sabato 29 giugno 2019

Lo schiavismo dei buoni. 11.04.2016



Voluntas enim naturaliter tendit in bonum sicut in suum obiectum: quod autem aliquando in malum tendat, hoc non contigit nisi quia malum sibi sub specie boni proponitur. (Tommaso D’Aquino)
L’immigrazione di massa integra chiaramente un caso di guerra tra poveri. Non solo perché lo è nei fatti, con milioni di persone a contendersi alloggi insufficienti, lavori sottopagati o di bassa manovalanza criminale, periferie anguste e i palliativi di un welfare centellinato dai tagli. Ma anche perché così si vuole che sia – o quantomeno ce la si mette tutta affinché lo diventi.
Nei giorni in cui il Comune di Milano decideva di trasferire 400 euro al mese a chi accogliesse un profugo nella propria abitazione, nella stessa città moriva di stenti Giovanni Ceriani, un disabile di cittadinanza italiana che si manteneva con un assegno di 186 euro al mese e un bonus comunale di 1.000 euro all’anno. Mentre scrivo, a La Spezia l’invalido Roberto Bolleri è in sciopero della fame per rientrare in possesso del suo alloggio popolare occupato abusivamente da una famiglia di marocchini che, fanno sapere, usciranno solo quando il Comune avrà assegnato loro una sistemazione adeguata in deroga alle graduatorie. In Germania l’infermiera Bettina Halbey e la sua vicina di casa stanno per essere sfrattate dal Comune di Nieheim: dovranno lasciare i loro appartamenti ai richiedenti asilo, mentre nel resto del paese si espropriano immobili privati e si evacuano scuole pubbliche, per lo stesso motivo.
Non c’è bisogno di essere leghisti per capire che finirà male, malissimo.
In un sistema di finanza pubblica dove la scarsità di investimenti è postulata come un dogma, è inevitabile che i poveri e gli impoveriti si contendano le briciole e temano l’arrivo di nuove bocche da sfamare. Tanto più se quello stesso sistema predica anche la scarsità dei salari e delle tutele come una virtù e la scarsità di lavoro come una colpa, non lasciando ai deboli altra scelta che un cannibalismo di sopravvivenza in cui l’odio etnico e razziale è solo il pretesto di una guerra per bande.
C’è del dolo o comunque una sterminata irresponsabilità in chi sostiene queste politiche di scarsità e al tempo stesso auspica corridoi umanitari per prelevare gli stranieri alla fonte, chiede la rimozione dei blocchi alle frontiere e sogna di accogliere 300-400 mila persone ogni anno se non 30 milioni in 15 anni. Salvo poi, al delinearsi di una catastrofe umanitaria che colpirebbe tutti – in primis gli immigrati di cui si fanno paladini – sfoderare il ferro vecchio della rivoluzione culturale e rimproverare ai sudditi il vizio della xenofobia lanciando vibranti campagne contro l’odio. Quasi fossero, la xenofobia e l’odio, patologie dalle origini oscure da debellare con la profilassi (nei giovani) e gli antibiotici (nei vecchi) e non un’etologica conseguenza delle politiche da loro stessi create.
C’è del dolo e dell’irresponsabilità in questa filantropia a spese degli altri, ma c’è anche e soprattutto il suo contrario, cioè del razzismo. Che non è il razzismo di cui si lamentano i progressisti: l’islamofobia e il disprezzo di civiltà diverse che, deplorabile e insensato a parere di chi scrive, è già condannato a reti unite e sarà presto oggetto di un’apposita commissione per la schedatura dei reprobi. E neanche l’autorazzismo di cui si parla quando i bisogni degli stranieri sono anteposti a quelli degli autoctoni. Il razzismo dei buoni colpisce invece proprio loro: gli immigrati, che protegge a parole e trasforma nei fatti in strumenti di un piccolo e penoso esercizio di autocertificazione etica e di un più grande disegno socio-economico di sfruttamento degli ultimi.
