martedì 12 marzo 2019

Chi tocca i Renzis muore. - Marco Travaglio


L’altro giorno il Csm ha assolto il pm Henry John Woodcock dalle accuse più gravi e gli ha inflitto la sanzione disciplinare della censura (bloccandogli la carriera) per la più lieve. 
Ha stabilito che la sua condotta – e quella della collega Celeste Carrano – nell’inchiesta Consip fu ineccepibile: sia quando decise di non inquisire il renziano Vannoni e dunque di interrogarlo come testimone (con l’obbligo di dire la verità), anziché come indagato (con la facoltà di mentire), perché queste sono scelte insindacabili del pm; sia quando lo interrogò senz’alcun tipo di pressione (Vannoni sosteneva che invece le sue accuse a Lotti gli fossero state estorte con minacce e il Pg della Cassazione aveva preso per buona la sua parola, peraltro smentita da tutti i testimoni e rivelatasi una balla). Dunque tutte le accuse di complotto lanciate per due anni da Renzi e dai suoi sottopancia finiscono definitivamente nel cesso. La censura riguarda un aspetto che con le indagini Consip non c’entra. Quando i pm di Roma indagano il cap. Gianpaolo Scafarto del Noe di vari falsi dolosi per alcuni errori nel rapporto investigativo su Consip, Woodcock riceve una telefonata da Liana Milella di Repubblica.
I due si conoscono da tempo e, come spesso accade fra cronisti giudiziari e magistrati (o avvocati), parlano off record, con l’intesa che nulla sarà pubblicato. Woodcock, che non ha mai rilasciato interviste, non le svela alcun segreto d’indagine: si limita a dirle che a suo avviso il capitano ha commesso sbagli in buona fede, e non per incastrare i Renzis. È la stessa conclusione a cui giungerà la Cassazione, che farà a pezzi le accuse di falso a Scafarto. 

La Milella conferma di aver tradito il patto di sangue stretto con Woodcock per l’ansia dello scoop e le pressioni del suo direttore Calabresi: inserì alcune sue frasi con la formula usata dai retroscenisti (“dice Woodcock ai suoi colleghi”). Quel mattino Woodcock va da Fragliasso per dirgli che la Milella non ha parlato con i “colleghi”, ma con lui in un colloquio che doveva restare riservato. Il che dovrebbe bastare a dimostrare la sua buona fede. 
Fragliasso, invece, denuncia Woodcock, in base alle sue stesse parole, al Pg della Cassazione. Il quale avvia l’azione disciplinare non solo sulle accuse di Vannoni, ma pure su 4 rilievi relativi alla non-intervista: il pm non doveva interferire con l’indagine romana; non doveva parlare con la giornalista; doveva avvertire subito il suo capo; e non doveva ingannarlo consigliandogli di parlare con la Milella per ribadire la regolarità dell’indagine, quasi a volersi coprire le spalle.Ora il Csm ha stabilito che Woodcock non interferì nell’indagine romana e poteva parlare con la giornalista senz’avvertire il capo (sennò sarebbero guai per quasi tutti i magistrati). Ma l’ha censurato per il presunto inganno. La sua difesa ricorrerà in Cassazione per fargli cancellare pure quella macchiolina (molto pesante ai fini della carriera). Noi siamo ammirati da cotanto zelo contro un pm che da vent’anni indaga su destra, centro e sinistra, senza la protezione di alcuna corrente, sempre assolto in 17 procedimenti disciplinari nati quando a Potenza scoperchiava i malaffari del centrosinistra, quando a Napoli incastrava B. per la compravendita di senatori e apriva il fascicolo che avrebbe portato a Milano e Genova alle condanne dei vertici della Lega per i 49 milioni rubati. 

Poi, per sua sventura, s’imbatté nel nome Renzi: indagando sull’imprenditore Romeo, scoprì che parlava di babbo Tiziano col faccendiere toscano Carlo Russo; poi il renziano Luigi Marroni gli confessò di aver strappato le microspie dagli uffici Consip su soffiata di Lotti, Vannoni, Del Sette, Saltalamacchia. E, al 18° procedimento disciplinare, s’è beccato la censura per le conseguenze di un’intervista mai rilasciata.
Ora attendiamo con ansia notizie dal Pg della Cassazione su un altro pm incappato in guai simili, anzi per aver detto a una giornalista cose ben più pesanti. È il romano Mario Palazzi, che ereditò con Ielo l’inchiesta Consip, poi indagò e infine archiviò Woodcock e Federica Sciarelli, accusati di una criminale triangolazione di fughe di notizie col nostro Marco Lillo. Il 22 febbraio 2018 Annalisa Chirico pubblica sul Foglio queste frasi di Palazzi (mai smentite) sull’inchiesta appena archiviata su Woodcock-Sciarelli: “Non vedo l’ora di tornare a occuparmi degli Spada a Ostia. So’ più semplici perché in quel caso sai chiaramente chi sono i buoni e chi i cattivi. Qui invece è un verminaio senza fine. Abbiamo acquisito una valanga di materiale probatorio, stiamo lavorando con il pettine fino… Abbiamo riscontrato la triangolazione delle utenze telefoniche tra Woodcock, Federica Sciarelli e Marco Lillo, abbiamo battuto questa pista ma senza individuare elementi sufficienti”. Diversamente da Woodcock, il pm romano parla di una sua inchiesta violando il doveroso riserbo. Poi dice cose non vere: non esiste alcuna triangolazione Woodcock-Sciarelli-Lillo, ma solo una telefonata di Lillo alla Sciarelli per sapere se Woodcock fosse a Roma, senza che poi la Sciarelli chiamasse Woodcock e richiamasse Lillo (il famoso triangolo con due lati). 
Infine parla di “verminaio senza fine”, roba da rimpiangere quei bei criminali del clan mafioso Spada, a proposito di due innocenti, Woodcock e Sciarelli, archiviati con tante scuse perché non hanno fatto nulla (ma per lui è solo perché la “valanga di materiale probatorio” non è “sufficiente”). Ora, siccome l’azione disciplinare è obbligatoria, siamo certi che il Pg della Cassazione l’abbia avviata o stia per avviarla anche per le dichiarazioni di Palazzi alla Chirico. Sennò Woodcock e la Milella potrebbero credersi più importanti e montarsi la testa.

