venerdì 21 agosto 2020

La ’ndrangheta, il tradimento di Gelli e la “spallata finale” allo Stato pianificata dalle mafie del Sud. - Lucio Musolino

La ’ndrangheta, il tradimento di Gelli e la “spallata finale” allo Stato pianificata dalle mafie del Sud

La deposizione di Giuliano Di Bernardo, ex gran maestro del Grande Oriente d’Italia, nel processo “’Ndrangheta stragista”: “Gelli si mette a fare affari in tutto il mondo…cioè, tradisce gli americani, e mettendo da parte il fine politico, per favorire quelli suoi, economici, e del suo gruppo”.
“Licio Gelli è stato inventato dalla Cia, dagli americani. Inventato. Inventato, perché il governo americano aveva perso fiducia in Moro e Andreotti, e quindi cominciava a temere che in Italia ci potesse essere il sorpasso comunista”. Sono le parole di Giuliano Di Bernardo nel processo “’Ndrangheta stragista”, concluso il 24 luglio con l’ergastolo inflitto al boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e a Rocco Santo Filippone, espressione della cosca Piromalli. Entrambi sono stati condannati, in primo grado, perché mandanti del duplice omicidio dei due carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo avvenuto il 18 gennaio 1994. Un agguato che, assieme agli attentati ad altre due pattuglie dell’Arma, rientrava nelle cosiddette “stragi continentali” e, quindi, nella “strategia stragista” di Cosa nostra e ‘Ndrangheta contro lo Stato. Una partita a scacchi in cui, dietro i clan, si nascondeva un mondo in giacca e cravatta fatto di politici, imprenditori e uomini delle istituzioni che di giorno si battevano il petto sulle bare dei morti ammazzati dalle bombe e di notte tramavano con boss e pezzi deviati dello Stato per organizzare quella che il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, nella sua requisitoria, ha definito “la spallata finale alla prima Repubblica”. Un mondo che, sotto la giacca, non aveva solo la cravatta ma spesso nascondeva anche la squadra e il compasso.
Ecco perché la deposizione di Giuliano Di Bernardo non è casuale nel processo che potrebbe riscrivere una delle pagine più buie del nostro Paese. Fino al 1993, infatti, Di Bernardo è stato il gran maestro del Grande Oriente d’Italia da cui è uscito dopo aver percepito “una sorta di compenetrazione fra una certa massoneria e la criminalità organizzata, specie calabrese”.
Dal racconto di Di Bernardo, che nel 2002 fondò la Gran Loggia Regolare d’Italia, emerge non solo che le mafie avevano infiltrato le logge ma anche come all’inizio degli anni novanta massoneria, ‘Ndrangheta, Cosa Nostra e destra eversiva erano impegnate a sostenere i movimenti separatisti siciliani e meridionali. Stando alle carte della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, un ruolo fondamentale in queste manovre è stato quello di Licio Gelli.
Per capire il perché è necessario andare oltre i “papelli” con le condizioni che i mafiosi siciliani volevano imporre allo Stato Italiano, oltre la “falsa politica” della ‘ndrangheta e oltre qualsiasi altra inconfessabile trattativa tra le istituzioni e la criminalità organizzata.
In gioco c’era anche altro e quest’altro passava per l’universo “gelliano” della P2. Ricomporre il puzzle non è semplice per il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo: inserire i tasselli uno dopo l’altro potrebbe fornire un disegno inquietante rispetto alla versione confezionata degli ultimi 50 anni.
Ecco quindi che i verbali dell’ex gran maestro del Goi Giuliano Di Bernardo, poi confermati in aula davanti alla Corte d’Assise, rischiano di aprire uno squarcio su un sistema in cui il ruolo di Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone è certamente di primo livello ma quantomeno pari a quello dei “suggeritori occulti”, menti raffinate che assieme ai boss componevano quella che la Dda di Palermo, nell’inchiesta “Sistemi criminali”, aveva definito “super-struttura eversiva in cui erano confluite, mafie, massoneria deviata, politici collusi, uomini legati a servizi di sicurezza e a Gladio”. In sostanza uomini che sussurravano all’orecchio dei mammasantissima per creare le “condizioni politiche che garantissero ancora agibilità e potere alle forze illegali che avevano prosperato nel Paese fino a quel momento”.
“Gelli – dice Di Bernardo rispondendo alle domande del procuratore Lombardo – è stato il referente unico, esclusivo, del governo americano, per evitare che in Italia si facesse il sorpasso dei comunisti. Quindi, Gelli ha avuto montagne di dollari, ma soprattutto il governo americano, la Cia, l’Fbi, questi… hanno messo all’obbedienza di Gelli i vertici italiani: i vertici economici, i vertici militari, i vertici della magistratura, i vertici, li hanno messi tutti alla sua obbedienza. Che lui iniziava all’”Excelsior” di Roma, col gran maestro Gamberini. Quindi, questo uomo, all’improvviso, si è ritrovato un potere come penso nessun altro abbia mai avuto in Italia. Tutto questo doveva servire per evitare il sorpasso. Si parla lì di questo progetto politico di Gelli”.
