venerdì 21 agosto 2020

La ’ndrangheta, il tradimento di Gelli e la “spallata finale” allo Stato pianificata dalle mafie del Sud. - Lucio Musolino

La ’ndrangheta, il tradimento di Gelli e la “spallata finale” allo Stato pianificata dalle mafie del Sud

La deposizione di Giuliano Di Bernardo, ex gran maestro del Grande Oriente d’Italia, nel processo “’Ndrangheta stragista”: “Gelli si mette a fare affari in tutto il mondo…cioè, tradisce gli americani, e mettendo da parte il fine politico, per favorire quelli suoi, economici, e del suo gruppo”.
“Licio Gelli è stato inventato dalla Cia, dagli americani. Inventato. Inventato, perché il governo americano aveva perso fiducia in Moro e Andreotti, e quindi cominciava a temere che in Italia ci potesse essere il sorpasso comunista”. Sono le parole di Giuliano Di Bernardo nel processo “’Ndrangheta stragista”, concluso il 24 luglio con l’ergastolo inflitto al boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e a Rocco Santo Filippone, espressione della cosca Piromalli. Entrambi sono stati condannati, in primo grado, perché mandanti del duplice omicidio dei due carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo avvenuto il 18 gennaio 1994. Un agguato che, assieme agli attentati ad altre due pattuglie dell’Arma, rientrava nelle cosiddette “stragi continentali” e, quindi, nella “strategia stragista” di Cosa nostra e ‘Ndrangheta contro lo Stato. Una partita a scacchi in cui, dietro i clan, si nascondeva un mondo in giacca e cravatta fatto di politici, imprenditori e uomini delle istituzioni che di giorno si battevano il petto sulle bare dei morti ammazzati dalle bombe e di notte tramavano con boss e pezzi deviati dello Stato per organizzare quella che il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, nella sua requisitoria, ha definito “la spallata finale alla prima Repubblica”. Un mondo che, sotto la giacca, non aveva solo la cravatta ma spesso nascondeva anche la squadra e il compasso.
Ecco perché la deposizione di Giuliano Di Bernardo non è casuale nel processo che potrebbe riscrivere una delle pagine più buie del nostro Paese. Fino al 1993, infatti, Di Bernardo è stato il gran maestro del Grande Oriente d’Italia da cui è uscito dopo aver percepito “una sorta di compenetrazione fra una certa massoneria e la criminalità organizzata, specie calabrese”.
Dal racconto di Di Bernardo, che nel 2002 fondò la Gran Loggia Regolare d’Italia, emerge non solo che le mafie avevano infiltrato le logge ma anche come all’inizio degli anni novanta massoneria, ‘Ndrangheta, Cosa Nostra e destra eversiva erano impegnate a sostenere i movimenti separatisti siciliani e meridionali. Stando alle carte della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, un ruolo fondamentale in queste manovre è stato quello di Licio Gelli.
Per capire il perché è necessario andare oltre i “papelli” con le condizioni che i mafiosi siciliani volevano imporre allo Stato Italiano, oltre la “falsa politica” della ‘ndrangheta e oltre qualsiasi altra inconfessabile trattativa tra le istituzioni e la criminalità organizzata.
In gioco c’era anche altro e quest’altro passava per l’universo “gelliano” della P2. Ricomporre il puzzle non è semplice per il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo: inserire i tasselli uno dopo l’altro potrebbe fornire un disegno inquietante rispetto alla versione confezionata degli ultimi 50 anni.
Ecco quindi che i verbali dell’ex gran maestro del Goi Giuliano Di Bernardo, poi confermati in aula davanti alla Corte d’Assise, rischiano di aprire uno squarcio su un sistema in cui il ruolo di Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone è certamente di primo livello ma quantomeno pari a quello dei “suggeritori occulti”, menti raffinate che assieme ai boss componevano quella che la Dda di Palermo, nell’inchiesta “Sistemi criminali”, aveva definito “super-struttura eversiva in cui erano confluite, mafie, massoneria deviata, politici collusi, uomini legati a servizi di sicurezza e a Gladio”. In sostanza uomini che sussurravano all’orecchio dei mammasantissima per creare le “condizioni politiche che garantissero ancora agibilità e potere alle forze illegali che avevano prosperato nel Paese fino a quel momento”.
“Gelli – dice Di Bernardo rispondendo alle domande del procuratore Lombardo – è stato il referente unico, esclusivo, del governo americano, per evitare che in Italia si facesse il sorpasso dei comunisti. Quindi, Gelli ha avuto montagne di dollari, ma soprattutto il governo americano, la Cia, l’Fbi, questi… hanno messo all’obbedienza di Gelli i vertici italiani: i vertici economici, i vertici militari, i vertici della magistratura, i vertici, li hanno messi tutti alla sua obbedienza. Che lui iniziava all’”Excelsior” di Roma, col gran maestro Gamberini. Quindi, questo uomo, all’improvviso, si è ritrovato un potere come penso nessun altro abbia mai avuto in Italia. Tutto questo doveva servire per evitare il sorpasso. Si parla lì di questo progetto politico di Gelli”.