https://infosannio.wordpress.com/2019/03/09/chi-tocca-i-renzis-muore/

Leggi anche l'art. de "ilfattoquotidiano" risalente al febbraio del 2014:

lunedì 11 marzo 2019

Scoperta una stella misteriosa che riaccende l'ipotesi degli alieni.

Scoperta una stella misteriosa che riaccende l'ipotesi degli alieni

Cambi di luminosità fanno sognare, e c’è anche chi ipotizza la presenza di strutture aliene. Si chiama “Epic 204376071” si trova a 440 anni luce dalla Terra e ha una storia molto simile a quella della “stella di Tabby”.


Scoperta una sorella ancora più anomala della famosa Tabby Star, che aveva acceso la fantasia perché le oscillazioni della sua luminosità avevano suggerito la presenza di strutture aliene nella sua orbita, ma la nuova stella, Epic 204376071, mostra oscillazioni molto più marcate che fanno rispuntare l'ipotesi degli alieni. La scoperta, pubblicata sulla rivista della Royal Astronomical Society e, frutto di una ricerca guidata dal Massachusetts Institute of Technology (Mit), promette di far discutere gli astronomi. "La stella in realtà è molto diversa da quella di Tabby, si tratta di una stella di classe M, quindi molto più piccola e fredda", spiega Isabella Pagano, dell'Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) di Catania. "Mentre per la Tabby Star la percentuale di stella occultata era del 22%, in questo caso è addirittura dell'80%, perciò si tratta di un fenomeno molto più importante".

Gli scienziati brancolano nel buio.

"Purtroppo, nonostante il corpo celeste sia stato osservato per 160 giorni, l'evento è stato visto una sola volta", continua Pagano. "Quindi se il colpevole è un pianeta o un'altra stella che ruota intorno alla compagna, si tratta di un oggetto estremamente piccolo che non riusciamo a vedere e che non avrebbe potuto causare una variazione di luminosità così grande. Per questo motivo - aggiunge - gli autori dello studio ipotizzano che si possa trattare di dischi di polveri compatti associati a un ipotetico pianeta o una stella, ma anche in questo caso il fenomeno avrebbe dovuto ripetersi in meno di 80 giorni".

Ipotesi sulle strutture aliene resta in piedi.

"Tuttavia, dal momento che si tratta di una 'baby-stella' molto giovane, di circa 10 milioni di anni, potrebbe anche trattarsi di una caduta di materiale verso la superficie. Un evento  - spiega ancora la ricercatrice - che si verifica durante la formazione. In ogni caso, finché non si troverà una spiegazione tutte le ipotesi restano in campo, compresa quella di strutture aliene: la tendenza dell'uomo a fantasticare è sempre una cosa positiva".

La Banda del Buco: ditte fallite, i soliti noti di Tangentopoli. - Gianni Barbacetto e Andrea Giambartolomei

Tav

I lavori per 1,4 miliardi. Da Cmc a Condotte a Gavio, fino ai piccoli appalti coinvolti dalle inchieste per corruzione e mafia: a chi sono finiti i soldi.

