venerdì 26 aprile 2024

Socrate. - Guendalina Middei

 

Lo sapevate che… Socrate aveva una tecnica per gestire gli scocciatori. Vi è mai capitato durante una discussione che l’altro vi urli addosso per dimostrare di avere ragione? Non c’è niente di più insopportabile, vero?

Ecco, un giorno Socrate venne aggredito da un uomo. Era un uomo rozzo, incivile che, avuta la peggio nella discussione, arrivò perfino a schiaffeggiarlo. Ancora oggi ci sono tante persone così, persone quando non sanno come argomentare le loro idee, diventano aggressive. Ma come reagì Socrate? Non fece nulla! Non gridò, non ricambiò la violenza, nulla. Uno dei suoi discepoli si meravigliò dell’atteggiamento di Socrate, ma il grande filosofo gli rispose: «se mi avesse preso a calci un asino, l'avrei forse condotto in giudizio?»

Cosa vi sta dicendo Socrate? Che una persona intelligente non può abbassarsi al livello di un idiota. Alle volte il silenzio è la risposta più elegante. Non a caso la parola eleganza deriva dal latino eligere, da ex (tra) e ligere(scegliere). Che significa? Che una persona elegante non è chi indossa abiti firmati o chi possiede oggetti costosi, ma chi sa scegliere. Come comportarsi, quando parlare, quando tacere.

Gli ignoranti, i maleducati, gli incivili sono sempre esistiti. Oggi a differenza dei tempi di Socrate sembrano essersi moltiplicati. I social hanno legittimato l’aggressività verbale. O pensate alla televisione, una babele moderna dove chi parla deve manifestare la propria superiorità gridando e insultando il proprio interlocutore. Ogni giorno vanno in scena tali deprimenti siparietti: adulti che non fanno che gridare perché non hanno la capacità di confutare con pacatezza il loro avversario.

Ecco, a me è capitato di ricevere insulti davvero pesanti qui sui social. E allora incominci a perdere la pazienza, ti viene quasi voglia di ribattere a questi «leoni da tastiera» che ti sputano addosso il loro veleno. Ma sapete una cosa? In quei momenti faccio un lungo respiro e ripenso alle parole di Socrate. O per dirla come Shaw: «Ho imparato tanto tempo fa a non fare lotta con i maiali. Ti sporchi tutto e, soprattutto, ai maiali piace».
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Guendalina Middei, anche voi mi conoscete come Professor X ➡️ Se vi piace ciò che pubblico, potete trovarmi anche su Instagram, dove vi parlerò dei grandi classici, mi trovate a questo link: https://www.instagram.com/ilprofessorx

#letteratura #cultura #social #filosofia 

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mercoledì 24 aprile 2024

Chi o cosa era Quetzalcoatl? Un dio del cielo appariscente che presumibilmente si è alzato nei cieli con la promessa di tornare. - Aaron Long

 