Il riferimento è al famoso “piano di rinascita democratica” redatto dal “burattinaio” Licio Gelli, l’ex “Venerabile” della loggia P2: “La realtà è sempre più banale di quello che si può pensare. – è Giuliano Di Bernardo che parla – Gelli si era impegnato a modificare l’Italia per evitare il sorpasso (comunista, ndr). Però, Gelli, quando riceve i soldi dagli americani, fa i suoi affari in diversi paesi del mondo… Non pensa allo scopo fondamentale, che avrebbe dovuto invece interessarlo. Gli americani cominciano a sollecitarlo e allora lui, come ha confidato a qualche suo collaboratore, che poi è arrivato anche a me, non ce la faceva più di queste sollecitazioni degli americani, si è messo a scrivere, così, a caso, un progetto”.
La realtà, quindi, è diversa per l’ex gran maestro del Goi Di Bernardo: “Gelli si mette a fare affari in tutto il mondo…cioè, tradisce gli americani, e mettendo da parte il fine politico, per favorire quelli suoi, economici, e del suo gruppo”.
Per questo motivo era stato allontanato dal Goi dove, però, voleva rientrare a tutti i costi: “Gelli aveva la sua base all’interno del Grande Oriente. Gelli ritiene che ogni uomo sia comprabile, ecco, e mi fa fare la domanda: ‘Decidi tu la somma, fissa tu. Se tu lo fai rientrare, Gelli ti dà questa somma’ – è sempre il racconto di Di Bernardo – E io gli feci rispondere: ‘Gelli forse ha comprato tanti, ma certamente non comprerà me’. Poco dopo ritorna la stessa persona, con un’altra proposta, per indurmi a farlo rientrare, e mi dice: ‘Gelli, in cambio del tuo appoggio a farlo rientrare, metterà a tua disposizione l’elenco vero della P2, con i relativi fascicoli’.
Una frase che non lascia adito a dubbi, ma il pm Lombardo vuole cristallizzare un dato importante che proviene da chi conosce il mondo della massoneria dal suo interno.
“L’elenco vero significa non quello sequestrato dalla magistratura?”. Il magistrato fa lo stesso la domanda e la risposta è secca: “No, no. Quello è solo parziale. Io sono arrivato alla conclusione che è solo parziale. Gelli mi fa dire da questo suo emissario che avrebbe messo a mia disposizione, mi avrebbe dato il vero elenco, con i relativi fascicoli. E aggiunge: ‘In questo modo, potrai ricattare tutta l’Italia’”.
Di Bernardo quell’elenco lo rifiutò e al momento si può solo intuire il contenuto di quei fascicoli. Per farlo il testimone della Procura ricorda un incontro avuto con il segretario personale dell’ex gran maestro Battelli: “Chiede di incontrarmi perché voleva fare una dichiarazione al gran maestro da firmare. Infatti, lo incontro, e mi dice che una sera Gelli si presenta nello studio del gran maestro Battelli, con un grosso fascicolo, e gli dice: ‘Questo è l’elenco della P2’. Battelli comincia a sfogliarlo, e, come sostiene il suo segretario, diventa di tutti i colori. Alla fin fine Battelli, dopo aver letto, chiude e dice a Gelli: ‘Riprendilo, questo io non l’ho mai visto’. Dopo commenta col suo segretario: ‘Le cose che… i nomi che ho visto lì, non li voglio neanche dire a te. Io, quel fascicolo, non l’ho mai visto’. Quindi, il segretario di Battelli si è sentito in dovere di fare a me questa dichiarazione scritta, per dirmi: ‘Guarda che…’, allora, dalla stessa ammissione di Gelli, che mi voleva dare l’elenco completo con i fascicoli, alla testimonianza di questo… io ho la convinzione che il vero elenco esiste, ma non sappiamo dov’è, ecco”.
Tutto ovviamente è avvenuto dopo che la loggia P2 era stata sciolta: “Ah, certo…. Per sciogliere la P2 era stata necessaria la legge ‘Spadolini-Anselmi’. Quella legge non scioglie proprio nulla, e non scioglie nulla perché contiene una contraddizione che contrasta anche con un articolo della Costituzione… perché la legge ‘Anselmi’ è stata scritta da massoni. In modo particolare dal professor Paolo Ungari”.
Caduto dalla tromba dell’ascensore al terzo piano di un palazzo vicino al Campidoglio, il consigliere parlamentare della Camera dei deputati e docente universitario Paolo Ungari è morto nel 1999. Come ha chiesto nel testamento redatto sei anni prima, sulla sua lapide c’è scritto solo “maestro massone”.