Lavorare per il Tav non porta benissimo, si racconta in Valle di Susa. Tutte e tre le aziende locali impegnate nella Torino-Lione sono fallite: la Geomont di Bussoleno, la Martina e la Lazzaro di Susa. Anche le imprese più grandi che hanno partecipato ai primi appalti non sono messe benissimo: la Cmc, Cooperativa muratori e cementisti di Ravenna, ha chiesto il concordato preventivo. Condotte è in amministrazione straordinaria. Sta meglio il gruppo Gavio, che controlla il 36,5 per cento di Sitaf (al 51 per cento di Anas) che ha lavorato per lo svincolo di Chiomonte (88 milioni di euro) e altre commesse (per un totale di 93 milioni). Sitaf – ironia della sorte – è la diretta concorrente del tunnel ferroviario, visto che gestisce il traforo autostradale del Fréjus.
L’impresa Pizzarotti di Parma (già tra i protagonisti di Tangentopoli, come Gavio, Cmc e Condotte) era nei consorzi che hanno realizzato le discenderie di Saint-Martin-la-Porte e di Villarodin-Bourget/Modane, in territorio francese. In quest’ultima, Pizzarotti ha sostituito Condotte, che aveva fatto una parte dei lavori. Cmc, con altre imprese, ha scavato invece le gallerie geognostiche di Saint-Martin-la-Porte, in alleanza con Cogeis, che ha poi lavorato anche alla discenderia di La Praz. Sul versante italiano, Cmc e Cogeis, insieme a Geotecna, hanno realizzato la galleria di La Maddalena, a Chiomonte, un lavoro da 126 milioni di euro. In totale, finora sono stati fatti lavori per 1,4 miliardi: 211 milioni per studi e indagini, il resto per le tre discenderie e la galleria geognostica sul lato francese (totale: 16 chilometri). Sul lato italiano, la galleria della Maddalena (7 chilometri). Dei soldi usciti finora, ben 789 milioni sono stati dati in concessione a Sncf, la società delle ferrovie francesi, per la realizzazione del tratto ferroviario all’aperto in Francia, che però è lungo meno di 4 chilometri. Infatti Sncf di quei 789 milioni ne ha spesi finora solo 2. A impegnare i soldi è stata Telt, la società dei governi italiano e francese.
Lunedì, se Telt darà il via ai bandi, ci sarà la vera partenza del Tav: saranno lanciate le due gare per l’intero tratto francese del tunnel di base, 45 dei 57,5 chilometri totali, del valore di 2,3 miliardi. Una bella fetta dei 9,6 miliardi di euro che è il costo totale del supertunnel.
I lavori della Torino-Lione eseguiti finora sono solo una piccolissima parte di quelli necessari per completare l’opera. Eppure sono riusciti ad attirare più volte l’attenzione della Procura di Torino. Indagini per fatti di corruzione e qualche infiltrazione mafiosa. Nel 2011 sono stati condannati per turbativa d’asta, in primo grado, Paolo Comastri, l’ex direttore generale della Lyon-Turin Ferroviaire (Ltf, la società poi sostituita dalla Telt), e l’allora responsabile della direzione costruzioni, Walter Benedetto. Insieme a loro era stata coinvolta anche Maria Rosaria Campitelli, di Mm Metropolitana milanese. La turbativa d’asta riguardava il tunnel che doveva essere scavato a Venaus (poi non realizzato). A scoprire gli interessi illeciti intorno allo scavo del tunnel geognostico italiano è poi arrivata l’inchiesta “San Michele” del Ros carabinieri e della Direzione distrettuale antimafia di Torino. Tra i tanti fatti emersi, l’estorsione ai danni dei proprietari di una cava a Sant’Antonino di Susa commessa da Gregorio Sisca, condannato in via definitiva per mafia, per conto di Giovanni Toro, imprenditore condannato per concorso esterno mafioso, che aveva preso in affitto la cava e voleva mantenerne il controllo: “Noi dobbiamo stare lì perché è lì dentro che nei prossimi dieci anni arrivano 200 milioni di euro di lavoro”, diceva Toro, intercettato. “La torta non me la mangio da solo. Me la divido con te e ricordati queste parole, che ce la mangiamo io e te la torta dell’alta velocità”.
Toro, preoccupato per le proteste dei No Tav, nella primavera 2011 diceva al telefono: “Se arrivano i No Tav, con l’escavatore ci giriamo e ne becchiamo qualcuno… E col rullo gli vado add… cioè salgo io sul rullo e accelero. Se non ti togli ti schiaccio”. Toro era in rapporti anche con un imprenditore di Susa, Ferdinando Lazzaro, a cui diceva, sui lavori nel cantiere di Chiomonte: “Prendiamo tutto noi”.
Lazzaro, titolare della Italcoge e della Italcostruzioni, ha poi patteggiato una pena per bancarotta fraudolenta ed è stato condannato (in primo grado) a 1 anno e mezzo per turbativa d’asta: fallita la sua Italcoge, per continuare a svolgere i lavori preliminari del cantiere di Chiomonte aveva fatto un accordo col curatore fallimentare e aveva presentato un’offerta per aggiudicarsi l’affitto di un ramo della sua azienda. Dall’inchiesta del Ros erano emersi anche i suoi contatti con la politica e con i Sì Tav. In un’informativa del 2012 si legge: “Sono emerse aderenze di Lazzaro con personaggi politici e della pubblica amministrazione”, a cui chiedeva aiuto per licenze e autorizzazioni. Tra questi, Antonio Ferrentino, consigliere regionale del Pd, ex sindaco No Tav passato al fronte dei favorevoli.
Il 17 settembre 2012, Lazzaro contatta addirittura Paolo Foietta, oggi commissario straordinario del governo per l’asse ferroviario Torino-Lione e allora dirigente dell’area territorio e trasporti della Provincia di Torino. Secondo i carabinieri, Foietta avrebbe garantito “il suo interessamento per addivenire a una soluzione della vicenda” che riguardava la ditta di Lazzaro: “Allora mi faccia una mail”, diceva Foietta a Lazzaro, “se mi mette anche il nome specifico del funzionario con cui avete avuto rapporti mi è più utile, così vedo di evitare giri”. Lazzaro ha replicato di aver sempre operato lecitamente: “Le gare del Tav le ho vinte regolarmente e senza alcun aiuto, tantomeno quello di Esposito o Rettighieri”. Si riferiva a Stefano Esposito, ex senatore del Pd, e Marco Rettighieri, ex direttore generale di Ltf.
Ci sono state anche quattro interdittive antimafia. Tra queste, una per i gestori del bar Gritty di Bardonecchia, che forniva la colazione agli operai del cantiere Tav: un bar con una storia, perché apparteneva alla sorella e ai nipoti di Rocco Lo Presti, il boss della ’ndrangheta le cui attività portarono al commissariamento del Comune nel 1995, prima amministrazione del nord sciolta per infiltrazioni mafiose. Lo Presti “utilizzava il bar Gritty per incontrare i propri interlocutori”. Interdittive anche alla Romea di Bologna, fornitore di carburante, in cui aveva lavorato un nipote di Totò Riina. E alla Torino Trasporti, il cui titolare è parente di un personaggio condannato nel processo antimafia “Minotauro”.
https://ilfastidioso.myblog.it/2019/03/09/la-banda-del-buco-ditte-fallite-i-soliti-noti-di-tangentopoli-fino-alle-inchieste-per-corruzione-e-mafia-ecco-a-voi-la-tav/

I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari. - Maria Elena Vincenzi

I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari

Case e ville comprate per poco e rivendute a prezzi da capogiro. Così un gruppo di toghe in Sardegna lucrava sulle gare e sulle speculazioni edilizie.


