/2017/11/11/news/_voti_delle_regionali_comprati_a_25_euro_avviso_di_garanzia_per_edy_tamajo-180791934/

sabato 11 novembre 2017

Il timore che l'onda arrivi a Francoforte. Il Quirinale preoccupato che Draghi possa essere tirato in ballo per l'operazione Mps-Antonveneta. - Alessandro De Angelis



Da martedì iniziano le audizioni sulla banca senese.


Aleggia una certa inquietudine, ai massimi vertici istituzionali, perché la vicenda sta andando proprio nella direzione che Sergio Mattarella ha sempre giudicato dannosa per la credibilità complessiva del paese. La commissione d'inchiesta sulle banche è diventata, al tempo stesso, il set perfetto di una campagna elettorale distruttiva e il luogo di processo sommario alle istituzioni di vigilanza, in un confuso rimpallo di responsabilità: Consob contro Bankitalia, Bankitalia contro Consob. E soprattutto l'ennesima irritualità, sul tema banche, come ai tempi della mozione parlamentare del Pd su Visco.
Anzi, le tante irritualità: una normale audizione trasformata in "testimonianza", come se, appunto, fosse un processo; un presidente di commissione che si dice perplesso della richiesta ma che poi prende atto, senza tanta resistenza e senza sospendere i lavori e discutere quantomeno il calendario, della volontà della commissione (è raro che nella vita parlamentare i presidenti di commissione subiscano così le decisioni della commissione, senza in fondo esserne d'accordo in un classico gioco delle parti); e con una confusione in cui alla fine va tutto sulla web tv, senza tante distinzioni sui livelli attorno a cui si articola il lavoro di una commissione d'inchiesta (pubblico, riservato, segreto): "Parliamoci chiaro – dice un parlamentare della commissione – siamo di fronte a un'escalation, evidentemente innescata da Renzi, che vuole scaricare tutta la responsabilità dei crac bancari su Bankitalia. Lo scontro tra Bankitalia e Consob, in tal senso, è musica per lui".
Scontro che avviene proprio nel momento in cui anche la presidenza della Consob è in scadenza e sulla casella già circolano i primi nomi graditi all'ex premier, come quello di Marco Fortis, il tecnico "ottimista", già tremontiano, i cui dati vengono indicati come una bibbia per le apparizioni tv dei renziani. E dopo la riconferma di Ignazio Visco alla guida di Bankitalia, il che sembra suonare quasi come una vendetta dell'ex premier, per la serie: se fosse stata recepita l'indicazione del Pd a sostituirlo, le cose sarebbero andate diversamente.
Ora il timore al Quirinale è che questo sia solo l'inizio. E che, in un imprevedibile crescendo, possa essere tirato in ballo, in modo scomposto e confuso, il nome dell'attuale presidente della Bce Mario Draghi. La calendarizzazione dei lavori indica che martedì si partirà da Mps, come più volte chiesto da Matteo Orfini, e dunque si arriverà a discutere della madre di tutte le acquisizioni: l'acquisto di Antonveneta da parte del Monte dei Paschi di Siena, operazione costata 17 miliardi di euro quando Mps aveva un capitale residuale di soli 4,8 miliardi. Draghi era allora il governatore di Bankitalia, organismo che autorizzò l'acquisizione condizionandola a una complessa operazione di ricapitalizzazione e di emissioni di strumenti ibridi.
Ora, è evidente che il problema non è la forma, nel senso che c'è una consolidata prassi per cui la Bce non può essere chiamata davanti a una commissione nazionale. Ma la sostanza politica: tirare in ballo in questo processo sommario, politico e mediatico, "l'uomo che ha salvato l'Italia" – così viene vissuto nel mondo – equivale, per chi ha un minimo di sensibilità, a un danno nazionale, non irrilevante nelle sue proporzioni.
In questo quadro, non è forzato – questa è l'impressione che si ricava parlando con fonti di alto livello - ritenere improbabile un allungamento della legislatura anche per i rischi insiti in questo tipo di dinamica. Non è l'unico elemento, ma certo fa parte dei ragionamenti di questi giorni. Certo il timing della fine della legislatura dipende da Gentiloni, dal governo, dal Parlamento, ma è un fatto che il voto a marzo, con scioglimento a inizio del prossimo anno, di fatto chiude anche questa commissione, perché con le camere sciolte non si possono più fare audizioni, ma solo la relazione finale. Di fatto col Natale (poco più di una mesata) si chiuderebbe tutto. E la campagna elettorale, si sposterebbe nelle piazze e nei talk show. Le sue sedi più appropriate.

venerdì 10 novembre 2017

la prospettiva.