Il dio solare atlantideo Quetzalcoatl, conosciuto come il "Serpente piumato" fu il fondatore delle civiltà azteche, Maya e Mesoamericane. Riconosciuto come il Dio Bianco arrivato nell'odierno Messico con un gruppo di compagni della "Terra situata oltre le acque", Quetzalcoatl è stato descritto come indoeuropeo nell'aspetto ed era "di un aspetto piacevole e di una disposizione seria. Il suo volto era bianco e indossava la barba. Il suo modo di vestire consisteva in una lunga vestaglia fluente. ” (Ixtlilxochitl: 45).
Quetzalcoatl è stato nominato "Serpente piumato", "piumato" perché è arrivato attraverso l'aria e "serpente" simboleggiando la sua saggezza divina, "Tutto in tutto". È uno dei quattro figli di Ometecuhtli e Omecihuatl, i quattro Tezcatlipocas, che presiedono ciascuno una delle quattro direzioni cardinali. Quetzalcoatl era il dio della stella del mattino con suo fratello gemello Xolotl che era la stella della sera e si credeva venisse dalle stelle, arrivando in Mesoamerica attraverso dischi di luce, di nuovo eccoci presentati con possibili mestieri.? Tra i gruppi esoterici in Messico, si crede che Quetzalcoatl "venere da Venere, essendo entrato attraverso Venere. questo dio apparentemente stupefacente era il leader supremo e sacerdote delle razze mesoamericane, riconosciuto per aver portato loro il dono della civiltà, dando loro nuove invenzioni e strumenti, dando loro spiritualità ed educazione insieme alla costruzione delle grandi piramidi del Messico come Teotihuacan nel 600 a.C. Quelli che abitavano la città di Teotihuacan arrivò prima dei Toltechi e dei Mesoamericani, condividendo una comune origine iperborea. Sebbene gli insegnamenti di Quetzalcoatl in seguito degenerati in un selvaggio culto del sangue che praticava sacrificio umano, cannibalismo e continue guerre contro le tribù vicine, in origine era venerato da "un tipo di culto castrato che era di natura pacifica, contemplativa e auto-mortificante". Seguendo il suo governo sul popolo mesoamericano, Quetzalcoatl tornò nella terra sacra situata ad est dell'America, sulla sede atlantica. Il Codice Mesoamericano Chimalpopoca descrive questa terra come la "Terra del Sole" o la "Terra Rossa" alla quale Quetzalcoatl e tutti gli eroi leggendari tornarono. Un altro dio bianco barbuto di nome Hernan Cortes arrivò in Mesoamerica nel 1519, venendo ricevuto come ritorno di Quetzalcoatl che venne a ristabilire il suo dominio. Una delle ragioni principali per cui Cortes e le sue poche centinaia di uomini furono in grado di conquistare il Messico era la convinzione che fosse di nuovo un divino Dio bianco (chiedo chi erano questi presunti dei bianchi? ). Francisco Pizarro e i suoi uomini furono ricevuti allo stesso modo dagli Inca. Furono accolti come Viracochas, a causa della loro pelle bianca che assomigliava al loro creatore Dio Viracocha. Vale anche la pena di notare che Quetzalcoatl potrebbe presumibilmente trasformare l'aspetto in quello di un serpente piumato o di forma umana insieme a molti altri tratti che significa che Quetzalcoatl potrebbe essenzialmente cambiare forma, chiedo quale essere intelligente potrebbe mai essere capace di tali imprese?
Potrebbe essere che i Maya e le tribù mesoamericane abbiano frainteso gli ordini e gli insegnamenti degli dei in merito al sacrificio umano? Era davvero questo ciò che una potenziale civiltà avanzata in grado di attraversare le stelle ha istruzioni? Sono fermamente convinto che queste tribù si siano spinte troppo per convincere questi maestri supremi che avevano insegnato loro la conoscenza su vari elementi importanti sacrificando i loro corpi nella speranza di un ritorno immediato. Possiamo davvero dire che i Maya e innumerevoli altre tribù nella storia stavano tutti immaginando questi dei.? Secondo questa opinione degli scrittori ci sono troppe prove sulla superba attenzione dei Maya che puntano verso il cosmo, nonostante il perfetto allineamento delle piramidi in Sud America che assomigliano a quelle piramidi dell'antico Egitto che suggeriscono gli stessi insegnanti.? Alla fine, se fossi responsabile di tali imprese monumentali non ci stamperesti il tuo nome sopra? La risposta ovvia sarebbe un clamoroso sì, eppure i Maya o gli antichi Egizi no, hanno semplicemente attribuito tutte queste opere agli dei. Quetzalcoatl aveva promesso di tornare un giorno come tanti altri, dobbiamo poi porci la domanda, come sarà Quetzalcoatl.? Riconosceremmo questo dio.? Metto l'accento sul riconoscere, perché dobbiamo ricordare che Quetzalcoatl potrebbe apparentemente cambiare forma a piacimento. O forse questa abilità di mutaforma era semplicemente un'interpretazione errata dei Maya di Quetzalcoatl a bordo di un dispositivo volante messo in completo abito da astronauta che includeva l'elmo descritto e interpretato come una testa di serpente piumata?
(Di Aaron Long)


Le immagini riportate suscitano tanti interrogativi ai quali attribuiamo spiegazioni teoriche, ma lontane, suppongo, da quella che potrebbe essere la realtà.
cetta.

martedì 23 aprile 2024

Alzheimer, scoperto il gene che protegge dalla malattia: come funziona. - Federico Mereta - GIORNALISTA SCIENTIFICO

 

Il gene, una specie di “scudo” protettivo per il cervello, è stato identificato dagli esperti dell’Università Columbia, analizzando il patrimonio genetico di circa 11.000 persone.