I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari 
Magistrati proprietari di ville “vista mare” da milioni di euro o che comprano immobili da capogiro ai prezzi ribassati dell’asta e poi li rivendono al valore di mercato, intascandosi la differenza. In barba alla legge che prevede che le toghe non possano partecipare alle aste giudiziarie, per ovvi motivi di conflitti di interessi.

Invece a Tempio Pausania, in Sardegna, c’erano giudici che facevano speculazioni edilizie facendo vincere le gare ad amici i quali poi li nominavano come aggiudicatari. E a quel punto, i magistrati rivendevano quegli immobili al triplo del prezzo.

Un giro di affari smascherato da altri magistrati, quelli di Roma, in particolare il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pubblico ministero Stefano Fava, che hanno iniziato a indagare nel 2016 su una villa affacciata sul mare di Baia Sardinia.

L’immobile, appartenuto a un noto imprenditore della zona finito male, venne messo all’asta e aggiudicato, complice il giudice fallimentare Alessandro Di Giacomo, a un avvocato «per persona da nominare». Le persone che poi sono state indicate erano Chiara Mazzaroppi, figlia dell’ex presidente del tribunale di Tempio Pausania, Francesco, e il di lei compagno, Andrea Schirra, anche loro magistrati in servizio (presso il tribunale di Cagliari). La villa, grazie alle «gravi falsità» contenute nella perizia, per usare le parole del gip di Roma Giulia Proto, è stata pagata 440 mila euro. Un ribasso ottenuto con «vizi macroscopici nella procedura di vendita»: tra l’altro si certificava la presenza in casa del comodatario che in realtà era morto qualche mese prima. A nulla erano valse segnalazioni e proteste dei creditori: il giudice ha deciso di ignorarle. Per garantire alla figlia del suo ex capo, o forse direttamente a lui, un affare immobiliare non da poco: l’intenzione era di ristrutturare il complesso e di rivenderlo a 2 milioni di euro. Ovvero con una plusvalenza di 1,6 milioni.

Insomma, un affare niente male. Per il quale, poco prima di Natale, il giudice Alessandro Di Giacomo è stato punito con l’interdizione a un anno dalla professione. I Mazzaroppi, padre e figlia, e Schirra sono indagati.

L’indagine ha svelato anche una serie di affari simili per i quali, però, non è possibile procedere: i reati sono già prescritti. Dalle carte depositate dalla procura di Roma, infatti, si scopre che gli affari immobiliari di Francesco Mazzaroppi hanno origini ben più lontane. Correva l’anno 1999 quando il giudice Di Giacomo, ancora lui, assegnò a un’avvocatessa, Tomasina Amadori (moglie del suo collega Giuliano Frau), il complesso alberghiero “Il Pellicano” di Olbia, una struttura da 34 camere. Amadori, a quel punto, indicò come aggiudicataria la Hotel della Spiaggia Srl, società riconducibile al commercialista Antonio Lambiase. Il prezzo dell’operazione era poco più di un miliardo di lire. Un anno dopo, “Il Pellicano” venne venduto da Lambiase, vicino a Mazzaroppi padre, a 2,3 miliardi: più del doppio del prezzo di acquisto. Scrive il pm di Roma Stefano Fava: «Risultano agli atti gli stretti rapporti economici intercorrenti tra Antonio Lambiase e Francesco Mazzaroppi. Lambiase ha infatti acquistato un terreno in località Pittolongu di Olbia cedendone poi metà a Rita Del Duca, moglie di Mazzaroppi.

Su tale terreno Lambiase e Mazzaroppi hanno edificato due ville», nelle quali vivono tuttora. Chiosa il pm: «Le evidenziate analogie, oggettive e soggettive, con la vicenda relativa all’aggiudicazione dell’immobile di Baia Sardinia, nonché la perfetta sovrapponibilità delle condotte dimostrano come anche la vendita a prezzo vile dell’albergo “Il Pellicano” sia conseguente a condotte illecite, non più perseguibili penalmente perché prescritte».

A corredo di tutto ciò, la procura di Roma ha raccolto anche una serie di testimonianze tra le quali quella dell’allora presidente della Corte d’Appello di Cagliari, Grazia Corradini, che non usa mezzi termini: «In relazione all’acquisto del terreno su cui Francesco Mazzaroppi aveva edificato la sua villa c’erano state in passato delle segnalazioni relative a rapporti poco limpidi con i locali commercialisti e in particolare con Lambiase, consulente del Consorzio Costa Smeralda, insieme al quale avrebbe acquistato più di dieci anni fa il terreno su cui era stata realizzata la villa».

La Corradini racconta poi di come a queste segnalazioni fossero seguite due indagini, una penale e una predisciplinare senza alcun esito.

Poi Corradini parla anche della villa a Baia Sardinia: «La vicenda indubbiamente appare poco limpida se si considera il prezzo di vendita di una villa assai prestigiosa che si affaccia su Baia Sardinia, il cui prezzo di mercato si può immaginare pari ad almeno alcuni milioni di euro». Una questione su cui «ha relazionato il presidente del Tribunale di Tempio, la cui relazione allego unitamente ai documenti acquisiti che sembrerebbero confermare una “regolarità formale” nelle procedure di vendita, come ci si poteva attendere visto che eventuali interferenze è difficile che risultino dagli atti della procedura».

Il presidente del tribunale di Tempio chiamato in causa era Gemma Cucca, che ora è presidente della Corte d’Appello di Cagliari, dove è succeduta proprio alla Corradini. Anche lei è indagata dalla procura di Roma.