Lo ricorda bene Di Bernardo: “Avevo conosciuto Paolo Ungari all’università di Trento, dove io appunto ho insegnato per tutta la mia vita…Poi ci siamo ritrovati dopo la mia elezione a gran maestro del Grande Oriente e così, parlando del più e del meno, mi disse: ‘Non si sono ancora accorti…’, ecco, qui stiamo parlando del 1991.. ‘che la legge Anselmi non solo non consente di sciogliere la P2, perché il secondo capoverso contrasta col primo, ma è addirittura incostituzionale, perché contrasta con un articolo della Costituzione sulle libertà di associazione’. Ecco, e disse: ‘Vediamo quanto tempo passerà prima che se ne accorgano’. Qualcuno prima o poi dovrà prendere in mano (quella legge, ndr)”.
Gelli, massoneria deviata e anche ‘ndrangheta: il “Venerabile” aveva un’influenza, “anche indiretta”, sulle dinamiche criminali calabresi come spiega il collaboratore di giustizia Consolato Villani, uno dei killer che sparò ai due carabinieri nel gennaio 1994, nelle sue dichiarazioni sull’omicidio di Lodovico Ligato, il deputato della Dc ed ex presidente delle Ferrovie dello Stato ucciso il 27 agosto 1989 a Bocale, nella periferia sud di Reggio Calabria.
“La stanza dei bottoni che comanda sulla ‘Ndrangheta militare, – dice Villani – è quella di cui facevano parte l’avvocato De Stefano, Paolo Romeo e l’onorevole Ligato, ucciso per indebolire proprio i De Stefano: tale sistema è necessario anche al fine di controllare gli esponenti politici compiacenti. Tanto l’avvocato Paolo Romeo che l’avvocato Giorgio De Stefano facevano parte della P2 di Licio Gelli che spesso si recava a Reggio Calabria”.
Il verbale di Villani fa il paio con quello di uno dei primi collaboratori di giustizia, Filippo Barreca che, già nel gennaio 1995, aveva riferito sull’esistenza, sin dai “primi mesi dell’anno ’79”, di “una loggia segreta a Reggio Calabria… a cui appartenevano professionisti, rappresentanti delle istituzioni, politici e, come detto, ‘ndranghetisti”.
A costituirla, stando alle dichiarazioni del pentito, era stato “Franco Freda…nel contesto di quel più ampio progetto nazionale” al quale avevano aderito “le più importanti personalità cittadine” tra cui anche “Lodovigo Ligato, l’onorevole Paolo Romeo, l’avvocato Giorgio De Stefano… e taluni componenti della loggia appartenevano anche alla P2…la loggia, peraltro, aveva stretti rapporti con la massoneria ufficiale. Le competenze della loggia, come detto, si fondavano su una base eversiva. Ma, prevalentemente, la loggia mirava: ad assicurarsi il controllo di tutte le principali attività economiche, compresi gli appalti, della provincia di Reggio Calabria; il controllo delle istituzioni a cui capo venivano collocate persone di gradimento e facilmente avvicinabili; l’aggiustamento di tutti i processi a carico di appartenenti alla struttura”.
Se questo avveniva in riva allo Stretto alla fine degli anni 70 e per tutti gli anni 80, la situazione era sovrapponibile al resto dell’Italia: la caduta del muro di Berlino e lo sgretolamento della Democrazia Cristiana hanno solo confermato la “rete di potere di Licio Gelli e i suoi duraturi rapporti con le mafie e l’eversione”.
“La congiuntura internazionale – scrive il procuratore Lombardo nella sua requisitoria – non era neanche tale da fare sperare, a Gelli e ai mafiosi, in un placido ritorno al passato. La fine della guerra fredda e del comunismo, non solo depotenziavano il valore politico aggiunto o se si vuole, la rendita politica, rappresentata, per l’appunto, dall’anticomunismo (che sia per Gelli che per le Mafie era stato un utile pretesto per legittimare il loro potere) ma prefiguravano equilibri politici diversi e, in particolare (come poi in effetti è successo) il superamento della cosiddetta ‘democrazia bloccata’ che aveva caratterizzato fino a quel momento la storia repubblicana”.
In altre parole, “il prevedibile (e, poi, realizzatosi) sfarinamento di quelle forze politiche, il contestuale manifestarsi al loro interno di forze antimafia e di forze che si erano opposte all’influenza di poteri extra-ordinem, per due poteri reali ed effettivi (quali quelli incarnati da Gelli, e quindi dalle massonerie deviate e dai pezzi di istituzioni che gli erano rimasti vicini, e dalle mafie) rendeva vieppiù necessario dare una ulteriore spallata al sistema e contribuire alla creazione di una nuova rappresentanza politica con cui interloquire. E se queste sono le ragioni della convergenza d’interessi fra Gelli, il suo sistema di potere e le mafie, fatti concreti ed emergenze investigative, consentono di affermare che il collante, il regista (almeno in una fase iniziale) del leghismo meridionale, colui che fu capace di mettere insieme tutte le eterogenee componenti di tale movimento e, quindi, anche, colui che fu capace di cogliere il momento di frizione e rottura fra le mafie e la vecchia classe politica agevolando l’adesione di queste ultime al progetto “federalista”, fu proprio Licio Gelli”.