A volte, ci sono notizie che offrono molte speranze. Ma che vanno prese con le pinze. Perché dalla semplice lettura di uno studio scientifico, che pure riporta un’indicazione di grande importanza, può essere difficile passare alla realtà pratica. Così occorre osservare con grande attenzione lo studio apparso su Acta Neuropathologica in cui si descrive l’identificazione di un gene in grado di ridurre il rischio di sviluppare la patologia di Alzheimer fino al 70%.

L’osservazione è di grande importanza scientifica, ma in tempi brevi difficilmente potrà diventare la base per modificare qualcosa nell’approccio alla malattia. Insomma, ci vorrà tempo per pensare ad un utilizzo pratico di questa scoperta. E soprattutto non si può immaginare che questa osservazione consenta di porre uno “scudo” per tutte le persone destinate ad ammalarsi. Per questo è importante continuare a puntare sulla classica prevenzione del decadimento cognitivo.

Cosa accade in chi soffre di Alzheimer e quanti sono i malati

Pensate ad una nebbia che lentamente avvolge, il cervello e smorza la possibilità di interagire delle cellule, portandosi via ricordi, affetti e più in generale la memoria. Ecco, attraverso la perdita progressiva dei neuroni e delle loro connessioni, la malattia di Alzheimer conduce al decadimento cognitivo, che si realizza per l’ammassarsi di proteina beta-amiloide, appunto questa nebbia, che danneggia i neuroni. Anche perché non sempre, e non solo, è la malattia di Alzheimer a determinarlo. Stando a quanto riporta l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), più di un milione di persone in Italia farebbe i conti con una forma più o meno grave di decadimento cognitivo. E sarebbero circa 600.000 i pazienti con vera a propria malattia di Alzheimer.
Attenzione: non bisogna fare l’errore di considerare che questa condizione colpisca solamente chi ne soffre. In qualche modo, infatti, sempre in base a quanto segnalato sul portale Epicentro dell’ISS, considerando tutte le demenze sarebbero circa tre milioni i soggetti che nel nostro paese vengono coinvolte nell’assistenza a chi è malato.

Cos’è e come agisce il gene protettivo.

La variante genetica ad attività protettiva è implicata nella produzione di una particolare componente che entra in gioco nella formazione della barriera emato-encefalica. Questa sorta di “posto di blocco”, come un vero e proprio passaggio di frontiera, ha il compito di evitare che sostanze potenzialmente nocive, virus o batteri passino dal sangue al cervello. In pratica, quindi, la variante genetica che codifica per la fibronectina (questo il nome della sostanza che si ritrova in questa forma di “frontiera” biologica), aiuterebbe a realizzare un’ottimale pulizia del sistema nervoso, favorendo quindi il miglioramento dell’ambiente in cui questo opera.

Il gene che si può considerare una specie di “scudo” protettivo per il cervello è stato identificato dagli esperti dell’Università Columbia, analizzando il patrimonio genetico di circa 11.000 persone. Ma non basta. Oltre a identificare il piccolo tratto di Dna, gli studiosi hanno anche cercato di valutare in che modo questa potrebbe diventare un obiettivo per nuove terapie, capaci di avere un’azione simile a quella del gene stesso e quindi di mantenere “pulito” il cervello dalla beta-amiloide, sostanza che si accumula, proprio come un rifiuto, andando ad avvolgere progressivamente i neuroni. La fibronectina, inoltre, in genere tende ad aumentare significativamente nei soggetti con malattia di Alzheimer. La variante genetica che fa da “scudo” potrebbe impedire questo accumulo. Al momento gli studi sono stati condotti solo su modelli di laboratorio. E la teoria sembra reggere, facendo sperare in una cura che certo non appare dietro l’angolo.

Quanto conta la genetica nella malattia di Alzheimer.

Le stime dicono che mediamente un 10% dei casi di malattia di Alzheimer sembra avere un preciso percorso genetico. Soprattutto, non bisogna considerare che le forme di demenza di questo tipo interessino esclusivamente le persone molto anziane. O meglio: il rischio appare associato all’età che avanza, ma non si può considerare la carta d’identità l’unico parametro da tenere presente.