Ce ne sarebbe abbastanza, ma il torbido al tribunale di Tempio Pausania continua con le rivelazioni di segreto d’ufficio, ingrediente indispensabile in un sistema che si reggeva su favori e amicizie. Sempre nel corso delle indagini sulla villa di Baia Sardinia, infatti, gli inquirenti hanno sentito due indagati parlare tra di loro del fatto che il gip Elisabetta Carta, che aveva firmato il 1 giugno 2016 un decreto d’urgenza per intercettarli, li avesse prima avvisati. Scrive il giudice di Roma: «La vicenda è particolarmente grave: il gip che ha autorizzato una intercettazione informa gli indagati che sono sotto intercettazione dicendo loro di “stare attenti”, il tutto mentre le intercettazioni sono ancora in corso».

Elisabetta Carta si è difesa negando le accuse a suo carico e ammettendo solo di avere avuto con la coppia buoni rapporti lavorativi. Per lei è già stata disposta l’interdizione per un anno.

Non è finita: di quelle intercettazioni, chissà come, venne informato anche Francesco Mazzaroppi, all’epoca presidente della Corte d’Appello di Cagliari e - come detto - padre dell’acquirente Chiara Mazzaroppi.
Tutto questo sembrava normale, nel tribunale di Tempio Pausania, dove i magistrati erano preoccupati soltanto di fare affari immobiliari.

domenica 10 marzo 2019

PdB, il Partito del Buco. - Anna Lombroso



Nell’ipotesi non remota che venga lanciato un concorso di idee per dare un nuovo nome al principale partito di opposizione che segni la ri-partenza, il ri-nascimento, il ri-sorgimento, amici intelligenti ed arguti vorrebbero proporre PdB, Partito del Buco. Non BdB, Banda del Buco, come qualche malizioso sarebbe portato a pensare, perché ha ben altra statura istituzionale la priorità data agli scavi dell’Alta Velocità, promossa da volano occupazionale, da necessario adempimento degli obblighi comunitari, da inderogabile sfoggio della persistenza nel consesso dei grandi e nel teatro della competitività globale, a obbligo ideale e morale della Nazione.
Lo ha dimostrato la sommessa ma tenace campagna elettorale del primario, le sue prime uscite pubbliche, la mobilitazione caparbia dei sopravvissuti impegnati a ritrovare un’unità di intenti intorno all’opera. E pare di vederlo questo ceto dirigente che non ha mai conosciuto lavoro e fatica affaccendarsi sia pure virtualmente intorno  a macchinari e attrezzi, ruspe, picconi, bulldozer proprio come altri prima di loro che addirittura si facevano immortalare nei cinegiornali dell’Istituto Luce. Sostituito egregiamente  dalla stampa peraltro, schierata nel dipingere le resistenze dei 5Stelle come le dispute in campo delle squadre di calcetto  celibi contro ammogliati  del governo, un totem propagandistico, cito il Corriere, davanti al quale l’esercizio della razionalità, declinata come buon senso o come semplice logica, non è previsto, schernendo l’analisi costi-benefici parziale  del professor Marco Ponti, un feticcio, scrivono,  smontato nell’ultimo mese dall’intero mondo accademico italiano (stessa fonte),    ridicolizzandone l’attendibilità  per via dello scoop dello spassionato Mentana  che estrae dal cassetto della Commissione Europea una delle innumerevoli e superpagate relazioni cui hanno collaborato, così sostiene il nuovo adepto del giornalismo investigativo, anche alcuni esperti in libro paga della società di consulenza della quale è presidente quello che  prima era un autorevole scienziato diventato d’improvviso un burattino nelle mani di un ministro spregiudicato.
Si, Banda del Buco ci starebbe bene per gli attori di questa allegoria mariuola dell’era post-tangentopoli, emblematica quasi come il Mose e il suo Consorzio di gestione, della privatizzazione della committenza pubblica, attraverso l’affidamento in concessione della progettazione, costruzione e gestione di un intervento ad una società di diritto privato (Spa), ma con capitale tutto pubblico (TAV Spa appunto, ma anche Stretto di Messina Spa, e le migliaia di Spa di questo tipo), in modo che il contraente principale possa demandare tutte le attività  sottraendole alle regole della gestione degli appalti pubblici, anche  grazie alla concretizzazione di istituti contrattuali creativi (il project-financing, il global-service, il contraente generale, il contratto di disponibilità, il leasing immobiliare), pensati e realizzati per ostacolare la rintracciabilità delle operazione nella filiera della sub contrattazione e degli incarichi, ma anche per rendere inapplicabili le misure di contrasto della mafia, della corruzione o di tutela del lavoro, laddove la competizione,  anche nella piccola e media impresa, è basata sullo sfruttamento del lavoro nero, grigio, precario, atipico.
C’è ben poco di audace nel colpo che vogliono fare a tutti i costi i Soliti Noti (Consigli di Amministrazione delle Spa, nominati dai partiti, amministratori, tecnici e imprenditori, insieme controllori e controllati intercambiabili) per scassinare la nostra cassaforte, mettendoci paura con il ricatto e la minaccia di sanzioni e salassi, come se l’impianto messo in piedi,  e nel quale le tangenti sono un di più, un simbolo di affezione e fidelizzazione non necessario, non fosse stato creato per permettere la moltiplicazione e la reiterazione di reati patrimoniali, grazie alla creazione di condizioni che offrono opportunità criminali a quei soggetti che, oltre a disporre di denaro a costo zero, hanno l’esigenza di riciclare capitali di provenienza illecita, o che possono di volta in volta ricontrattare i loro debiti, scaricando gli oneri dell’oggi su quelli di domani.
Gratta gratta, se nel sottofondo di certe ostensioni di ideali e di certe professioni di fede si sente un gran tintinnar di monete, figuriamoci che concerto con tanto di trombe, tamburi e grancassa accompagna l’interpretazione odierna del mito del progresso, incarnato da mostri giuridici pronubi di interessi criminali, copia grottesca del dinamismo futurista, delle magnifiche sorti della velocità, delle promesse visionarie della modernità, versione accelerata e  suicida dello sviluppo illimitato e dissipatore.
In tanti anni di governo il fronte progressista non ha mai messo a punto una politica dei trasporti a favore del riequilibrio modale delle persone e delle merci, al contrario, mentre proseguiva con terze corsie e nuove tratte, sovvenzionate con risorse pubbliche, l’incremento della capacità autostradale, gli investimenti sulla ferrovia, concentrati esclusivamente sull’alta velocità per i passeggeri, costringevano  le merci sulle linee storiche, in una difficile convivenza con i servizi per i pendolari e con i problemi ambientali degli attraversamenti urbani. In tanti anni di governo il fronte progressista ha trattato la pressione ambientale delle azioni e delle opere dell’uomo come una molesta ubbia che ostacolava profitti della libera iniziativa. In tanti anni di governo il fronte progressista ha guardato alla corruzione, e alla corruzione delle leggi, come ad un inevitabile e fisiologico effetto del “fare”, il cui contrasto presentava forti controindicazioni, quei lacci  e laccioli che era opportuno sciogliere così come era stato preferibile sciogliere la rete dei controlli e della vigilanza.  In tanti anni di governo il fronte progressista ha messo mano ai diritti del lavoro per ridurli a uno solo, quello di faticare, alle conquiste e ai valori ottenuti per dare loro il prezzo del disonore, quello di goderne a pagamento, coi fondi, l’assistenza e la previdenza privata, alle competenze, al talento e all’esperienza, come merci poco redditizie in un mercato che richiede un esercito mobile di servi da collocare dove il padrone chiama.
Buchi nei monti e buchi nei conti, ci fanno sperare che ci cadano dentro e non vederli più.