L’idea che abbiamo bisogno (?) dello sperma di milioni di disperati per ripopolare un continente in stasi demografica, o delle loro braccia per svolgere i lavori che gli italiani non vogliono più fare (cioè quelli sottopagati) non differisce in principio dalle deportazioni degli schiavi africani negli Stati Uniti del sud o dei forzati nelle colonie inglesi da ripopolare. Allora li si prelevava con la violenza, oggi li si costringe con la violenza del debito, della guerra e dello sfruttamento – che i deportazionisti buoni chiamano rispettivamente aiuti (sic) internazionali, missioni di peacekeeping e investimenti diretti esteri, e li sostengono pulendosi la coscienza con un’agile mossa lessicale. Ritenere normale che alcuni paesi del mondo, i più poveri, siano serbatoi di carne umana da ricollocare alla bisogna dei meno poveri soddisfa i requisiti non solo del razzismo, ma anche dello schiavismo tout court, e tradisce un disprezzo ignaro ma totale del diritto di queste popolazioni a vivere in pace e prosperità nelle proprie terre di origine.
In quanto al ritornello de i-lavori-che-gli-italiani-non-vogliono-più-fare, gira da almeno 20 anni ed è un classico esempio di come si peggiora un problema vero (l’abbassamento dei salari) con una soluzione falsa (l’immigrazione). Se molti mestieri non garantiscono redditi sufficienti per condurre una vita dignitosa nonostante siano richiesti dal mercato e in molti casi indispensabili, c’è evidentemente un problema di allocazione dei frutti del lavoro, che dalla base produttiva si spostano verso l’alto, ai dirigenti e ai grandi imprenditori fino a raggiungere lo stretto vertice degli investitori finanziari e dei loro vassalli. E se il lavoro vale sempre di meno, in ciò non aiuta la velleità di competere a frontiere aperte e a cambio fisso con i paesi che ci hanno preceduto nello sfruttamento in larga scala, condannandoci a una guerra globale tra poveri dove vince chi compra il lavoro, non chi lo svolge.
Per chi si dice di sinistra questi concetti dovrebbero essere pane quotidiano, se non fosse che l’oppio del moralismo gli ha fatto credere che gli italiani sono pigri e viziati e “non vogliono sporcarsi le mani”, mentre invece i migranti sarebbero baciati da una voglia di fare e di migliorarsi attraverso il lavoro duro, umile e senza pretese. Nel raccontarsi questa fiaba si inanellano almeno tre obbrobri: 
1) il disprezzo per i propri connazionali che lottano per preservare i diritti e il benessere conquistati con il sangue degli avi, oggi derubricati a “privilegi”
2) la celebrazione della propria eccezione etica (per la nota Equazione di Scanavacca) e, 
3) in quanto agli stranieri, la certificazione del loro status di morti di fame disposti a tutto per un pugno di riso, di selvaggi che tutto sommato possono fare a meno del set completo di tutele e benefici formalmente garantiti a chi è nato nell’emisfero dei ricchi.
Se i primi due punti meritano compassione, trattandosi in ultima analisi di autolesionismo, il terzo suscita rabbia e stupore per i modi in cui i concetti antichi di colonialismo, paternalismo e sfruttamento sono riusciti a riciclarsi nei panni dei buoni sentimenti. L’unica, amarissima, consolazione è che chi ammette la deportazione del povero a beneficio del ricco – sia pure con la bonomia della dama coloniale che getta caramelle ai negretti – deve prepararsi a seguirne la sorte mettendosi al servizio di chi è ancora più ricco, come sta accadendo.
Forse un giorno ci si accorgerà che combattere la povertà importando poveri, lo schiavismo importando schiavi e la disoccupazione importando disoccupati non è una buona idea – da qualsiasi parte politica la si guardi. Quel giorno, italiani e stranieri, ovunque ci troveremo, sapremo chi ringraziare. 
Fonte: http://ilpedante.org
Link: http://ilpedante.org/post/lo-schiavismo-dei-buoni