In questo senso, Amalia Cecilia Bruni, allora Presidente della SINdem (Società Italiana di Neurologia per le Demenze), qualche tempo fa ha raccontato come esistano, pur se molto rare, forme di demenza giovanili (Young Onset Dementia o YOD). La prevalenza di queste forme prevalenza cresce con l’età: tra i 30 e i 34 anni siamo a 6 soggetti su 100.000, tra i 34 e i 64 si sale a 119 su 100.000 per arrivare a 853 su 100.000 tra i 60 e i 64 anni”. Ovviamente, queste forme possono manifestarsi diversamente rispetto alle classiche patologie della terza età.

“I quadri clinici in queste forme sono prevalentemente atipici, spesso con disturbi psichiatrici col conseguente rischio di essere spesso misdiagnosticate – è il parere dell’esperta. Una quota non irrilevante ha un’importante componente metabolica come per esempio la malattia di Niemann Pick di tipo C, una forma tipicamente infantile che però presenta anche forme Late Onset (a tarda comparsa) che ricadono nelle YOD. Diversa è la situazione nelle demenze ad esordio tardivo, dopo i 65 anni, pur se l’allungamento della vita ha permesso di comprendere che anche in questo gruppo esiste una forte eterogeneità e che esistono forme negli oldest-old (>80 anni) particolari, identificate solo da studi neuropatologici. La malattia di Alzheimer è certamente la forma di demenza più prevalente, ma individuare le cure, nonostante i progressi degli ultimi tempi, è estremamente difficile”.

Le diverse “malattie” di Alzheimer.

La malattia di Alzheimer può iniziare come processo biologico nel cervello anche venti e più anni prima dell’esordio dei primi sintomi. Questo è ormai noto dagli studi condotti proprio su soggetti pre-sintomatici portatori di mutazioni genetiche. Queste è il grande problema in chiave di cura: anche instaurare una terapia all’esordio potrebbe rivelarsi una misura tardiva poiché l’esordio dei sintomi non corrisponde al vero inizio della malattia ed è da considerare piuttosto come il momento in cui il cervello non riesce più a compensare la malattia, un po’ come il vaso che trabocca quando ormai si è riempito da tempo. La stessa esperta spiega come non siamo affatto certi che il quadro che si manifesta nella Malattia di Alzheimer genetica sia lo stesso che si vede nella malattia di Alzheimer “sporadica”.  Non esisterebbe quindi una malattia di Alzheimer ma probabilmente occorre parlare di malattie di Alzheimer (diverse per localizzazioni e tipo di proteine aggregate).

Una formula matematica per la prevenzione.

Andiamo oltre la genetica. Il cervello è una struttura plastica in continua evoluzione e modulazione durante tutto l’arco della vita ed è dunque sensibile ad interventi che anche dall’esterno si possono riflettere sulla genetica, sul metabolismo e sulle connessioni neurali. In questo senso, si può riproporre una formula matematica semplice da ricordare: 12 per 40. Si tratta di un’informazione utile per prevenire le difficoltà cognitive in età avanzata, prima tra tutte la Malattia di Alzheimer. Se si riesce a controllare con le giuste abitudini gli elementi che potenzialmente possono favorire l’insorgenza di questi quadri, infatti, si può arrivare a ridurre anche del 40 per cento il pericolo di sviluppare quadri di questo tipo.

I 12 fattori di rischio

La segnalazione viene da un documento della Lancet Commission on Dementia Prevention, Intervention and Care. A parte la complessità scientifica delle informazioni, vale la pena di ricordare i dodici fattori di rischio su cui possiamo agire in chiave preventiva: si parte con la pressione alta, l’obesità, il fumo, il diabete, lo scarso movimento, l’abuso di alcol. Si passa attraverso veri e propri elementi medici, come la perdita dell’udito, che viene considerata particolarmente significativa tanto da diventare in quanto a “peso” statistico l’elemento in testa alla classifica, per arrivare alla depressione, ai traumi cranici, e all’abuso di alcolici. Infine, occorre prestare attenzione all’ambito sociale in cui vivono le persone: isolamento, istruzione carente e inquinamento ambientale.
Secondo gli esperti, non “sentire” come si dovrebbe, significa aumentare significativamente i rischi. Attenzione va prestata anche all’inquinamento, pur se le ricerche per valutare la correlazione tra i due elementi sono state condotte soprattutto sugli animali. Stando agli studi, infatti, l’esposizione ad inquinanti particolati nell’atmosfera accelererebbe i processi neurodegenerativi. E, come se non bastasse, il biossido d’azoto figlio dei tubi di scappamento quando in alte concentrazioni potrebbe essere, secondo la scienza, associato ad un maggior pericolo di sviluppare demenza.
Sia chiaro: si parla solamente di rischi più elevati che sarebbe meglio contrastare.