Puglia come le Maldive: scoperta la prima (meravigliosa) barriera corallina in Italia.

Puglia come le Maldive: scoperta la prima (meravigliosa) barriera corallina in Italia, a Monopoli
Una scoperta inaspettata, eccezionale: nel mare Adriatico, al largo di Monopoli, in provincia di Bari, c’è una piccola e meravigliosa barriera corallina. Una vera e propria distesa di coralli finora rimasta celata all'uomo. La notizia è stata pubblicata sulla rivista scientifica Scientific Reports. A scoprire la barriera corallina in Puglia sono stati i ricercatori del dipartimento di Biologia dell’Università di Bari, guidati dal direttore Giuseppe Corriero.
Barriera corallina scoperta a Monopoli (Bari), in Puglia.
E' lunga almeno 2,5 chilometri - anche se si pensa che possa avere un’estensione maggiore, da Bari a Otranto, con alcuni tratti di interruzione - e si trova a una profondità compresa tra i 30 e i 55 metri sotto il livello del mare, dunque maggiore rispetto a quelle delle barriere coralline caraibiche o delle Maldive. La barriera, simile a quelle che si trovano in Australia, alle Maldive o nel Mar Rosso, sarebbe il primo esempio di questo genere nel mar Mediterraneo.
Serviranno ulteriori esplorazioni per definire i confini di questa 'muraglia' di spugne e coralli che, secondo alcune ipotesi, potrebbe arrivare fino al Salento. Sulla base delle ultime osservazioni e della recente mappatura del fondo, i ricercatori hanno stimato che la nuova barriera scoperta abbia una lunghezza notevole, seppure non in modo uniforme, pari ad almeno 135 km: in direzione del capoluogo pugliese, da un lato, e fino a Otranto, dall'altro.
Puglia come le Maldive: scoperta la prima barriera corallina in Italia.
Se il modello sembra identico a quello di marca equatoriale, a rendere unica la barriera corallina pugliese sarebbero almeno due peculiarità. La prima: la profondità di circa 50 metri, stando a quanto riferisce il professor Corriero a La Gazzetta del Mezzogiorno. Quindi l'habitat e i suoi colori: "Nel caso delle barriere delle Maldive o australiane, continua Corriero, i processi di simbiosi tra le madrepore (animali marini che costituiscono i banchi corallini) sono facilitati dalla luce, mentre la nostra barriera vive in penombra e quindi le madrepore costituiscono queste strutture imponenti di carbonato di calcio in assenza di alghe". Ecco, dunque, i colori più "soffusi, dati da spugne policrome con tonalità che vanno dall'arancione al rosso, fino al viola".
barriera corallina pixabay-2
http://www.today.it/attualita/barriera-corallina-puglia.html?fbclid=IwAR2y8vicSqWXCh3TyPtO4kDpHalKOWRWz71cikhqL7jjvY_oUoPwKAgK0Gs

Honduras, dove abortire è illegale. “Ho interrotto la gravidanza perché violentata. Io in cella, l’aggressore libero”. - Monica Pelliccia

Honduras, dove abortire è illegale. “Ho interrotto la gravidanza perché violentata. Io in cella, l’aggressore libero”

Maria e le altre: tre storie su un tema tabù in America Latina da uno dei paesi in cui l'interruzione di gravidanza è proibita in ogni circostanza e punita con fino a dieci anni di carcere. Reportage realizzato in Honduras, con il supporto dell'International Women’s Media Foundation, iniziativa Adelante. (I nomi sono stati cambiati per tutelare la privacy delle intervistate).