Ambiente, profondo rosso: tra 24 ore la Terra è in debito. - Luca Mercalli

Ambiente, profondo rosso: tra 24 ore la Terra è in debito

Il 22 agosto è il giorno del sovrasfruttamento delle risorse terrestri da parte dell’Umanità (Overshoot Day). Non è una data fissa, celebrativa, come la giornata mondiale dell’ambiente o della gioventù, ma è come una spia rossa che si accende sul cruscotto dell’auto e ti dice che sei in riserva perché hai premuto troppo sull’acceleratore. Nel 1970, con una Terra popolata da 3,7 miliardi di umani – meno della metà di quanti siamo oggi – quella data cadeva il 29 dicembre: era una buona cosa, dovevamo viaggiare in riserva solo per un paio di giorni, poi con il primo gennaio dell’anno nuovo, come con gli interessi di un conto in banca sano, si poteva fare rifornimento di risorse naturali che il capitale terrestre era in grado di rigenerare. Ma anno dopo anno, cresciuta la popolazione, cresciuti i consumi e cresciuto l’inquinamento, la data della riserva ha cominciato ad anticipare sempre più, nel 2000 era arrivata al 23 settembre e nel 2019 al 29 luglio, la più precoce di sempre.
“In riserva” carbone&C.: mangiare la biodiversità
Nel caso del nostro pianeta viaggiare in riserva vuol dire che ti mangi il capitale cioè impoverisci la biodiversità, estingui specie pescando troppo pesce negli oceani, deforestando l’Amazzonia, scavando miniere, cementificando il suolo, bruciando petrolio e carbone, cambiando il clima, spargendo plastica e altri rifiuti, accrescendo la popolazione di circa 80 milioni di persone all’anno. Giocando a spendere più di quanto ci sia sul conto per cinque mesi su dodici, contraiamo un debito molto più importante di quello monetario: il debito ecologico, detenuto non da banche o governi, ma dalle inesorabili leggi fisiche che governano l’universo.
Un debito che non si potrà estinguere con decreti o recovery funds, perché è misurato in tonnellate di CO2, in concentrazioni di mercurio nelle acque, in microplastiche nel cibo, in mancanza di suolo fertile, in minore produttività agraria, in riduzione dell’acqua dolce e così via. Cioè basato sulle grandezze fisico-chimiche e biologiche che fanno funzionare la nostra vita e che non si comprano con la carta di credito. Quest’anno però è successo qualcosa di inatteso: invece di anticipare, la data del sovrasfruttamento ha riguadagnato 24 giorni, riportandosi ai livelli del 2005.
Non è l’effetto di un’improvvisa politica ambientalista planetaria, non è il frutto dell’Accordo di Parigi sul clima, ma semplicemente la riduzione dei consumi e dei trasporti dovuta al confinamento sanitario da coronavirus. Per qualche mese vari paesi del mondo hanno chiuso in casa la popolazione, la gente non ha più utilizzato aerei e automobili, ha sostituito i viaggi con le teleconferenze, ha ridotto lo shopping all’indispensabile, e magicamente le emissioni di CO2 sono diminuite e in parte anche l’uso di alcune materie prime non indispensabili. Ma con il rientro a una vita normale dopo l’emergenza, tutto sta tornando come prima o peggio di prima. Il terrore del collasso economico, che purtroppo è sempre, e a torto, maggiore di quello del collasso ecologico, spinge verso una ripresa dei consumi. La svolta verde è ancora lontana e carbone, petrolio, deforestazione e rifiuti continuano a essere il motore della crescita economica. Il rinculo della data del sovrasfruttamento 2020 potrebbe dunque essere un fenomeno del tutto transitorio, annullato nei prossimi mesi dal ripristino del modello dissipativo business-as-usual. Ma potrebbe anche rappresentare un eccellente esperimento positivo, la prova che se si vuole, si può ridurre in tempi brevissimi il nostro impatto sulle risorse planetarie.
Non invocando un nuovo lockdown, ma agendo sulle abitudini quotidiane, riducendo i viaggi inutili, soprattutto quelli aerei e il pendolarismo automobilistico facilmente sostituibile dal telelavoro, limitando i consumi di oggetti inutili, rallentando la frenetica attività produttiva voluta dalla competitività e dalla finanza. Ovvio che per rendere strutturali queste modifiche bisognerebbe cambiare il modello economico: da un capitalismo estrattivo basato sul dogma – fisicamente irrealizzabile – della crescita infinita in un mondo finito, a una società demograficamente ed economicamente stazionaria che possa essere più sobria nei consumi, rispettando i limiti planetari e sfruttando al meglio la tecnologia per ridurre gli sprechi, non per indurne di nuovi!
Domani o cambiamo o nessuno ci farà credito.
Se ciò verrà fatto, potremmo sperare di riportare la data della riserva verso dicembre, consegnando alle generazioni future un bilancio ecologico relativamente sano, un pacchetto di risorse naturali ancora passabile, un clima non troppo sregolato, un accumulo di rifiuti bonificabile. Se non lo faremo, la data, quando il problema Covid sarà risolto, tornerà ad anticipare, approfondendo sempre più il debito ecologico globale fino all’invivibilità di buona parte del pianeta. Come dire che a un certo punto la vera banca da cui dipendiamo tutti noi, quella ambientale, chiuderà il nostro conto in rosso e ci pignorerà ogni avere, saremo una specie sfrattata dal pianeta e nessuno ci farà credito. Sarà quello il giorno della bancarotta ecologica.

giovedì 20 agosto 2020

Coronavirus, è aumentata la carica virale nei tamponi. - Enrica Battifoglia

Aumenta la carica virale rilevata nei tamponi (fonte: Pikist) © Ansa
Aumenta la carica virale rilevata nei tamponi (fonte: Pikist)

Nei tamponi prelevati in questi ultimi giorni è decisamente aumentata la carica virale, ossia il numero delle copie di materiale genetico del nuovo coronavirus presenti in un millilitro di materiale biologico in esame. Il fenomeno potrebbe essere la spia dell'emergere di nuove infezioni, una possibile nuova ondata che sta provocando numerosi focolai e che, intercettata sul nascere, potrebbe essere ancora controllata.

"Tra fine luglio e i primi di agosto tutti i campioni positivi avevano la carica inferiore a 10.000 particelle di virus per millilitro di tampone", ha detto all'ANSA il virologo Francesco Broccolo, dell'Università Milano Bicocca e direttore del laboratorio Cerba di Milano. "Ora - ha proseguito riferendosi ai dati rilevati nel suo laboratorio - circa la metà dei tamponi rilevati nell'ultima settimana supera il milione di copie di materiale genetico del virus, l'Rna, presenti nelle particelle virali infettive in un millilitro di tampone".

Si rilevano inoltre casi nei quali il numero di copie è di un miliardo: "questo può voler dire - ha osservato il virologo - che il virus si replica bene in alcuni organismi e che questi soggetti potrebbero essere dei super diffusori. Vale a dire che le goccioline di saliva emesse con un colpo di tosse o con uno starnuto potrebbero contenere un numero elevato di particelle virali".