https://quifinanza.it/salute/alzheimer-gene-protettivo-scoperta/811500/

La scoperta del nitroplasto: un nuovo capitolo dell’evoluzione cellulare.

L’alga marina (Tyler Coale/UCSC)

Un batterio marino diventa un organulo in simbiosi con un’alga, rivoluzionando la fissazione dell’azoto e aprendo nuove prospettive evolutive.

Un evento straordinario, che si è verificato solo tre volte nella storia della vita sulla Terra, è stato recentemente documentato nuovamente. Un batterio marino è stato assorbito da un’alga ospite, coevolvendo con essa a tal punto da diventare un organulo, parte integrante della macchina cellulare dell’alga stessa. Questo fenomeno rende queste alghe i primi eucarioti noti per ospitare un organulo in grado di fissare l’azoto, un processo fondamentale per la vita.

Secondo Tyler Coale, autore principale di uno dei due recenti articoli sulla scoperta, è estremamente raro che gli organuli derivino da situazioni simili. La prima volta che ciò è accaduto ha dato origine alla complessità della vita, generando le mitocondri. Successivamente, si è verificato altre due volte, incluso oltre un miliardo di anni fa, segnando l’inizio della vita vegetale sulla Terra con l’avvento del cloroplasto.

Le basi per questa scoperta straordinaria sono state gettate quasi trent’anni fa, quando il Professore Jonathan Zehr dell’UC Santa Cruz e il suo team hanno identificato un nuovo cianobatterio nell’Oceano Pacifico capace di fissare l’azoto. Questo processo è cruciale poiché consente ai microrganismi di estrarre l’azoto dall’ambiente e combinarlo con altri elementi per formare composti azotati essenziali per la vita.

Il batterio è stato denominato UCYN-A e,contemporaneamente in Giappone, la paleontologa Kyoko Hagino stava studiando un’alga marina che si è rivelata essere l’ospite ideale per UCYN-A. Nel corso degli anni, il legame tra i due organismi è diventato sempre più chiaro agli occhi degli scienziati, fino a giungere alla conclusione che UCYN-A non è solo in simbiosi con l’alga ospite, ma è diventato parte integrante della cellula algal stessa, trasformandosi in un organulo.

 

In due nuovi articoli, pubblicati rispettivamente nel marzo 2024, team internazionali di ricercatori presentano le loro prove. Il primo articolo dimostra che UCYN-A e l’alga ospite, Braarudosphaera bigelowii, hanno dimensioni simili, indicando una connessione metabolica tra di loro, tipica degli organuli. Come afferma Zehr, è un adattamento alla cellula, simile a quanto avviene con i mitocondri e i cloroplasti.

Il secondo articolo fornisce prove che UCYN-A importa proteine dalle cellule ospiti, un chiaro segnale dello sviluppo dell’organulo. Attraverso l’analisi proteomica, Coale ha confermato che molte delle proteine essenziali per il funzionamento di UCYN-A sono prodotte all’interno dell’alga ospite e importate nel batterio. Zehr lo descrive come un puzzle magico che si incastra perfettamente e funziona.

Questo nuovo organulo scoperto è stato denominato “nitroplasto” e, a differenza dei mitocondri e dei cloroplasti più antichi, la sua evoluzione è stata datata a circa 100 milioni di anni fa. Questa scoperta apre nuove prospettive sull’importanza della fissazione dell’azoto negli ecosistemi oceanici e potrebbe avere implicazioni anche per l’agricoltura terrestre.

Coale spiega che questo sistema rappresenta una nuova prospettiva sulla fissazione dell’azoto e potrebbe offrire indicazioni su come un organulo simile potrebbe essere ingegnerizzato nelle piante coltivate. Zehr ritiene che UCYN-A non sia un caso isolato, ma il primo ad essere stato identificato, lasciando intravedere un futuro ricco di scoperte e ricerche nel campo della biologia evolutiva.