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In un mondo in cui un'immagine pubblicitaria viene mostrata sottosopra pretendendo di invitare chi la vede a guardare da un'altra prospettiva, e non ci si rende conto che quella prospettiva è inquietante, fastidiosa da guardare, che cosa ci aspettiamo, la perfezione?

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Un'altra prospettiva, che inviti a cambiare, deve essere allettante, rassicurante, non può essere sottosopra....deve essere gradevole, traquillizzante, accattivante.


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Non sanno neanche più fare pubblicità.

La caduta degli Dèi. - Gianni Del Vecchio



La politica processa senza riguardo le istituzioni. Un gioco pericoloso destinato a ritorcerglisi contro.


Ci sono giorni in cui anche gli Dèi cadono. Ed è stata appunto una di queste giornate a palazzo San Macuto, sede della Commissione d'inchiesta sulle banche. Lì le due principali istituzioni che hanno il compito di vigilare sulla stabilità del sistema finanziario – Bankitalia e Consob – sono state messe alla sbarra, nel vero senso della parola, dal Parlamento, che ha deciso di avocare a se i poteri propri della magistratura trasformando due semplici audizioni in testimonianze. Con un corollario non da poco: chi mente potrà essere incriminato per falsa testimonianza. Di più, le due istituzioni sono state anche umiliate, come quando il grillino Carlo Sibilia ha chiesto alla guardia di Finanza di "controllare" il capo della vigilanza della Banca d'Italia Carmelo Barbagallo affinché non assistesse di nascosto alla deposizione dell'omologo Consob, Angelo Apponi. Purtroppo davanti alla linea dura scelta dai parlamentari i due alti dirigenti degli organismi di vigilanza, Barbagallo e Apponi, non hanno fatto altro che rimpallarsi accuse reciproche sul mancato controllo di ciò che ha portato nell'ultimo decennio al crack delle due banche venete, Veneto Banca e Popolare di Vicenza. Al di là dei tecnicismi: il Parlamento, come si diceva, ha processato Consob e Bankitalia, con queste ultime che hanno fatto una magra figura ricorrendo al più classico degli strumenti, lo scaricabarile. E solo il fatto che alla fine sia saltato un confronto all'americana fra Apponi e Barbagallo, ha evitato una scena più desolante, con i due alla stregua di due bambini che vis-à-vis non avrebbero potuto far altro che incolparsi a vicenda su chi in precedenza avesse rovesciato il barattolo di marmellata.
Insomma, quello che è andato in scena a San Macuto è una delle rotture istituzionali più sorprendenti e destabilizzanti degli ultimi anni. Un'istituzione politica, – il Parlamento – già abbondantemente screditato e ai minimi di fiducia da parte dell'opinione pubblica, ha gettato nel fango altre due istituzioni tecniche – Bankitalia e Consob – lasciando che si delegittimassero a vicenda. Sia chiaro: non si tratta di voler nascondere sotto il tappeto le responsabilità dei due enti controllori, che pur ci sono e non sono trascurabili. Ma la modalità scelta dai partiti vuole intenzionalmente darli in pasto all'opinione pubblica, indicandoli come gli unici colpevoli delle crisi degli istituti bancari italiani in una specie di lavacro pubblico delle proprie responsabilità. Un modo per presentarsi prossimamente agli elettori mondati dalla macchia di non aver saputo tutelare imprese e risparmiatori, chiudendo spesso e volentieri un occhio (o forse due) sulle malefatte di banchieri che sono stati tutt'altro che distanti dalla politica, sia locale che nazionale. E a nessuno pare importare che presto l'onda lunga possa arrivare a lambire i piani alti di Francoforte e cioè l'ufficio del presidente della Bce, Mario Draghi. Quello che importa è solo la campagna elettorale.
Ora, quello che resta dopo questa giornata campale per le istituzioni – e che purtroppo sarà solo l'inizio come ben scrivono qui Angela Mauro e Alessandro De Angelis - sono tre domande. Quali saranno le conseguenze di questo gioco al massacro? Davvero la sostituzione di Visco avrebbe fermato questa deriva, come ritengono ai piani alti del Nazareno? E infine: la politica può realmente tirarsi fuori da quello che è successo in questi anni a Mps, Banca Etruria e banche venete?