Caporalato, blitz nel Foggiano: arrestati due imprenditori, commissariata azienda agricola.

Caporalato, blitz nel Foggiano in grande azienda agricola: sequestri e ordinanze cautelavi


Per la prima volta in Capitanata, posta sotto controllo giudiziario l’azienda che si estende su di una superficie di circa 50 ettari e che fornisce prodotti ortofrutticoli a importanti ditte dell’agroalimentare.

Nell’ambito di una operazione anticaporalato, la Procura della Repubblica e i carabinieri di Foggia hanno eseguito una ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari nei confronti di due imprenditori agricoli del Foggiano. I due sono accusati di sfruttamento del lavoro irregolare.
Inoltre, per la prima volta in Capitanata, è stata posta sotto controllo giudiziario l’azienda agricola dei due imprenditori che si estende su di una superficie di circa 50 ettari e che - raccontano gli inquirenti - fornisce prodotti ortofrutticoli a importanti ditte dell’agroalimentare. Una trentina i braccianti trovati irregolari nell’azienda.
Stando a quanto sostenuto dagli investigatori all’interno della stessa dell’azienda sono stati anche posti sotto sequestro quattro, cinque container, utilizzati dai due imprenditori come alloggi di fortuna per i braccianti agricoli. Si tratta di abitazioni fatiscenti ed in pessime condizioni igienico- sanitarie dove - a dire degli inquirenti - venivano letteralmente stipati i migranti. I particolari dell’operazione verranno resi noti in una conferenza stampa che si terrà alle 10 presso la Procura della Repubblica di Foggia.

https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/foggia/1154525/caporalato-blitz-nel-foggiano-in-grande-azienda-agricola-sequestri-e-ordinanze-cautelavi.html


Ecco che cosa vuole alimentare la parte peggiore del paese: permettere, a persone di dubbia integrità morale, che i migranti, approdati sulle nostre coste con la speranza di una vita migliore, vengano usati come schiavi malpagati e bistrattati per puro scopo di maggiore lucro.

Se la Sea Watch fosse quotata in borsa Salvini starebbe zitto. - Beppe Grillo


Borsa Italiana, Piazza degli Affari, Milano - Opera di Maurizio Cattelan.

di Beppe Grillo e il suo neurologo – Il presidente di Confindustria è pienamente armonizzato con le tre sigle sindacali, era necessario che il MoVimento andasse al governo perché accadesse una cosa del genere!
In sostanza CGL, CISL e UIL, insieme a Boccia, hanno formato una specie di eclissi a forza di girarci attorno. Nell’oscurità del cono d’ombra che formano questi resti della storia si minacciano tranquillamente i governi!  Se qualcosa va storto con una concessionaria di un servizio pubblico fondamentale del paese, fatevi i cazzi vostri, sono quotati in borsa. Come se la stessa parola “Nazione” fosse troppo grossa: lo stato e i cittadini si devono infantozzare di fronte ai magliari multicolore, i Benetton e le grandi società quotate nel gran mercato.
Parlando di grosse società, ancora di più “se quotate in borsa” un governo dovrebbe accettare passivamente che la sua concessione crolli, divida in due Genova,  uccida 43 persone e distrugga pure un quartiere.
“Ok, grazie, siete fantastici, però quelli erano i nostri cittadini, quella è la nostra città e il ponte lo hanno pagato gli italiani! Adesso siete fuori!” Unica Possibile Reazione Plausibile (UPRP)
Però Boccia dice che “…servirebbe una valutazione più a freddo del linguaggio da usare…” di fronte ad una grande società sana come Atlantia…
Sana? Cosa significa sano oggi? Gli amici che “rappresentano” i cittadini ti danno in concessione un pezzo vitale del paese e tu non te ne prendi cura, ti rifiuti di risponderne senza vergogna. Potrebbe anche essere… l’incapacità di provare vergogna è la nuova definizione di salute (mentale) chi lo sa.
Sono morti in 43, uno in più dei poveracci che sono bloccati sulla nave di fronte a Lampedusa. Per il primo gruppo il mondo civile è contento se facciamo finta di niente, se non sbarcano quelli del secondo gruppo invece siamo dei criminali.
Non importa a nessuno come la pensi, la vera questione è che la Sea Watch non è quotata in borsa! E’ un mondo cacotopico, uno dei sinonimi di “distopico.” Cosa significa CACOTOPICO? Che viviamo in un futuro che tradisce tutte le aspettative più rosee di un lungo e noiosamente entropico dopoguerra.
Si perché noi siamo ancora nel dopoguerra, viviamo le conseguenze della crisi del ’29 e della guerra mondiale che l’ha seguita. Un’utopia alla rovescia, questa è una cosa cacotopica!
Così, il nostro CacoCapitano è un eroe contro i deboli, mentre l’eternamente imberbe non riesce a trovare la concentrazione necessaria a mandare a quel paese la cachessia delle idee che sta travolgendoci.
Se è un brutto sogno… svegliamoci, se siamo svegli: agiamo!
C’è una terza possibilità: lasciamo fare al mondo della finanza, forse si accorgono che la Sea Watch è quotata in borsa tramite qualche altra “controllata” come sembra esserlo tutto il mondo, tranne l’Africa (forse).
Pensateci: questo è uno dei paesi più evoluti della terra, mica noccioline.