Entrambi gli studi sono stati pubblicati sulle prestigiose riviste scientifiche Cell e Science, gettando nuova luce su uno degli eventi più straordinari della storia evolutiva della vita sulla Terra.

(A) Immagine SEM di una cellula di B. bigelowii circondata da 12 pentaliti (al largo di Tomari, 17 giugno 2012). Un pentalite (scala calcarea dei Braarudosphaeraceae) indicato dal pentagono aperto blu è composto da cinque segmenti trapezoidali. La freccia nera indica la lunghezza del lato del pentalite dove sono state effettuate le misurazioni. (B) Immagine SEM del pentalite di B. bigelowii (lato prossimale) (al largo di Tomari, 17 giugno 2012). (C) Ingrandimento del lato prossimale di un pentalite (Fig. 1B) che mostra la struttura laminare. (D) Immagine LM del campione TMR-scBb-1 (E) Immagine LM del campione TMR-scBb-7. (F) Immagine LM del campione TMR-scBb-8.
Come se avere i primi nitroplasti documentati non fosse abbastanza, Hagino et al, PLOS ONE 2013 (CC BY 3.0)

Merith Ptah, prima donna di scienza. Sara Sesti

 

La storia più antica della scienza femminile si alimenta di presenze silenziose e discrete che la parola scritta non ha saputo, o voluto, consegnare alla memoria dei posteri. Quello di Merith Ptah è il primo nome di scienziata giunto fino a noi.
Vissuta in Egitto intorno al 2700 a.C. Merith è stata immortalata dal figlio come “grande medica” nell’incisione del ritratto nella sua tomba vicino a Saqqara, la necropoli dell’antica capitale egiziana di Menfi, che si trova a circa 19 miglia a sud dell’attuale Il Cairo.
Di lei ci sono poche altre informazioni, così come di tante donne di cui si conosce l’esistenza grazie al fortuito ritrovamento delle iscrizioni funerarie che ne ricordano il nome e la professione, oppure alla fugace citazione di un’opera perduta.
Merith è stata apprezzata anche dagli astronomi, infatti l’International Astronomical Union le ha intitolato un cratere d’impatto molto ampio su Venere.
Per saperne di più: “Scienziate nel tempo. Più di 100 biografie", Ledizioni, Milano 2023

lunedì 22 aprile 2024

Clamorosa scoperta della fisica: all'interno del vetro e della plastica, il tempo è reversibile. - Francesca Argentati

Freepik-Pixabay

 Incredibile scoperta nel campo della fisica: un nuovo studio ha scoperto che il tempo può essere invertito nel vetro e nella plastica, all'interno dei quali si è dimostrato reversibile. Scopriamo di più.

Il tempo per gli esseri viventi ha un'unica direzione

Il tempo per gli esseri viventi ha un'unica direzione

Freepik

Un colpo di scena degno di nota arriva dall'Università Tecnica di Darmstadt, Germania, dove i fisici hanno scoperto che il tempo è reversibile sia nella plastica che nel vetro. Tutti noi siamo abituati a vedere il tempo come uno scorrere inesorabile di secondi, minuti, ore, giorni, mesi e anni, dai quali non si può tornare indietro: qualcosa che si è rotto non può essere riportato indietro, al suo stato intonso prima della frattura, e il prossimo compleanno non può avere una candelina in meno rispetto al precedente (a meno che non si decida di imbrogliare, naturalmente!). Insomma, il tempo per gli esseri viventi ha un'unica direzione, che ci porta a maturare e invecchiare.

Questo risponde alla Seconda Legge della Termodinamica di Newton, noto anche come "freccia del tempo", secondo cui il disordine di un sistema aumenta col passare del tempo, il quale può solo andare avanti e non indietro. Eppure, per alcuni elementi, con grande sorpresa, sembra non essere proprio così. Il team di scienziati coordinato da Till Böhmer all’Istituto di fisica della materia condensata ha scoperto che lo scorrere inarrestabile e irreversibile del tempo non è omogeneo e generalizzabile, soprattutto nel caso del vetro e della plastica e i loro movimenti molecolari.