L'ipotesi, secondo l'esperto, è che siano infezioni molto recenti, all'esordio: mentre fino a fine luglio vedevamo tamponi di infezioni acquisite nelle settimane precedenti, in sostanza code di infezioni in via di guarigione e che in alcuni casi possono persistere anche per più di tre mesi prima che il virus sia completamente eliminato dall'organismo".

Un'ipotesi che vede d'accordo l'infettivologo Massimo Galli, dell'Ospedale Sacco e dell'Università Statale di Milano: la presenza di una forte carica virale rilevata nei tamponi, ha osservato, "è purtroppo un fenomeno che nell'ultimo periodo si è verificato più volte e che è il segnale di molte nuove infezioni". Si tratta di una situazione decisamente diversa da quella che tempo fa aveva generato un dibattito sulla possibilità che alla fine del fine lockdown il virus avesse perso mordente e che, secondo Galli, "era probabilmente nata dalla constatazione che persone portatrici da tempo del l'infezione, se esaminate, appunto, dopo una 'lunga convivenza' con il virus non avessero una grande replicazione virale.

Questo, però, non accadeva perché il virus si fosse indebolito: tutto dipendeva da chi si andava a valutare. Stabilire da quanto tempo una persona è infettata è spesso difficile, specie se i sintomi della malattia sono modesti o mancano del tutto. È importante - ha rilevato Galli - che si dibattano temi come questi nella comunità scientifica, ma può accadere di dover ripensare a conclusioni tratte senza che tutti i termini del problema fossero ben definiti".

Un altro fenomeno probabilmente era presente fin dall'inizio dell'epidemia, ma che si va definendo solo adesso, è la presenza dei cosiddetti 'superdiffusori': "è il caso di una ragazza di 20 anni nel cui tampone è stata riscontrata una carica virale di circa un miliardo per millilitro e di un uomo di 42 anni con una carica di 2,9 miliardi", ha detto Broccolo.
"Per verificare che siano effettivamente dei super diffusori bisognerebbe fare un test, ma è possibile - ha concluso - che una carica virale così alta sia il presupposto per una buona capacità di infettare".


https://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/biotech/2020/08/19/coronavirus-e-aumentata-la-carica-virale-nei-tamponi-_533703a4-b0a2-4ec3-93ed-79662aa11349.html

Russia, caso Navalny: chi sono i veri mandanti e perché si vuole zittire l’oppositore di Putin. - Leonardo Coen

Russia, caso Navalny: chi sono i veri mandanti e perché si vuole zittire l’oppositore di Putin