Jessica è stata la prima donna del suo Paese ad andare in carcere per delitto di aborto. Vive nel cuore dell’Honduras, dove si incrociano le rotte del narcotraffico che arrivano fino agli Stati Uniti. Durante i quattro mesi che ha passato dietro le sbarre ha condiviso una cella di pochi metri con altre private di libertà. “Dormivamo su delle pedane di legno, fino a tre persone sulla stessa, mentre i ratti entravano dai buchi nelle pareti”, racconta Jessica, “Le altre carcerate mi picchiavano, mi tiravano i capelli, mi chiamavano assassina di bambini e la polizia mi diceva delle cose orribili: ho sofferto delle molestie fisiche e psicologiche”. Jessica è uscita dal carcere perché la pena è stata commutata in una multa pagata racimolando soldi con la famiglia. Al ritorno a casa è stata insultata per strada e nei social media, con fotomontaggi su Facebook e offese dirette ai familiari. “Non sono stata l’unica donna ad abortire, nel mio Paese lo hanno fatto molte ragazze, ma sono stata la prima ad andare in carcere”. Jessica, quando rimase incinta per la terza volta a 27 anni, era già madre single e capofamiglia, come succede in un terzo delle famiglie del paese, secondo la Commissione Nazionale di Diritti Umani dell’Honduras (Conadeh). Il partner, un uomo violento, la lasciò quando scoprì la gravidanza. Non fu facile decidere di abortire. Passarono mesi di incertezze, non aveva risorse economiche per crescere un altro figlio o figlia. Un pomeriggio decise di andare in farmacia a comprare delle pillole abortive che aveva visto su internet. Una vicina la scoprì e la denunciò. Due ore dopo arrivò la polizia a casa: la ammanettarono e la portarono in carcere.
L’Honduras è uno dei paesi dove l’aborto è proibito in ogni circostanza -anche in caso di pericolo per la vita della madre o del feto- secondo la mappa che illustra le leggi in materia, pubblicata dalla ONG Centro di Diritti Riproduttivi (CRR). La stessa situazione si vive anche in altre parti dell’America Centrale come Nicaragua, El Salvador e Repubblica Dominicana. L’articolo 126 del Codice penale dell’Honduras prevede pene da tre a dieci anni. Le donne honduregne, come Jessica, ricorrono a metodi casalinghi e insicuri: dalle pasticche comprate su internet e altri farmaci per combattere l’ulcera gastrica o l’artrite che contengono un principio attivo abortivo fino all’uso di infusi di erbe e oggetti contundenti. È un segreto che corre di bocca in bocca: come abortire, dove comprare le pillole, come utilizzarle per non farsi scoprire dalla polizia o dal personale medico, che fare se ti senti male e devi andare all’ospedale. E dove comprare la pillola del giorno dopo (PAE) che è totalmente proibita, ma si può acquistare illegalmente in alcune farmacie o mercati della città, per una media di 200 lempiras (7 euro). Nel 2016, ci sono stati 14.021 aborti nel paese, secondo dati del Ministero della Salute dell’Honduras.

Dopo la denuncia del personale, la polizia è arrivata in ospedale e si sono portati via Támara con le manette a mani e piedi.
Nascoste in prigione, violentatori in libertà. Nel carcere femminile di Támara, localizzato a circa mezz’ora dalla capitale del paese, Tegucigalpa, l’estate passata c’era solo una detenuta per delitto di aborto, da quattro mesi. Lavorava come collaboratrice domestica, fino a quando non è più riuscita a nascondere la gravidanza ed è stata licenziata. Ha abortito di nascosto e la proprietaria di casa l’ha denunciata alla polizia. Dal cortile del carcere, le altre detenute la chiamano a gran voce. Scandiscono il suo nome durante una decina di minuti, per annunciarle che ha ricevuto delle visite. Nessuno la conosce e lei non risponde ai richiami, nascosta in prigione. È comune che le donne cambino il nome dopo essere entrate in carcere, specialmente quelle che potrebbero soffrire discriminazioni e violenze, come nel caso delle condannate per aborto. Anche se sono poche quelle che vengono arrestare per questo motivo. La Procura Generale dell’Honduras ha ricevuto 33 denunce per delitto di aborto, tra il 2016 ed i primi mesi del 2017, nella maggior parte dei casi, sporte dai vicini o dai medici che le curano in ospedale. “Come Ordine dei Medici dell’Honduras siamo contrari alla legalizzazione dell’aborto in qualunque circostanza”, spiega Suyapa Figueroa, la presidente dell’entità. Quando il personale medico scopre che una donna ha usato il medicinale abortivo deve informare l’ufficio legale dell’ospedale. Come è successo a Maria che è stata arrestata dopo la denuncia di un medico, quando aveva solo 17 anni.

Lei in prigione, l’aggressore che l’ha violentata in libertà.
“Vorrei solo poter dimenticare”, racconta Maria, “Come ogni giorno tornavo dall’università, in autobus. Sulla strada di casa, una persona mi ha seguita, minacciata con una pistola e poi mi ha violentata“. Maria non ha raccontato a nessuno dello stupro, volevano abusare anche della sorella, un anno più piccola di lei, ma non ci sono riusciti. Ha tenuto per sé il segreto senza mostrare a nessuno i lividi sulle gambe. Fino a quando non si è resa conto di essere incinta. “Non volevo un figlio da una persona che mi ha violentata: così ho deciso di abortire. Un’amica mi ha procurato le pillole, spiegandomi come prenderle. Nelle tre ore successive mi sono sentita male e mia mamma mi ha portato all’ospedale”. Dopo la denuncia del personale medico, la polizia è arrivata all’ospedale. “Se la sono portati via, con le manette a mani e piedi e l’hanno rinchiusa nel carcere femminile di Támara”, spiega la madre di Maria, in lacrime. “L’hanno arrestata senza che potesse prendere le medicine. L’aggressore, un presunto narcotrafficante è ancora in libertà ed è riuscito a scappare illegalmente negli Stati Uniti“. Maria è uscita di prigione una settimana dopo, in libertà condizionale. Sono passati quattro anni e sta ancora aspettando la sentenza del processo, che potrebbe farla tornare dietro le sbarre.
Come nel caso di Maria, nei primi sei mesi del 2018 ci sono stati 1358 casi di violenza sessuale sulle donne, secondo ultimo rapporto dell’Osservatorio della Violenza dell’Università Autonoma dell’Honduras. Tra loro, tre donne su quattro avevano tra i 5 e i 19 anni. Si tratta di quasi otto aggressioni al giorno e nel 75 per cento dei casi l’aggressore è una persona conosciuta: un parente, un amico o un ex-partner. “La violenza è un messaggio di possesso scritto sui corpi delle donne”, dichiara Migdonia Ayestas, direttrice dell’Osservatorio della violenza dell’Università Nazionale Autonoma dell’Honduras (UNAH), “Negli ultimi tre anni è diminuita la violenza sulle donne perché è sceso il numero di crimini totali nel paese, però manca ancora tanta formazione necessaria a favorire l’uguaglianza di genere”.