I movimenti molecolari del vetro sono reversibili

I movimenti molecolari del vetro sono reversibili

Nature Physics

Questi materiali, infatti, sono costituiti da molecole intrecciate che si muovono continuamente, spostandosi in posizioni sempre diverse per individuare uno stato energetico più idoneo. Questa attività è quella che porta gli elementi a mutare nel tempo, inducendo il concetto dell'invecchiamento. Sebbene, però, il vetro frantumato non possa essere ripristinato e riportato alle sue origini, i ricercatori hanno capito che, invece, i movimenti molecolari di questo materiale sono reversibili. Böhmer ha annunciato che "è stata un'enorme sfida sperimentale"resa possibile grazie al tempo materiale, una sorta di orologio situato all'interno del materiale stesso, che ha un ritmo e una cadenza diversi rispetto al tempo che tutti conosciamo e che scorre in base alla rapidità con cui le molecole si spostano cambiando posizione.

Per decenni gli scienziati hanno provato a calcolare questo tempo materiale, ma senza riuscirci: ora, il team tedesco ha vinto questa sfida con l'uso di videocamere ultrasensibili, in grado di cogliere e registrare le impercettibili oscillazioni delle molecole. Thomas Blochowicz, professore presso l'Università tecnica di Darmstadt e tra gli autori della ricerca, ha affermato che "non si possono semplicemente osservare le molecole oscillare." I fisici hanno puntato un laser su un campione di vetro, creando una luce multidirezionale proveniente dalle molecole, che ha colpito il sensore della fotocamera con puntini chiari e scuri. A questo punto, il team ha calcolato il cambiamento di queste oscillazioni nel tempo, misurando a tutti gli effetti il tempo interno del vetro.

Il tempo del vetro è reversibile, ma anche il suo invecchiamento?

L'analisi statistica delle fluttuazioni è stata coadiuvata dai ricercatori dell'Università di Roskilde, Danimarca. Una collaborazione che ha portato a un risultato incredibile: il tempo materiale del vetro è reversibile e può scorrere all'indietro. Tuttavia, spiega Böhmer, "questo non significa che l’invecchiamento dei materiali possa essere invertito. Anzi: proprio il tempo materiale si conferma la prova dell'irreversibilità dell'invecchiamento e tutto il resto di ciò che si muove all'interno del materiale riferendosi a questa misurazione temporale non ha alcun impatto sul processo di invecchiamento.

La diffusione dinamica della luce ha permesso di monitorare le oscillazioni nel processo di invecchiamento estetico del vetro, che sono risultate stazionarie e reversibili.
La scoperta inedita può essere applicata ai materiali cosiddetti disordinati, sebbene siano necessari ulteriori approfondimenti, tra cui la comprensione di come questa reversibilità sia collegata alle leggi fondamentali della fisica e in che modo il tempo interno cambia in base al tipo di materiale. Non resta che attendere le prossime risposte alle molte domande che questa scoperta ha portato con sé.

Sculture in pietra presso il Tempio di Kom Ombo.

 

Il Tempio di Kom Ombo fu costruito più di duemila anni fa, nell'antico Egitto, durante il regno tolemaico, nella città di Kom Ombo.
La particolarità del tempio è costituita dalla dedicazione del culto a due diverse triadi di divinità. La prima la più antica e primordiale della regione era costituita dal dio coccodrillo Sobek, Hathor e Khonsu. La seconda, di epoca più tarda, era costituita da Haroeris cioè Horo il Vecchio, manifestazione solare del dio falco, Tasenet-nofret sorella di Horus e Panebtani, il signore dei due paesi.
Il tempio fu inizialmente edificato da Tolomeo VI all'inizio del suo regno, ed ampliato in seguito dai suoi successori; particolarmente Tolomeo XIII costruì le sale ipostile esterne e interne.
La struttura del tempio è costituita da due corpi di fabbrica perfettamente simmetrici l'uno con l'altro rispetto all'asse principale: vi si ergono così due ingressi rispetto al muro esterno, due passaggi rispetto ogni camera e la successiva. Il santuario di sinistra è dedicato al dio Horo, mentre quello di destra al dio Sobek; i bassorilievi che decorano i due santuari riservano la stessa importanza a entrambe le due divinità.