1. Le conseguenze sono molto rischiose per l'Italia. Non tanto oggi ma fra sei mesi. Supponiamo che si vada a votare a marzo 2018. Da oggi fino al voto quasi tutti i partiti dell'arco istituzionale faranno campagna contro Bankitalia, Consob e probabilmente lo stesso Draghi. La faranno i 5 Stelle, la farà il Pd, la farà la Lega, la farà Fratelli d'Italia, la farà l'ala più intransigente di Forza Italia. Se si mettono assieme le percentuali di voto che hanno secondo gli ultimi sondaggi, viene fuori un dato eclatante: più del 70 per cento del prossimo parlamento picconerà le massime istituzioni finanziarie senza ritegno. Il risultato? A campagna elettorale finita ci ritroveremo con la forte delegittimazione di quegli istituti che finora hanno sempre provveduto a fornire le cosiddette "riserve della Repubblica". Da Bankitalia infatti sono passati infatti una miriade di presidenti del consiglio e ministri dell'Economia (Ciampi, Dini, Saccomanni e tanti altri) che più di una volta hanno tirato fuori dai guai il paese nei frequenti casi di default della politica. Ed è proprio questo il punto: ad aprile è molto probabile che la politica non riesca a esprimere una chiara maggioranza visto come è congegnato il Rosatellum. Quindi c'è il concreto rischio di trovarsi in una fase di stallo politico con l'ulteriore difficoltà di non poter attingere facilmente al tradizionale bacino di "tecnici", ormai svuotato e delegittimato.
2. Diverse fonti dem vicine al segretario Renzi sostengono che se il premier Gentiloni e il presidente Mattarella non si fossero intestarditi sulla riconferma del Governatore Visco, la Commissione Banche non si sarebbe ritrovata a dover infliggere a Bankitalia tale umiliazione. Tesi vera? Probabilmente no. No perché ormai il treno delle audizioni in Commissione era partito e i renziani non avrebbero potuto lasciare la linea dura e pura a 5 stelle e Lega dopo la mozione anti-Visco. E poi la campagna elettorale è iniziata e lo stesso Renzi ha deciso di cavalcare il tema dell'attacco alle "alte burocrazie dello Stato" per dirla con parole sue. Quindi Visco o non Visco, Bankitalia sarebbe rimasta comunque nel mirino.
3. I partiti non possono scaricare tutte le responsabilità sui vigilanti, i quali, come detto, non sono stati impeccabili. Partiamo da Mps, che negli ultimi dieci anni ha bruciato circa 20 miliardi. La crisi della banca senese parte nel 2008 con la sciagurata acquisizione di Antonveneta per una cifra totalmente fuori mercato. Da quel momento è stato un susseguirsi di perdite e aumenti di capitale finiti nel nulla che hanno portato l'istituto sull'orlo del fallimento e al salvataggio finale fatto dallo Stato. Bankitalia non ha vigilato correttamente? Può anche darsi. Ma chi era l'azionista di controllo che ha espresso per anni i vertici – in primis Giuseppe Mussari – che a loro volta hanno portato la banca al crack? La Fondazione Mps, che ai bei tempi deteneva addirittura il 55% del capitale. E da chi era controllata la Fondazione? Semplice: da comune e provincia di Siena e cioè dalla politica locale, più in particolare dai Ds prima e dal Pd poi. 
Passiamo a Banca Etruria. Qui è ancora più facile, visto che nel board dell'istituto ha militato per anni fino a ricoprire la carica di vicepresidente, Pier Luigi Boschi, padre della renzianissima sottosegretaria alla presidenza del consiglio Maria Elena. Infine le banche venete: come è possibile immaginare che nessun politico locale abbia avuto mezzo dubbio sulla bontà del "sistema Zonin", che distribuiva crediti facili al territorio vicentino e dividendi corposi agli azionisti in un momento storico in cui le banche nazionali chiudevano i rubinetti a seguito della crisi finanziaria? Semplice, anche in questo caso: Zonin aveva rapporti trasversali con tutti gli schieramenti che hanno guidato il Veneto e Vicenza in particolare.
Insomma, è giusto, per dirla alla Renzi, che "chi ha sbagliato deve pagare" e che "non si tratta di populismo ma di giustizia". Ma così come Bankitalia e Consob si stanno sorbendo oggi la loro quota di fiele, è probabile che la stessa quantità toccherà a quei partiti che oggi si arrogano il diritto a essere giudici inquisitori.
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Non credo che i cittadini si lascino ulteriormente ingannare dalla politica con il rimpallo delle responsabilità perchè sono ben consci del fatto che è la politica a nominare i responsabili delle istituzioni ed è sempre la politica a dettare le regole del gioco. 
In quanto a Renzi, lui ostacolava la rinomina di Visco per proteggere la Boschi alla quale è legato da patti segreti che solo loro e Napolitano conoscono; ma Visco, al contempo, DOVEVA essere riconfermato perchè a conoscenza di fatti che avrebbe potuto rendere pubblici. 
Il classico cane che si morde la coda.