http://www.beppegrillo.it/se-la-sea-watch-fosse-quotata-in-borsa-salvini-starebbe-zitto/?fbclid=IwAR2jKpKrJ5HuKk6oGHPt6jVlGouggcdjPSPK5yHGg65NULxfKdg-G_AUxe4

La Gdf contro Carola Rackete, "ci ha schiacciati sulla banchina, abbiamo rischiato di morire." -



Ignorato tre volte l'alt, poi il contatto fra la Sea Watch e la motovedetta dei finanzieri. Procuratore di Agrigento: "Violenza inammissibile."


L’ultima disobbedienza di Carola Rackete poteva avere conseguenze gravi per l’incolumità della Guardia di Finanza. Dinanzi alla decisione della comandante della Sea Watch di riaccendere i motori e dirigersi verso il porto, i finanzieri hanno intimato per tre volte l’alt. Ma lei lo ha ignorato. La motovedetta della Gdf ha tentato di frapporsi fra la banchina e la nave per impedire l’attracco, ma anche in questo caso Carola non si è fermata fino all’incidente con l’imbarcazione dei finanzieri.
“Abbiamo rischiato di morire” dicono fonti della Gdf all’Adnkronos, che parlano di “azione criminale” nel forzare il blocco, perché “siamo rimasti schiacciati sulla banchina” e a bordo della motovedetta si è respirato un clima di “terrore” perché “ci siamo visti addosso a noi un bestione da 600 tonnellate”.
“Le ragioni umanitarie non possono giustificare atti di inammissibile violenza nei confronti di chi in divisa lavora in mare per la sicurezza di tutti” dice il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio.
La Guardia di Finanza ha sequestrato d’ iniziativa la nave Sea Watch. Le Fiamme gialle, dopo le operazioni di sbarco dei migranti che erano a bordo della Sea Watch, sono salite a bordo e hanno preso il comando della nave. La nave è stata portata fuori dal porto, in rada.