Alexei Navalny, l’oppositore più carismatico di Putin, è stato avvelenato, e non è la prima volta che qualcuno prova ad eliminare l’antagonista più impavido del Cremlino. Per esempio, nel 2017, mentre stava uscendo dal suo ufficio moscovita, venne attaccato con uno spray tossico (un prodotto antisettico) spruzzato negli occhi. Nel luglio del 2019 era in prigione quando denunciò d’essere stato avvelenato da “un prodotto chimico sconosciuto”, ed per questo era stato trasferito in un ospedale.
In quell’occasione le autorità avevano replicato accennando ad una “reazione allergica” e avevano spergiurato che nessuna sostanza tossica era stata rintracciata, dopo accurate analisi. Tesi respinta fermamente dalla sua segretaria-portavoce, Kira Yarmick, la stessa che ha diffuso la notizia del nuovo avvelenamento, avvenuto dopo che Navalny aveva bevuto del tè in aeroporto, prima di imbarcarsi a Tomsk per rientrare a Mosca. Delle immagini lo mostrano alla caffetteria, apparentemente in perfetta salute.
Alexei Navalny, l’oppositore di Putin è tra la vita e la morte: ipotesi avvelenamento prima di un volo. Compagnia: “Non ha bevuto in aereo”. In una foto la colazione al bar dell’aeroporto
Il quarantaquattrenne avvocato si è sentito male in volo e le sue condizioni sono talmente peggiorate da costringere ad un atterraggio d’emergenza a Omsk. C’è un video girato con un telefonino che documenta il malore, le urla disperate per richiamare l’attenzione del personale di bordo, la perdita di conoscenza di Navalny. Il leader dell’opposizione russa è stato immediatamente trasportato all’ospedale delle urgenze numero 1 di Omsk, dove è arrivata anche la polizia “chiamata su nostra richiesta”, ha precisato la Yarmick, temendo per la sicurezza dell’avvocato.
I medici hanno subito detto che le sue condizioni erano molto gravi, che era in coma e che sono state effettuate delle analisi per individuare la causa. Da Mosca la dottoressa personale di Navalny ha cercato di informarsi e di aggiornare i colleghi sulla situazione clinica del suo paziente (come vuole la prassi) ma i medici di Omsk si sono rifiutati di parlarle, così lei si è precipitata in Siberia. Uno strano “black-out” sanitario, come se le autorità avessero ordinato di tacere con chiunque, soprattutto con l’entourage di Navalny. Il che ha subito accreditato la tesi dell’avvelenamento “politico”, come in molti hanno scritto in Rete.
Che ci faceva Navalny in Siberia? Semplice: a settembre ci sono le elezioni regionali. E’ stato a Novosibirsk, città in cui il potere amministrativo non è tanto forte e dove serpeggiano malcontento e rivendicazioni sindacali che inquietano il Cremlino. Poi si è recato a Tomsk, città universitaria, dunque tantissimi giovani e tanto consenso nei confronti dell’opposizione. Lì la squadra di Navalny è piuttosto solida e rischia di ottenere un buon risultato elettorale. Non solo.
Aveva svolto, come suo solito ormai, delle inchieste sulla corruzione di alcuni funzionari locali, corredate da video denunce, da documenti ufficiali, da commenti feroci e spot umoristici. Insomma, si era mosso con l’abituale spregiudicatezza, dando seri fastidi ai cacicchi siberiani.
Bisogna dire che a Putin, nonostante tutto, l’operazione condotta da Navalny non lo stava turbando più di tanto, anzi, poteva risultare in un certo senso comoda, ed utile: con l’alibi degli scandali, poteva sbarazzarsi di imbarazzanti ed ormai impresentabili figure marginali del regime, comunque dannose in tempi elettorali. In fondo, un gioco sottile in cui lo zar e il suo grande critico si fronteggiano da anni. Un gioco che alcuni oppositori rinfacciano a Navalny, perché non lo ritengono una credibile alternativa politica a Putin…
Dunque, motivi per zittire l’avvocato leader della lotta contro la corruzione e gli imbrogli del potere, non ne mancavano. La doppia crisi economica e del Covid hanno indebolito il Cremlino, spostando equilibri tradizionali soprattutto in Siberia (dove ingombrante è il fantasma della Cina) e nelle grandi città, dove la società civile reclama più libertà e meno isolamento internazionale.
Un disagio che il gravissimo avvelenamento di Navalny ha accentuato e rischia di provocare, oltre che grande choc, anche proteste incontrollabili (l’esempio bielorusso potrebbe incoraggiarle). Disagio che ha scosso fortemente le file dell’opposizione, e pure tra chi non lo amava per il suo indubbio protagonismo. Negli ultimi due o tre anni c’erano stati segnali d’insofferenza nei suoi confronti, proprio perché l’accusavano d’essere troppo sensibile alle sirene mediatiche. In realtà, perché oscurava col suo indubbio talento politico, le figure più scialbe delle varie (e spesso conflittuali) correnti in cui l’opposizione russa si è frantumata, favorendo indirettamente il regime.
Sconcerta, inoltre, il fatto che sia stato avvelenato sotto gli occhi di chi lo pedina 24 ore su 24: a che cosa serve la sorveglianza? Se lo chiedono in molti, così come molti cercano di ragionare sul mandante. Putin? Difficile: perché creare una “sacra vittima” attorno alla quale coalizzare indignazione e rabbia popolare? Qualcuno che vuole guadagnare punti all’interno della lotta di potere che – si dice – sta scuotendo il Cremlino? Quanto alle varie ipotesi “private” (allergia, droghe, vendetta personale), non si capisce allora il comportamento dell’ospedale, il mistero sulle analisi e le diagnosi. La diffidenza è d’obbligo.
Tenuto conto della diffidenza nei confronti dello Stato e nell’interesse della guarigione di Navalny, “sarebbe meglio che venisse curato in un altro Paese, sempre che le sue condizioni lo consentano”, ha twittato Alexei Venediktov, redattore capo della Radio Echo di Mosca. Ma la lunga mano dei servizi russi agisce impunemente anche fuori dei confini, come hanno dimostrato i casi di Alexsandr Litvinenko, ex Kgb (come Putin) avvelenato a morte con il polonio nel novembre del 2006, e di Sergej Skripal, avvelenato a Salisbury nel marzo del 2018 con un agente neurotossico, assieme alla figlia (scampati perché ricoverati in tempo); infine, stessa sorte è toccata a Piotr Verzilov, fondatore di Mediazone, sito d’opposizione, avvelenato all’uscita di un tribunale di Mosca nel settembre del 2018, trasferito in un ospedale a Berlino dove si è salvato.
In questo caso, i sospetti si sono focalizzati sui medici, sebbene le analisi non abbiano trovato tracce di sostanze tossiche. Oggi Verzilov ricorda che allora i servizi segreti avevano bloccato gli accessi all’ospedale e che “mi ero ritrovato in rianimazione, proprio come sta succedendo a Navalny. Così c’è stato il tempo che serviva perché il mio organismo assorbisse le tracce della sostanza tossica” (lo potete leggere su Twitter). Morale della favola: l’Orso russo ha artigli che Lucrezia Borgia gli fa un baffo.

Mascherine, perché si. - fb

Senza mascherina: quando si rischia una sanzione di 400 euro - La ...

Mi spiace ma occorre precisare perché oggi, Agosto 2020, decido di continuare ad usare la mascherina.
Sul serio, non capisco la rivolta sull'obbligo di indossare una mascherina...
Ognuno ha una sua opinione, questa è la mia:
- in macchina indossi la cintura?
- in moto indossi il casco?
- su una barca indossi il tuo giubbotto a vita?
- nei ristoranti ancora non fumi?
- in aereo allacci la cintura?
Tutto questo è obbligatorio!
Ma solo la mascherina è una dittatura????
Quando indosso una maschera in pubblico e nei negozi, voglio che tu sappia che:
🔵 Sono abbastanza educato da sapere che posso essere asintomatico e darti ancora il virus.
🔵 No, non vivo nella paura del virus; voglio solo far parte della soluzione e non del problema.
🔵 Non mi sento come se "il governo mi stesse controllando". Mi sento come un adulto che contribuisce alla sicurezza della nostra società e voglio insegnare allo stesso modo agli altri.
🔵 Se tutti potessimo convivere con un po ' più di attenzione agli altri, il mondo sarebbe un posto migliore.
🔵 Indossare una mascherina non mi rende debole, spaventato, scemo o nemmeno ''controllato". Questo mi rende premuroso per la situazione ma anche per gli altri!
🔵 Quando pensi al tuo aspetto, al tuo disagio o all'opinione che gli altri hanno di te, immagina che ci sia un vicino di casa - un figlio, un padre, una madre, un nonno, una zia, uno zio o un amico che è col respiratore installato, intubato. Morire completamente da solo senza che a nessun membro della famiglia possa essere permesso di avvicinarsi al suo letto.
🔵 Chiediti se avresti potuto aiutarli almeno un po, magari con una mascherina.