Il riferimento è al famoso “piano di rinascita democratica” redatto dal “burattinaio” Licio Gelli, l’ex “Venerabile” della loggia P2: “La realtà è sempre più banale di quello che si può pensare. – è Giuliano Di Bernardo che parla – Gelli si era impegnato a modificare l’Italia per evitare il sorpasso (comunista, ndr). Però, Gelli, quando riceve i soldi dagli americani, fa i suoi affari in diversi paesi del mondo… Non pensa allo scopo fondamentale, che avrebbe dovuto invece interessarlo. Gli americani cominciano a sollecitarlo e allora lui, come ha confidato a qualche suo collaboratore, che poi è arrivato anche a me, non ce la faceva più di queste sollecitazioni degli americani, si è messo a scrivere, così, a caso, un progetto”.
La realtà, quindi, è diversa per l’ex gran maestro del Goi Di Bernardo: “Gelli si mette a fare affari in tutto il mondo…cioè, tradisce gli americani, e mettendo da parte il fine politico, per favorire quelli suoi, economici, e del suo gruppo”.
Per questo motivo era stato allontanato dal Goi dove, però, voleva rientrare a tutti i costi: “Gelli aveva la sua base all’interno del Grande Oriente. Gelli ritiene che ogni uomo sia comprabile, ecco, e mi fa fare la domanda: ‘Decidi tu la somma, fissa tu. Se tu lo fai rientrare, Gelli ti dà questa somma’ – è sempre il racconto di Di Bernardo – E io gli feci rispondere: ‘Gelli forse ha comprato tanti, ma certamente non comprerà me’. Poco dopo ritorna la stessa persona, con un’altra proposta, per indurmi a farlo rientrare, e mi dice: ‘Gelli, in cambio del tuo appoggio a farlo rientrare, metterà a tua disposizione l’elenco vero della P2, con i relativi fascicoli’.
Una frase che non lascia adito a dubbi, ma il pm Lombardo vuole cristallizzare un dato importante che proviene da chi conosce il mondo della massoneria dal suo interno.
“L’elenco vero significa non quello sequestrato dalla magistratura?”. Il magistrato fa lo stesso la domanda e la risposta è secca: “No, no. Quello è solo parziale. Io sono arrivato alla conclusione che è solo parziale. Gelli mi fa dire da questo suo emissario che avrebbe messo a mia disposizione, mi avrebbe dato il vero elenco, con i relativi fascicoli. E aggiunge: ‘In questo modo, potrai ricattare tutta l’Italia’”.
Di Bernardo quell’elenco lo rifiutò e al momento si può solo intuire il contenuto di quei fascicoli. Per farlo il testimone della Procura ricorda un incontro avuto con il segretario personale dell’ex gran maestro Battelli: “Chiede di incontrarmi perché voleva fare una dichiarazione al gran maestro da firmare. Infatti, lo incontro, e mi dice che una sera Gelli si presenta nello studio del gran maestro Battelli, con un grosso fascicolo, e gli dice: ‘Questo è l’elenco della P2’. Battelli comincia a sfogliarlo, e, come sostiene il suo segretario, diventa di tutti i colori. Alla fin fine Battelli, dopo aver letto, chiude e dice a Gelli: ‘Riprendilo, questo io non l’ho mai visto’. Dopo commenta col suo segretario: ‘Le cose che… i nomi che ho visto lì, non li voglio neanche dire a te. Io, quel fascicolo, non l’ho mai visto’. Quindi, il segretario di Battelli si è sentito in dovere di fare a me questa dichiarazione scritta, per dirmi: ‘Guarda che…’, allora, dalla stessa ammissione di Gelli, che mi voleva dare l’elenco completo con i fascicoli, alla testimonianza di questo… io ho la convinzione che il vero elenco esiste, ma non sappiamo dov’è, ecco”.
Tutto ovviamente è avvenuto dopo che la loggia P2 era stata sciolta: “Ah, certo…. Per sciogliere la P2 era stata necessaria la legge ‘Spadolini-Anselmi’. Quella legge non scioglie proprio nulla, e non scioglie nulla perché contiene una contraddizione che contrasta anche con un articolo della Costituzione… perché la legge ‘Anselmi’ è stata scritta da massoni. In modo particolare dal professor Paolo Ungari”.
Caduto dalla tromba dell’ascensore al terzo piano di un palazzo vicino al Campidoglio, il consigliere parlamentare della Camera dei deputati e docente universitario Paolo Ungari è morto nel 1999. Come ha chiesto nel testamento redatto sei anni prima, sulla sua lapide c’è scritto solo “maestro massone”.
