mercoledì 6 aprile 2016

Corruzione in sanità costa 6 mld l'anno, casi in 37% asl.

Una corsia di ospedale

Cantone, scorribanda delinquenti di ogni risma.


La corruzione in Sanita' sottrae fino a 6 miliardi l'anno all'innovazione e alle cure ai pazienti. E in una azienda sanitaria su tre (37%) si sono verificati episodi di corruzione negli ultimi 5 anni, 'non affrontati in maniera appropriata'. Lo affermano i dirigenti delle 151 strutture sanitarie che hanno partecipato all'indagine sulla percezione della corruzione, realizzata da Transparency International Italia, Censis, Ispe-Sanita' e Rissc. 
"La sanità - afferma il presidente dell'Autorità nazionale anti corruzione, Raffaele Cantone - per l'enorme giro di affari che ha intorno e per il fatto che anche in tempi di crisi è un settore che non può essere sottovalutato, è il terreno di scorribanda da parte di delinquenti di ogni risma".

Ad ogni modo, ha sottolineato Cantone, "abbiamo comunque una sanità che assicura standard elevatissimi, ma va considerato che la corruzione abbassa anche il livello dei servizi". Quanto ai numeri, ha aggiunto, "sarei molto cauto, ma credo che vi sia un problema molto significativo sia di sprechi sia di fatti corruttivi". Per questo, ha avvertito, "siamo intervenuti mettendo in campo un nuovo piano anticorruzione concordato anche con i tecnici del ministero della Salute". Cantone ha quindi rilevato come ormai la corruzione si sia oggi "trasformata e la mazzetta tradizionale - ha detto - è rimasta quasi solo un ricordo". Il trend è comunque "stabile - ha aggiunto - ma la sanità è il settore in cui il problema della corruzione è sempre stato alto, confermandosi ai primi posti per rischi corruttivi".
Liste attesa snodo corruzione su cui agire"Contro la corruzione nella sanità - ha continuato Cantone - abbiamo messo in campo strumenti nuovi, abbiamo fatto delle linee guida ed individuato gli snodi su cui intervenire: primo fra tutti quello delle liste di attesa, ma anche gli ambiti legati alle aziende farmaceutiche e persino, ad esempio, la gestione delle sale mortuarie. "Sarebbe bello - ha detto - che le liste d'attesa potessero essere trasparenti, ma ciò è molto difficile, perché ci sono in gioco i valori della privacy. Dobbiamo però intervenire e fatti come quello di Salerno (dove sono stati effettuati arresti per mazzette sulle liste di attesa) mi inquietano". Per questo nel "nostro piano anticorruzione - ha sottolineato Cantone - abbiamo indicato le liste di attesa proprio come una delle maggiori criticità". Bisogna, ha concluso, "creare nella sanità 'anticorpi anticorruzione', a partire dagli operatori".

Controlli in Asl su rispetto anticorruzione
"Stiamo per firmare un nuovo protocollo con il ministero della Salute, per avviare stretti controlli al fine di verificare se le Asl si sono adeguate alle norme ed i piani anticorruzione; andremo cioè a controllare come i piani anticorruzione vengono applicati". Lo ha annunciato il presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, intervenendo in occasione della prima giornata nazionale contro la corruzione in sanità. "Lo faremo con i tecnici del ministero della Salute - ha spiegato Cantone - per capire se le Asl rispettano veramente tali norme o se si tratta solo di un rispetto 'sulla carta'". Inoltre, ha sottolineato, "con l'Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali Agenas stiamo lavorando per mettere a punto un codice etico forte, che non sia però carta straccia". Il punto, ha concluso, è che "non si può intervenire solo con la repressione e dopo, ma mettendo in campo una serie di strumenti preventivi che cambino la mentalità".