Copiato da fb.

Quando Salvini pestò la Nutella e altri harakiri. - Andrea Scanzi

Il condominio risarcisce il danno a causa della caduta per la ...

Spallata, che cilecca - Il giorno delle dimissioni di Conte inanella solo faccette. Da lì non ne ha più indovinata una, passando dai flop tv alle mandrie “no mascherina”.
Domani ricorrerà il Primo Anniversario della Liberazione dal Cazzaro Verde. Poco dopo essersi suicidato al Papeete, Matteo Salvini ricevette il supplizio per mano di Giuseppe Conte. Era, appunto, il 20 agosto. E una simile selva di badilate non si vedeva dai tempi del primo Mike Tyson. Da allora, Salvini non ne ha più indovinata una. E a difenderlo sono rimasti giusto la Maglie, Bechis e Senaldi. Cioè nessuno. Scegliere le peggiori dieci bischerate di quel che resta del Cazzaro è opera improba, perché lui ne combina mille al giorno. Limitiamoci, quindi, a una delle molte possibili “top ten dell’insipienza politica totale” regalateci da questo diversamente baldanzoso figuro che, da un anno, barcolla ma non molla.
1. Non si può non partire da qui: proprio da quel fiammeggiante 20 agosto. Sottovalutando clamorosamente Conte, Salvini lo avvicina sorridendo e gli sussurra qualcosa all’orecchio. Dietro di loro, l’ex ministro (aiuto…) Giulia Bongiorno ride oltremodo rapita: poco dopo, sghignazzeranno entrambi assai meno. A ogni scudisciata di Conte, ritenuto fino a quel punto un mezzo coglione da tutte quelle Marianna Aprile che cincischiano di politica come Paolo Fox di astrologia, Salvini – sedutosi genialmente alla sua destra, e dunque sempre inquadrato mentre l’altro parlava in piedi – si contorce e sbuffa. Soffre e si dimena. Annaspa e implode. Per poi esplodere in una gamma pietosa di faccette alla D’Urso. Ecco: Salvini, politicamente, è morto lì. E la cosa incredibile è che nessuno, tra i suoi “amici”, ha ancora avuto il coraggio di dirglielo.
2. Salvini, prima di quell’agosto del suo scontento, in tivù era bravissimo. Soprattutto nei testa a testa. Poi, da settembre, ha cominciato a prenderle da tutti. Botte come se piovesse. A Cartabianca (lo confesso: c’ero anch’io e quella volta peccai senz’altro di eccessivo ardimento). Da Floris, dove dà quasi sempre il peggio di sé. Da Gruber. Per questo, dal 2020, andrà quasi solo a casa sua. Cioè Rete4, D’Urso o “Non è l’Arena è Salvini” (cit Travaglio).
3. Compulsivo dei social, nell’ennesimo rigurgito di sovranismo a caso attacca la Nutella perché non usa nocciole italiane. Poi, resosi conto che la Nutella è un colosso, chiede scusa e fa un mestissimo tweet riparatorio in cui troneggia accanto a dolciumi cioccolatosi. Ah: le foto in cui si strafoga di qualsivoglia cibo, possibilmente ipercalorico, dopo il Papeete si intensificano. A conferma di come anche Salvini affoghi le sue pene nel cibo. E quel suo sbarazzino triplo mento (chiaro tributo a Jabba The Hutt) ce ne dà in questo senso orgogliosissima conferma.
4. Ospite di Bruno Vespa, dice che guardando la Madonna di Medjugorje ha capito che Conte è uno che mente. È a quel punto che, da un punto non troppo lontano, si sente avvicinarsi un plotone misericordioso di ambulanze.
5. Convinto di stravincere le elezioni in Emilia Romagna (con la Borgonzoni!), il Cazzaro Verde fa il ganassa e si mette a suonare il citofono di sedicenti criminali (che criminali non sono) tunisini. È uno dei punti più bassi nella storia dell’umanità. Ma Salvini continuerà a scavare ancora.
6. La pandemia devasta quel che resta del “leader” della Lega (parentesi: se non avesse sbagliato tutto ad agosto, questo qua ci avrebbe governato durante il lockdown. Aiuto!). Uno dei primi cedimenti strutturali si rileva quando il Nostro straparla di un “foglio” che esiste in Svizzera: tu lo compili e – zac! – lo Stato ti regala subito 500 milioni, tre Rolex, 4 Lindt e una mucca pezzata in scala 1:12. Daje.
7. In pieno lockdown, propone genialmente di permettere agli italiani di andare a messa con Pasqua. Giusto per aumentare i contagi e, con questo, mettere ancor più a dura prova la fede di noi tutti.
8. Dal 2 giugno in poi, Salvini se ne frega delle regole e organizza assembramenti a getto continuo. Per motivi insondabili, nessuno lo multa. Arriva pure a partecipare a un raduno di casi umani (fatte salve alcune eccezioni) al Senato. Una mandria di no mask, negazionisti, nature morte e complottisti alla canna del gas. Il circo Barnum dei citrulli.
9. Zimbellato da Floris, si fa ridere dietro da tutti dimostrando di non avere ancora capito che la mascherina va usata anzitutto quando sei vicino a una persona (ancor più se sconosciuta) e gli sputicchi in faccia mentre ci parli.
10. Con fare bulimico e compulsivo, si scofana otto chili di ciliegie mentre Zaia accanto a lui parla di bambini morti. Poi, il giorno dopo, a Sky nega tutto: “Ma dai, secondo lei io mi metto a mangiare ciliegie mentre si parla di bambini morti? Via, su”. La giornalista, cristianamente, capisce che di fronte a un uomo in uno stato così confusionale persino Basaglia avrebbe avuto problemi. E quindi neanche replica. Aiutatelo. O magari no.