Dopo il taglio cesareo, praticato per togliere il feto morto per una complicazione, Nancy è stata arrestata dalla polizia
“Mi sono resa conto di aspettare un bebè quando lo avevo già perso” Nancy tira fuori il cellulare dalla tasca e mostra la foto che ha scattato alla tomba del figlio. Lo hanno chiamato Jesus Antonio e lo hanno sepolto nel cimitero del paese, prima che la polizia venisse a prenderlo per effettuare l’autopsia. Anche lei è stata denunciata dai medici dell’ospedale di Tegucigalpa, convinti che si fosse provocata un aborto. “Mi sono resa conto di aspettare un bebè quando lo avevo già perso”, racconta la giovane di 21 anni. Appena diplomata all’istituto tecnico, lavorava come assistente di persone diversamente abili per aiutare sua sorella e sua madre con cui vive in una casa in campagna, in una zona senza asfalto e illuminazione pubblica. Nancy, si è resa conto della gravidanza solo al sesto mese perché non le era cresciuta la pancia, in quanto era di tipo extra-uterino, di alto rischio per la madre e per il feto. Fino a quando ha sentito dei forti dolori. Mentre la portavano all’ospedale ha iniziato a stringersi forte l’addome con le braccia, per sopportarli. Così ha perso il bebé, causando il distacco della placenta e rimanendo due giorni tra la vita e la morte. “Quando ero andata dal medico, durante gli esami che mi avevano fatto nei mesi precedenti, non avevano neppure accennato all’ipotesi di una possibile gravidanza”, racconta Nancy. Una settimana dopo averle praticato il taglio cesareo per togliere il feto, Nancy è stata arrestata. Anche lei sta aspettando che si concluda il processo e potrebbe essere condannata fino a sei anni di carcere, secondo la sua avvocatessa.
Prima delle elezioni politiche che si sono tenute a novembre 2017, nel Congresso Nazionale dell’Honduras era in discussione una legge per legalizzare l’aborto in tre casi: pericolo per la madre, malformazioni del feto e violenza sessuale. A differenza del Cile, dove l’anno scorso si approvò la depenalizzazione dell’aborto per le stesse motivazioni, il Congresso dell’Honduras non ha avallato questa modifica del Codice Penale. Le organizzazioni femministe continuano a lottare perché si approvi questo cambio. “Ho conosciuto molte donne e bambine che hanno vissuto violenze, abusi e che sono state criminalizzate. Per adesso, stiamo parlando di una legge che protegga la vita e la salute della donna”, spiega la pastora Ana Ruth García, dell’organizzazione Ecumeniche per il diritto di decidere (EDD). “Dopo aver partecipato a un dibattito televisivo sul tema ho ricevuto 104 minacce di morte via internet. Sono venuti a cercarmi sotto casa, due veicoli senza targa hanno bloccato il passaggio della mia macchina. Ho avuto molta paura ma come ho spiegato alla mia famiglia devo continuare a lottare, per una nuova legge per l’aborto. Nel frattempo continueremo a offrire appoggio legale e psicologico alle donne che vivono queste esperienze dolorose”
Tra cui Nancy e Maria. Entrambe continuano ad aspettare che si concludano i loro processi, le cui udienze sono state rimandate di continuo durante l’ultimo anno. Nel frattempo lavorano con le madri nelle pulperias, come si chiamano i chioschi che vendono generi alimentari in Honduras. A Nancy e Maria piacerebbe trovare un altro lavoro ma non possono, le fedine penali sono sporche e tutti i venerdì devono andare a firmare al Tribunale di Tegucigalpa, perché sono in libertà condizionale. Jessica, dopo aver perso vari lavori, licenziata appena scoprivano che era stata in prigione, adesso fa la commessa in un negozio di vestiti e guadagna 2800 lempiras al mese (100 euro). Il suo desiderio è andare all’università e iniziare a studiare per diventare un’avvocatessa.
L'uomo, quando tradisce la compagna è un simpatico mascalzone; quando uccide viene compatito perché in preda ad una "tempesta emotiva"; quando violenta una donna, dopo essere stato rifiutato, lo fa per la frustrazione subita.
Quando una donna tradisce è una puttana, quando uccide deve essere punita, quando violenta....no, non lo fa.
Ma la colpa iniziale di questo iniquo trattamento tra maschi e femmine dove trae origine? 
DAL VANGELO! 
Il vangelo che pone la donna in una situazione di sottomissione nei confronti dell'uomo in quanto afferma che sia stata creata da una sua costola e perché spinse l'uomo a peccare mangiando la mela proibita...
Diciamocelo, tutto questo "millantato credito" profuso dalla chiesa, religione misogina per eccellenza, è frutto di pura invenzione maschilista. Niente altro!
Le religioni, tutte, vanno abolite o, almeno, revisionate.
bycetta