La Sacra Famiglia - Marco Travaglio


E niente, in questa valle di lacrime non si fa che piangere a dirotto. Avevamo appena finito di commuoverci per i caldi abbracci e i teneri petting dei vincitori olimpici a Losanna, sublimati in liriche corali da Francesco Merlo, il Pindaro di Repubblica. E, quando i cigli erano ormai asciutti, ci siamo ricascati. È stato per gli strazianti gridi di dolore sul proditorio attacco di Luigi Di Maio, “a mercati aperti”, contro la concessionaria autostradale Atlantia della Sacra Famiglia Benetton (sempre sia lodata). Proprio alla vigilia della demolizione di quel che restava del Ponte Morandi, orgoglio e vanto della nazione tutta, purtroppo crollato il 14 agosto per una tragica fatalità causata dal destino cinico e baro, fors’anche dalle avverse condizioni meteorologiche (pioveva). 
L’idea che il crollo di un viadotto autostradale, col contorno di 43 morti e decine di feriti, fosse imputabile alla mancata manutenzione e all’inosservanza dei più elementari obblighi e norme di sicurezza da parte della società che lucrosissimamente lo gestiva dal 1999, fu subito scartata e bollata dai principali organi di stampa (foraggiati dai Benetton con pubblicità e altri aiutini) come sintomo di gravissime patologie. Nell’ordine: populismo, giustizialismo, moralismo, giustizia sommaria, punizione cieca, voglia di ghigliottina e di Piazzale Loreto, sciacallaggio, speculazione, ansia vendicativa, barbarie umana e giuridica, cultura anti-impresa che dice No a tutto, deriva autoritaria, ossessione del capro espiatorio, esplosione emotiva, punizione cieca, barbarie, avventurismo, collettivismo, socialismo reale, decrescita, oscurantismo (citazioni testuali da Repubblica, Corriere, Stampa e Giornale).
Provvide poi Merlo, il Vate del Laterizio, a risarcire i poveri Benetton con un’imperitura intervista a Luciano, di cui per brevità citiamo soltanto l’incipit: “È vero che il crollo del ponte Morandi con i suoi 43 morti ha ferito lei e ucciso suo fratello?”. Mancava solo una richiesta di danni ai defunti. Ora Di Maio smentisce a Porta a Porta (programma che va in onda a mercati chiusi, ma anticipa le risposte registrate a mercati aperti) le voci su Atlantia nella nuova Alitalia. E ricorda l’impegno del governo tutto (Salvini incluso) ai funerali di Genova sulla revoca della concessione ad Atlantia che, se perdesse le autostrade, sarebbe una scatola vuota “decotta”. La società lo accusa di “perturbare l’andamento del titolo Atlantia in Borsa” con “gravi danni reputazionali per la società, che si riserva ogni iniziativa legale a tutela dei propri interessi”. Come se la revoca della concessione, annunciata 10 mesi fa, fosse un fulmine a ciel sereno.
Come se qualcuno potesse peggiorare la reputazione di un gruppo che ha lasciato crollare il Morandi e ha visto i suoi dirigenti condannati in primo grado per un’altra strage, quella di Avellino (altri 40 morti), dovuta ai guardrail marci. 
Come se uno dei massimi rappresentanti del governo e del partito di maggioranza relativa dovesse tapparsi la bocca sulle gravissime responsabilità di un concessionario pubblico solo perché è quotato in Borsa, oppure parlarne soltanto bene (possibilmente a mercati aperti). Il caso ricorda gli alti lai del gruppo Caltagirone quando la Raggi, in campagna elettorale del 2016, osò ventilare un cambio della guardia in Acea, partecipata dal Comune di Roma e da Caltagirone. Il quale, tramite gli appositi Messaggero e Pd, la accusò di aver causato un calo in Borsa (tre giorni dopo le sue dichiarazioni). Stavolta i primi a insorgere, in stereofonia con Atlantia, sono il Pd (per bocca di Raffaella Paita, candidata trombata alla Regione Liguria e dunque deputata), quel che resta di FI (Mara Carfagna) e Salvini in versione garantista: “Chi ha morti sulla coscienza pagherà, ma non faccio il giudice”: in effetti, i processi a Genova potrebbero appurare che il Morandi è crollato per la pioggia, o che è tutta colpa della Sea Watch.
E poi, naturalmente, i giornaloni. Corriere: “Ilva e Atlantia, l’attacco di Di Maio. Nel mirino le grandi imprese” (per la verità solo due: quella che ha lasciato crollare il ponte e quella che minaccia serrata e licenziamenti perché pretende l’immunità per i suoi reati, dandoli per scontati); “nella cultura politica del ministro Di Maio è facile riscontrare un pregiudizio di fondo nei confronti dell’impresa e della libera iniziativa” (di lasciar crollare i ponti). Repubblica, con la fotocopiatrice: “Il metodo gialloverde contro l’industria”, “la missione dei 5Stelle pare quella di affondare ciò che c’è – o che resta – dell’imprenditoria, in nome di una vendetta epocale contro un capitalismo considerato di rapina”, al punto di negare financo “l’immunità dalla responsabilità penale per il risanamento ambientale” (già ci par di vederli, i buoni samaritani di Mittal, che si dannano l’anima per bonificare l’Ilva e le toghe gialle istigate da Di Maio che li arrestano per il reato di risanamento ambientale). La Stampa, cioè la nuova Padania: “Salvini attacca: ‘Di Maio sbaglia. Atlantia assicura migliaia di posti. Attenti a dare giudizi sommari’” (meglio i suoi giudizi somari). Messaggero: “Quelle parole incaute che spaventano gli investitori”, “Salvini contro lo sfascia-tutto (Di Maio, non Atlantia, ndr)’”. 
Sole 24 Ore: “Troppo livore e parole in libertà”. Libero: “Di Maio vuole che Atlantia fallisca”. Giornale: “Il folle piano di Di Maio: un’Italia senza acciaio e i Benetton sul lastrico” (e neanche una pubblicità delle pecore col maglione). Non so a voi, ma a me, all’idea dei Benetton sul lastrico per una frase di Di Maio che rinunciano alla grigliata cortinese di ferragosto, è venuto da piangere. Vanno assolutamente risarciti. Magari facendogli costruire un bel ponte a Cortina. Tanto poi nel giro di cinque anni crolla e diventa un ottimo trampolino per le Olimpiadi del 2026.

venerdì 28 giugno 2019

Solidarietà a tema.