Caos Tari, la tassa sui rifiuti I Comuni l’hanno “gonfiata”. - Fabio Savelli



La gran parte dei municipi italiani ha applicato la quota variabile alle pertinenze dell’utenza domestica chiedendo ai contribuenti più di quanto dovevano versare. L’interrogazione del parlamentare 5 Stelle, Giuseppe L’Abbate, e la replica del Mef.

Anche stavolta il diavolo sta nel dettaglio. Ad accorgersi del dettaglio un giovane parlamentare del Movimento 5Stelle, Giuseppe L’Abbate. 
Con l’aiuto del suo commercialista ha notato che nel versamento della tassa sui rifiuti qualcosa non quadrava e per questo ha fatto un’interrogazione parlamentare. Il suo comune, Polignano a Mare nel barese, nel suo regolamento per la Tari aveva applicato la quota variabile a tutte le pertinenze dell’utenza domestica, compresi box e cantine. In realtà, come ha chiarito recentemente il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta, si tratta di un’errata comprensione della legge di primo livello, secondo la quale la Tari, per la parte variabile, va applicata soltanto all’abitazione e non anche alle pertinenze.

Peccato che finora siano stati in pochi, nei regolamenti Tari, ad applicare la normativa come andava fatto ed è pertanto complicatissimo comprendere quanto i contribuenti abbiano già versato impropriamente. Per capire però se si è stati frodati nostro malgrado, è necessario constatare sull’avviso di pagamento — che contiene il riepilogo dell’importo da pagare — le istruzioni per il versamento (scadenza rate e codice tributo) nonché il dettaglio delle somme. È in questa parte che l’ente indica le unità immobiliari (con i dati catastali: foglio, particella, sub), la superficie tassata, il numero degli occupanti e la quota fissa e variabile distinta per ogni unità immobiliare. La quota variabile, ricordiamo, deve essere presente solo per l’abitazione, non anche per le eventuali pertinenze.
Per chiedere invece eventuali rimborsi è necessario attendere una circolare ministeriale del ministero dell’Economia, di cui lo stesso Baretta dovrà farsi carico, magari concertandosi con le associazioni dei consumatori.

Scoperti i più antichi fossili di mammifero.

Ricostruzione dell’habitat dei primi mammiferi (fonte: Mark Witton, paleoartista dell’Università di Portsmouth) © Ansa


Sono denti vecchi di 145 milioni di anni.

Rinvenuti i fossili dei più antichi progenitori dei mammiferi: risalgono entrambi a 145 milioni di anni fa e appartengono alla stessa linea evolutiva che ha portato alla comparsa dell'uomo. I loro resti sono stati trovati in Gran Bretagna, lungo la Jurassic Coast del Dorset, sulla costa della Manica, e sono descritti sulla rivista Acta Palaeontologica Polonica.

Sono denti di due specie sconosciute, chiamate Durlstotherium newmani e Durlstodon ensomi, dal nome della baia di Durlston, e a studiarli è stato il gruppo di paleontologi dell'Università britannica di Portsmouth, coordinato da David Martill e Steve Sweetman. 

A scoprirli, nel 2015, era stato uno studente universitario, Grant Smith: mentre preparava la tesi di laurea studiando alcune rocce del periodo Cretaceo, che va da 145 a 65 milioni di anni fa, si era accorto della presenza dei denti fossili. Li aveva quindi mostrati a Sweetman, che ne aveva intuito subito l'importanza: "sono rimasto a bocca aperta, erano denti mai osservati prima d'ora in questo tipo di rocce", ha detto. 