Lo ricorda bene Di Bernardo: “Avevo conosciuto Paolo Ungari all’università di Trento, dove io appunto ho insegnato per tutta la mia vita…Poi ci siamo ritrovati dopo la mia elezione a gran maestro del Grande Oriente e così, parlando del più e del meno, mi disse: ‘Non si sono ancora accorti…’, ecco, qui stiamo parlando del 1991.. ‘che la legge Anselmi non solo non consente di sciogliere la P2, perché il secondo capoverso contrasta col primo, ma è addirittura incostituzionale, perché contrasta con un articolo della Costituzione sulle libertà di associazione’. Ecco, e disse: ‘Vediamo quanto tempo passerà prima che se ne accorgano’. Qualcuno prima o poi dovrà prendere in mano (quella legge, ndr)”.
Gelli, massoneria deviata e anche ‘ndrangheta: il “Venerabile” aveva un’influenza, “anche indiretta”, sulle dinamiche criminali calabresi come spiega il collaboratore di giustizia Consolato Villani, uno dei killer che sparò ai due carabinieri nel gennaio 1994, nelle sue dichiarazioni sull’omicidio di Lodovico Ligato, il deputato della Dc ed ex presidente delle Ferrovie dello Stato ucciso il 27 agosto 1989 a Bocale, nella periferia sud di Reggio Calabria.
“La stanza dei bottoni che comanda sulla ‘Ndrangheta militare, – dice Villani – è quella di cui facevano parte l’avvocato De Stefano, Paolo Romeo e l’onorevole Ligato, ucciso per indebolire proprio i De Stefano: tale sistema è necessario anche al fine di controllare gli esponenti politici compiacenti. Tanto l’avvocato Paolo Romeo che l’avvocato Giorgio De Stefano facevano parte della P2 di Licio Gelli che spesso si recava a Reggio Calabria”.
Il verbale di Villani fa il paio con quello di uno dei primi collaboratori di giustizia, Filippo Barreca che, già nel gennaio 1995, aveva riferito sull’esistenza, sin dai “primi mesi dell’anno ’79”, di “una loggia segreta a Reggio Calabria… a cui appartenevano professionisti, rappresentanti delle istituzioni, politici e, come detto, ‘ndranghetisti”.
A costituirla, stando alle dichiarazioni del pentito, era stato “Franco Freda…nel contesto di quel più ampio progetto nazionale” al quale avevano aderito “le più importanti personalità cittadine” tra cui anche “Lodovigo Ligato, l’onorevole Paolo Romeo, l’avvocato Giorgio De Stefano… e taluni componenti della loggia appartenevano anche alla P2…la loggia, peraltro, aveva stretti rapporti con la massoneria ufficiale. Le competenze della loggia, come detto, si fondavano su una base eversiva. Ma, prevalentemente, la loggia mirava: ad assicurarsi il controllo di tutte le principali attività economiche, compresi gli appalti, della provincia di Reggio Calabria; il controllo delle istituzioni a cui capo venivano collocate persone di gradimento e facilmente avvicinabili; l’aggiustamento di tutti i processi a carico di appartenenti alla struttura”.
Se questo avveniva in riva allo Stretto alla fine degli anni 70 e per tutti gli anni 80, la situazione era sovrapponibile al resto dell’Italia: la caduta del muro di Berlino e lo sgretolamento della Democrazia Cristiana hanno solo confermato la “rete di potere di Licio Gelli e i suoi duraturi rapporti con le mafie e l’eversione”.
“La congiuntura internazionale – scrive il procuratore Lombardo nella sua requisitoria – non era neanche tale da fare sperare, a Gelli e ai mafiosi, in un placido ritorno al passato. La fine della guerra fredda e del comunismo, non solo depotenziavano il valore politico aggiunto o se si vuole, la rendita politica, rappresentata, per l’appunto, dall’anticomunismo (che sia per Gelli che per le Mafie era stato un utile pretesto per legittimare il loro potere) ma prefiguravano equilibri politici diversi e, in particolare (come poi in effetti è successo) il superamento della cosiddetta ‘democrazia bloccata’ che aveva caratterizzato fino a quel momento la storia repubblicana”.
In altre parole, “il prevedibile (e, poi, realizzatosi) sfarinamento di quelle forze politiche, il contestuale manifestarsi al loro interno di forze antimafia e di forze che si erano opposte all’influenza di poteri extra-ordinem, per due poteri reali ed effettivi (quali quelli incarnati da Gelli, e quindi dalle massonerie deviate e dai pezzi di istituzioni che gli erano rimasti vicini, e dalle mafie) rendeva vieppiù necessario dare una ulteriore spallata al sistema e contribuire alla creazione di una nuova rappresentanza politica con cui interloquire. E se queste sono le ragioni della convergenza d’interessi fra Gelli, il suo sistema di potere e le mafie, fatti concreti ed emergenze investigative, consentono di affermare che il collante, il regista (almeno in una fase iniziale) del leghismo meridionale, colui che fu capace di mettere insieme tutte le eterogenee componenti di tale movimento e, quindi, anche, colui che fu capace di cogliere il momento di frizione e rottura fra le mafie e la vecchia classe politica agevolando l’adesione di queste ultime al progetto “federalista”, fu proprio Licio Gelli”.

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