Risultati immagini per la capitana della sea watch i parlamentari del pd

Finita l'era dei cagnolini, (ricordate Berlusconi?) inizia l'era della solidarietà verso chi commette reati, come, del resto, è nella loro natura. Con la differenza che ai cagnolini non hanno dato un soldino, per la ricca capitana tedesca hanno subito indetto una raccolta fondi per aiutarla nel caso dovesse trovarsi a sostenere "eventuali future cause". 

Ma poi, il fatto che abbiano indetto immantinente una raccolta fondi non fa sorgere il sospetto che forse era già tutto premeditato, prestabilito?

Non ci resta che aspettare per vedere se i soldi raccolti per la capitana faranno la stessa fine di quelli raccolti per i terremotati e per l'Unicef.... 

Tornando ai solidali...
Sono ipocriti allo stato puro, sirene ammaliatrici di mammalucchi ipocriti come loro ai quali non gliene può fregar di meno di chi soffre perché gli occidentali emancipati (di 'sta cippa) nostri alleati, vanno a rompergli le scatole a casa loro costringendoli ad espatriare ovunque sia possibile trovare una vita a misura d'uomo...
Peccato che chi soffre, una volta arrivato nella terra promessa, trovi solo desolazione, corruzione e sfruttamento.
MI vergogno degli errori che l'uomo continua a commettere;
le guerre, le distruzioni, lo sterminio di intere etnie non ci hanno insegnato nulla, anche se, puntualmente, ci impegniamo ipocritamente a ricordarli ad ogni ricorrenza.
Sorge il dubbio che chi è al potere lo faccia per irretirci, per incuterci paura.

C'è un disegno incomprensibile che aleggia nell'aria e che non promette nulla di buono.
Un disegno dal quale mi dissocio.
Cetta.