L'analisi dei denti fossili ha indicato che appartenevano a piccoli roditori notturni che vivevano nascosti in tane all'ombra dei dinosauri, a quel tempo padroni della Terra. Dall'analisi dei denti è emerso che i primi mammiferi si nutrivano soprattutto di insetti e una delle due specie anche di piante. Il loro avanzato stato di deterioramento ha spinto gli studiosi a ritenere che questi progenitori dei mammiferi siano vissuti piuttosto a lungo. "Non è cosa da poco - ha concluso Per Sweetman - quando si condivide lo stesso habitat con i dinosauri".

giovedì 9 novembre 2017

Sicilia, dall’allevamento di conigli all’arresto: chi è Cateno De Luca, il Masaniello che si spogliava all’Ars. - Giuseppe Pipitone

Sicilia, dall’allevamento di conigli all’arresto: chi è Cateno De Luca, il Masaniello che si spogliava all’Ars

Rieletto a Palazzo dei Normanni lunedì pomeriggio, è finito ai domicliari per evasione fiscale mercoledì mattina: battuto probabilmente ogni record registrato sul fronte dei rapporti tra la politica e le ordinanze di custodia cautelare. Prima, invece, aveva fatto parlare di sé perché si era denudato a Palazzo dei Normanni. O perché era riuscito a controllare il sindaco, la maggioranza ma anche l'opposizione nel suo piccolo comune.

Quando lo esclusero dalla commissione Bilancio dell’Assemblea regionale siciliana ci rimase davvero male. Talmente tanto che mise in scena la più ridicola delle proteste: si presentò in mutande nella sala stampa del Parlamento regionale. Per poi coprirsi soltanto con la Trinacria. Un chiodo fisso quello di Cateno De Luca per la bandiera della Sicilia, ricamata persino sulla cravatta d’ordinanza fornita agli esponenti di Sicilia Vera, il movimento da lui fondato dopo un incessante pellegrinare da partito in partito. “Il colore che ho scelto è rosso-aranciato, quello della bandiera della Sicilia. Il rosso mi piace molti sostengono che io sia uno di sinistra che fa politiche di destra, forse un po’ è vero”, si autoincensava il deputato regionale, che con quel movimento si è pure candidato a governatore nel 2012. Sissignore: in Sicilia succede anche questo. Che un consigliere regionale noto per essersi denudato in pubblico, dopo aver conosciuto persino la galera, decida non di ritirarsi a vita privata ma di rilanciare: “Il presidente lo faccio io”. Prese l’1,2%, ma non si diede per vinto. E cinque anni dopo ci ha riprovato. Rieletto a Palazzo dei Normanni lunedì pomeriggio, è finito ai domicliari per evasione fiscale mercoledì mattina: battuto probabilmente ogni record registrato sul fronte dei rapporti tra la politica e le ordinanze di custodia cautelare.
Caf e sacchi edilizi – Per i giudici De Luca è “il dominus di una serie di società ed enti“, utilizzati per sottrarre al fisco 1,7 milioni di euro. Sono i vari Caf di un ente che si chiama Fenapi, acronimo di Federazione nazionale autonoma piccoli imprenditori, di cui risulta essere il “direttore generale nazionale”. Il presidente, invece, è tale Carmelo Satta, arrestato con lui stamattina. E con lui coinvolto nell’inchiesta sul “sacco di Fiumedinisi“, il minuscolo paesino in provincia di Messina di cui De Luca era sindaco. E in cui, per i pm, avrebbe voluto realizzare una gigantesca speculazione edilizia con l’immancabile mega albergo dotato di centro benessere. Purtroppo lo arrestarono prima con  l’accusa di tentata concussione e abuso d’ufficio, insieme al fratello Tindaro: in famiglia evidentemente non piacciono i soliti Giuseppe e Francesco. La Cassazione definì “ingiusta” la sua detenzione, ma il processo è andato avanti: e sul capo del politico messinese pende ancora una richiesta di condanna a 5 anni di carcere. 