Milano, Sala è “stanchino”. Nel Pd la guerra dei 2 Pier. - Gianni Barbacetto

Milano, Sala è “stanchino”. Nel Pd la guerra dei 2 Pier

Il sindaco vuole tornare a fare il manager, la coalizione già scricchiola.
Nessuno, nelle stanze della politica milanese, si è stupito per l’articolo del Fatto quotidiano che due giorni fa raccontava che Giuseppe Sala non ha voglia di ricandidarsi per il secondo mandato a sindaco di Milano. “È un segreto di Pulcinella”, dice un giovane esponente del Pd, “sappiamo tutti che Beppe è stufo di passare molte ore ogni giorno nel suo ufficio di Palazzo Marino e che da tempo sta cercando alternative di vita”. Da cinque anni sta facendo il lavoro più noioso e peggio pagato della sua carriera. Ora vuole cambiare. Ha ripetuto, nei mesi scorsi, una frase già pronunciata da Grillo: “Sono un po’ stanchino”.
Gli piacerebbe molto tornare a fare il manager in un business strategico come le telecomunicazioni, alla guida della Tim 2 che potrebbe nascere dallo scorporo delle reti Telecom, sotto la regia di Cassa depositi e prestiti. È il progetto che piace molto a Beppe Grillo, che Sala è andato a incontrare il 10 agosto nella sua casa di Marina di Bibbona, sul litorale livornese. È anche il sogno – segreto ma non troppo – di Sala, che ne ha parlato con più d’un interlocutore. Il sindaco sa però che Tim 2 è un piano ambizioso e ancora tutto da costruire. Sta dunque considerando anche altre alternative a Palazzo Marino, più politiche. È disponibile ad andare a Roma a fare il ministro in quota Pd, nel caso di un prossimo rimpasto di governo. È tentato comunque dal giocare un ruolo politico nazionale, diventando per il Partito democratico – oggi molto “sudista” – il punto di riferimento per un fronte del Nord: non gli dispiacerebbe insomma essere per il Pd di Nicola Zingaretti quello che Luca Zaia è per la Lega di Matteo Salvini. Sta considerando molte strade, Sala, tutte aperte e tutte da costruire pazientemente. Con il Partito democratico nazionale che invece sta facendo di tutto per farlo restare a Milano: per non avere un ennesimo leader a Roma a competere con gli altri leader; ma soprattutto per non rischiare di perdere Milano, che senza la ricandidatura di Sala nella primavera del 2021 potrebbe finire nelle mani del centrodestra. Più pragmatici i “ragazzi” del Pd milanese, che da tempo si stanno preparando all’eventualità che “Beppe” – di cui rispettano la forza, ma che in fondo hanno sempre considerato un estraneo a casa loro – non si ricandidi. Se corre per il secondo mandato, la coalizione che lo sostiene resterà unita, Pd, civici, renziani di Italia viva, radicali, Più Europa…; se imboccherà altre strade, l’alleanza salta e ognuno farà il proprio gioco. Ada Lucia De Cesaris, già vicesindaco di Giuliano Pisapia con ambizione (frustrata) alla sua successione, è pronta a candidarsi come sindaco. Per piantare la bandiera di Italia viva a Milano, ma soprattutto per non lasciare la strada tutta in discesa ai “due ragazzini” del suo ex partito, il Pd: Pierfrancesco Majorino e Pierfrancesco Maran. Sono “i due Pier” già pronti a sostituire “Beppe”. Il primo, ex assessore all’assistenza, oggi è parlamentare europeo, eletto con ben 90 mila preferenze, ma non ha smesso un minuto di presidiare Milano. Il secondo, assessore all’urbanistica, sta seguendo tutte le grandi partite immobiliari, dall’area Expo agli scali ferroviari fino al nuovo San Siro, cercando di ammantare di verde milioni di metri quadri di nuove edificazioni. Il primo presidia l’ala sinistra, il secondo l’ala destra. “I due Pier” si dovranno confrontare nelle primarie, unica strada per dirimere ambizioni personali e scontri politici interni e trovare un candidato sindaco da presentare alla città. Le primarie potranno essere arricchite da altri partecipanti possibili, come (sull’ala sinistra) Paolo Limonta, maestro e assessore alla scuola, e (sull’ala destra) Anna Scavuzzo, vicesindaco di Sala e assessore alla sicurezza. Più difficile la discesa in campo di “indipendenti” e rappresentanti della cosiddetta società civile, anche se circolano i nomi di Tito Boeri, economista ed ex presidente dell’Inps, e di Ferruccio Resta rettore del Politecnico, che curiosamente è accreditato come candidato sia per il centrosinistra sia per il centrodestra.
Il gran rifiuto di Sala, insomma, aprirebbe conflitti e incertezze tali da poter aprire la strada al ritorno della destra a Palazzo Marino. Per questo il Pd nazionale ha già cominciato il pressing sull’attuale sindaco per convincerlo a restare: anche l’altro Beppe (Grillo) si era detto “un po’ stanchino”, ma non si è affatto tolto di mezzo.