L’ora illegale. - Marco Travaglio



Mai come oggi la legalità è stata un concetto elastico, flessibile, trattabile, usa e getta a seconda degli interessi di chi la invoca o la teme. Tre casi concomitanti ci illuminano d’immenso.
1) Non è ancora finito il Carnevale di Rio per la grande vittoria olimpica di Milano e Cortina, ovviamente all’insegna del risparmio e della legalità, e già sui giornali si leggono appelli a mezza bocca alla Procura di Milano perché garantisca la stessa “tregua” che assicurò ai disinvolti appalti senza gara di Expo 2015, quando il pm competente Alfredo Robledo, si vide prima sfilare i fascicoli d’indagine dal suo capo e poi scaraventare dal Csm a Torino per evitare guai peggiori a Sala&C. Appelli che fanno sospettare intenzioni incompatibili col risparmio e la legalità, sennò perché tanta paura dei pm?
2) A Taranto i nuovi padroni dell’Ilva, gl’indiani di Arcelor Mittal, scelti a suo tempo dall’ottimo Calenda per rimpiazzare i Riva e i commissari, fanno sapere che senza l’immunità penale – gentilmente concessa dagli ottimi Renzi e Calenda e revocata dal cattivo Di Maio – chiuderanno lo stabilimento a settembre e chi s’è visto s’è visto. Anche lì, una multinazionale che s’impegna a rilevare uno stabilimento italiano secondo le leggi del Paese che lo ospita in cambio di copiosi guadagni e poi minaccia di andarsene se non gli viene assicurata l’impunità in caso di reati prim’ancora di commetterli (si spera), dà l’idea di non avere alcuna intenzione di osservare il Codice penale. E nessuno si scandalizza, come del resto nessuno fece un plissé quando il Pd regalò ai commissari di governo la licenza di delinquere, in quel caso di uccidere: l’unico scandalo, a leggere i giornaloni, è perché il governo Conte l’ha finalmente revocata.
3) Dopo 14 giorni di navigazione nel Mediterraneo, approda sulle coste italiane la nave SeaWatch-3, di proprietà di un’ong privata tedesca ma battente bandiera olandese, carica di 42 profughi raccolti in acque libiche. In origine erano 52, ma 10 – quelli in pericolo – sono già sbarcati in Italia il 15 giugno. Il natante, guidato dalla capitana tedesca Carola Rackete, ha violato una serie innumerevole di norme italiane e internazionali, il che non le verrebbe consentito da alcuno Stato di diritto del mondo libero. Nel 2017 non ha firmato il Codice di autoregolamentazione del ministro dell’Interno Pd Marco Minniti, regolarmente siglato da altre ong, per farla finita col Far West nel Mediterraneo (migliaia di sbarchi e di morti). S’è addentrata nella zona di ricerca e soccorso libica, competenza della Guardia costiera di Tripoli.
Avrebbe dovuto far rotta sul porto sicuro più vicino: cioè in Tunisia o a Malta. Invece ha scientemente deciso di proseguire fino a Lampedusa, per creare l’ennesimo incidente in polemica con le politiche migratorie del governo italiano, secondo il copione collaudato da altre navi della stessa Ong (una saga a puntate: Sea Watch-1, 2, 3 e così via). Il governo ha negato il permesso di ingresso nelle acque territoriali e poi di sbarco nel porto. La capitana Carola, subito idolatrata da una sinistra a corto di idee e simboli, se n’è infischiata. Prima ha tentato di far annullare l’alt dal Tar: ricorso respinto. Poi di farsi autorizzare in via provvisoria e urgente dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Che però le ha dato torto, per la seconda volta (il diritto allo sbarco in Italia era già stato negato il 29 gennaio a un’altra Sea Watch con 49 migranti): il provvedimento provvisorio di sbarco, in deroga agli ordini di un governo, può essere adottato solo “nei casi eccezionali in cui i richiedenti sarebbero esposti – in assenza di tali misure – a un vero e proprio rischio di danni irreparabili”. E fortunatamente non è questa la situazione degli ospiti della SeaWatch-3 dopo la discesa delle tre famiglie con bimbi e donne incinte. Certo – precisa la Corte – il governo deve “continuare a fornire tutta l’assistenza necessaria alle persone in situazione di vulnerabilità per età o stato di salute”. Ma non esiste un diritto di accesso alle acque territoriali di uno Stato in violazione delle sue norme, salvo appunto per gravi motivi di salute, senza i quali la nave che ha compiuto il salvataggio (in questo caso, un’estensione del territorio olandese) è essa stessa un luogo sicuro per i naufraghi. A quel punto, siccome il tribunale italiano e quello comunitario le han dato torto, la capitana ha calpestato entrambe le sentenze. E l’ordine di fermarsi della Guardia Costiera e di Finanza. E s’è affacciata su Lampedusa sventolando una causa di forza maggiore già esclusa da Strasburgo: la salute dei migranti dopo 14 giorni di navigazione (che sarebbero stati molti meno se fosse andata dove doveva: Tunisia o Malta).
Quel che pensiamo su questa ennesima guerra delle opposte propagande fra alcune Ong e il governo italiano lo scriviamo da sempre: sulla pelle dei migranti, usati come ostaggi e scudi umani, si sta giocando una lunga, cinica e ipocrita gara tutta politica. Anche e soprattutto nella cosiddetta Europa, che sta a guardare. Sul piano umanitario, è fin troppo evidente che – stando così le cose – quei 42 disperati devono sbarcare in Italia, com’è sempre avvenuto, anche sotto il ministro della Cattiveria di un governo tacciato di fascismo e razzismo da chi in casa propria fa ben di peggio. Ma nessuno ci venga a raccontare che da una parte ci sono i buoni (l’eroica capitana) e dall’altra i cattivi (gli italiani xenofobi). O che un governo non ha il diritto-dovere di proteggere i confini da chi vorrebbe decidere le sue politiche migratorie dalla tolda di una nave tedesca con bandierina olandese. E di indicare l’unica via d’accesso all’Italia per chi ha diritto all’asilo: quella dei corridoi umanitari. Cioè, parlando con pardon, la via legale.