Il caffè del galeotto del Masaniello di provincia – Nel frattempo si è ricandidato: a questo giro ha scelto l’Udc e Nello Musumeci. Ha preso 5mila voti ed è stato rieletto nonostante i problemi giudiziari, che in campagna elettorale lo avevano fatto finire di diritto tra i candidati impresentabili. “Ho avuto 15 procedimenti, 14 si sono conclusi con l’archiviazione”, sosteneva lui, promettendo querele e chiedendo un immotivato confronto pubblico col direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio. Lo stesso stile con cui ha commentato l’ultimo arresto. Ristretto ai domiciliari, ha accesso il computer senza neanche togliersi il pigiama: “Vi offro il caffè del galeotto“, ha scritto su facebook. Poi, non contento, ha pubblicato un video per spiegare di avere saputo in anteprima dell’arresto. “Me l’ha detto un parente di magistrati e di massoni“, è la sua versione. “Dedico questa ulteriore battaglia ai perseguitati dell’ingiustizia”, è invece il modo in cui dipinge la sua situazione giudiziaria. Sì perché questo piccolo ras delle preferenze di provincia crede davvero di essere un Masaniello del duemila. O almeno è quello che vuole fare credere ai suoi elettori.
Dai conigli all’Ars – Sul suo personalissimo sito racconta gli albori della sua carriera. “Da adolescente ho allevato conigli e raccoglievo origano, noci e castagne che poi vendevo alle putie (letterale, cioè negozi ndr) di Fiumedinisi sotto la severa vigilanza della mia mamma; quando frequentavo la scuola media durante le estati facevo il muratore con mio padre; mentre frequentavo il liceo passavo le mie estati a lavorare nei bar ed in inverno frequentavo uno studio legale messinese che si occupava di diritto previdenziale e sindacale”, scrive nella sua biografia. Chissà dove trovava il tempo per studiare, verrebbe da chiedersi. Di sicuro è col diritto previdenziale amministrato nei Caf della Fenapo che De Luca comincia a coltivare quel reticolo di rapporti sociali, poi trasformati in voti ad ogni tornata elettorale. Esordisce adolescente come attacchino della Dc, poi comincia la scalata: consigliere comunale, presidente del consiglio, sindaco della sua piccola città. Incarico che lascia dopo l’arresto nel 2011. E che non può più ottenere l’anno dopo, perché nel frattempo si è fatto eleggere sindaco nel vicino comune di Santa Teresa Riva.
Sindaco e opposizione sono roba sua – È a quel punto che il Masaniello peloritano si trasforma in Archimede Pitagorico della politica locale: candida due aspiranti primi cittadini, entrambi sostenuti dalle sue liste. Poi manda una lettera agli elettori, chiedendo di votare uno dei due candidati sindaco, ma optando per i consiglieri comunali del suo avversario: in pratica istituzionalizza il voto disgiunto. “È un chiaro e forte gesto di ribellione“, dice, ma non si capisce verso che cosa si dovrebbero ribellare i cittadini visto che nei precedenti due mandati il sindaco era sempre lui. Gli elettori, però, non ci fanno caso e votano in massa come dice De Luca: che quindi è riuscito nell’impresa di controllare il sindaco, la maggioranza, ma anche l’opposizione. “Con questi metodi da Repubblica delle banane si vuole fare del comune, invece che una casa di vetro, il cortile della propria abitazione”, si lamentava all’epoca il deputato Pd Filippo Panarello. Opinione minoritaria, evidentemenete, visto che nella zona De Luca lo hanno sempre votato in massa: il vassallo delle preferenze, inscalfibile neanche dopo indagini e arresti.
“Demoliamo la Regione” – All’Ars entra per la prima volta con il Movimento per l’Autonomia di Raffaele Lombardo. Poi passa con Grande Sud, la formazione autonomista di Gianfranco Micciché. Quindi opta per la Democrazia cristiana di Gianfranco Rotondi, fino al 2011, anno in cui cambia per sei volte gruppo parlamentare: in quello del Pdl arriva a “sostare” per tre ore e mezza, giusto il tempo di far saltare gli equilibri in una delicata conferenza dei capigruppo. Qualche anno prima, invece, riesce a riunire 12 deputati di destra, sinistra e centro e crea un bellicoso gruppo bipartisan che chiede di indire un referendum:  la carica di parlamentare con quella di sindaco- sostengono – devono essere incompatibili. E peccato che in quel momento De Luca fosse nello stesso momento sindaco di Fiumedinisi e deputato regionale. ”Sono un battitore libero”, ripete spesso di se stesso. Durante una delle lussuosse kermesse del suo movimento, invece, si è presentato sotto il simbolo di un enorme piccone e lo slogan: ”Demoliamo la Regione siciliana“. Non si capiva se fosse una promessa o una minaccia. In ogni caso, per il momento, dovrà posticiparla.