Faraone, 2 mln italiani pagato bustarelle per Sanità
Il settore sanitario "continua ad essere tra i più colpiti dal virus della corruzione: ben 2 milioni di italiani hanno pagato 'bustarelle' per ricevere favori in ambito sanitario e 10 milioni hanno effettuato visite mediche specialistiche in 'nero'". Lo ha affermato il sottosegretario all'Istruzione, Università e Ricerca, Davide Farone, in occasione della prima Giornata nazionale contro la corruzione in sanità. Corruzione e frodi nella sanità, ha sottolineato, "valgono 6 miliardi di euro". La corruzione in Sanità, ha avvertito Faraone, costa dunque ''almeno 6 miliardi di euro, cioè più del 5% della spesa sanitaria pubblica. Queste sono le risorse distolte dai servizi sanitari a causa di corruzione e frodi''. Un quadro aggravato dal fatto, ha aggiunto Faraone in un messaggio inviato in occasione della Giornata nazionale contro la corruzione in sanità, che ''il 54% degli italiani è convinto che la sanità nel nostro Paese sia corrotta''. È un dato, ha ricordato, che ''ci pone al 69/mo posto nel ranking del Global CorruptionBarometer, che classifica 107 Paesi del mondo. L'Italia è preceduta da tutti i Paesi europei più avanzati''.

806 mln danno erariale per frodi e sprechi in Sanità
Per Faraone il fenomeno della corruzione in Sanità ''è consistente e lo dimostrano anche i dati della Guardia di finanza, che da gennaio 2014 a giugno 2015 ha scoperto frodi e sprechi nella spesa pubblica sanitaria che hanno prodotto un danno erariale per 806 milioni di euro, pari al 14% del danno erariale complessivo''. ''Stiamo mettendo in campo, come Governo nazionale - ha sottolineato il sottosegretario - molte azioni per combattere questa piaga. Lo scorso anno il Parlamento ha approvato il disegno di legge anticorruzione. Oltre ad aver ripristinato il reato di falso in bilancio, abbiamo anche dato più poteri all'Anac, l'autorità nazionale anti corruzione''.

martedì 5 aprile 2016

Panama Papers, 10 cose da sapere sulla più grande fuga di notizie di tutti i tempi. - Stefano Vergine



Chi è la fonte dei documenti? E' legale avere una società offshore? Davvero non ci sono cittadini americani nella lista? Perché sono stati publicati solo pochi nomi dei circa 800 italiani coinvolti? Ecco tutto quello che conta per capire il grande scandalo finanziario che fa tremare politici e vip. 


Cosa vuol dire Panama papers?
Panama Papers è il nome dato agli 11,5 milioni di documenti emersi grazie a un’inchiesta giornalistica, la più grande fuga di notizie finanziarie della storia. L'inchiesta è stata svolta a livello internazionale da 378 giornalisti, appartenenti a testate di diversi Paesi, associate nel "The International Consortium of Investigative Journalists" (ICIJ). Per l'Italia, il lavoro è stato svolto in esclusiva da "l'Espresso". L'inchiesta " Panama Papers " riguarda lo studio legale Mossack e Fonseca di Panama, una delle più grandi "fabbriche" al mondo di società offshore. Il nome Panama Papers è stato scelto in riferimento ai "Pentagon Papers", i documenti che hanno messo a nudo le menzogne del segretario alla difesa di Nixon sulla guerra in Vietnam, pubblicati nel 1971 dal New York Times.

Cosa vuol dire offshore?
Offshore, in gergo finanziario, significa "all'estero".
Più nello specifico il termine indica paesi in cui si pagano tasse molto basse, a volte pari quasi a zero, e la proprietà di società e conti correnti è segreta. Questi stati sono spesso utilizzati da chi cerca di rendere irrintracciabile una parte o tutta la propria ricchezza. Per avere un'idea di quali sono i più utilizzati, può essere utile scorrere la lista degli Stati inseriti dal governo italiano nella cosiddetta black list .


Panama Papers: così vip e potenti del mondo hanno nascosto miliardi nei paradisi fiscali
È la più grande fuga di notizie nella storia della finanza. Undici milioni e mezzo di file segreti su oltre 200mila società offshore. Create dallo studio Mossack Fonseca di Panama. Ecco gli affari riservati degli uomini di Putin, della famiglia Cameron, dei vertici comunisti cinesi. Insieme a star come Leo Messi e Jackie Chan


Da dove arrivano questi documenti?
Una fonte anonima, un "whistleblower", è entrato in possesso di migliaia di documenti dello studio Mossack Fonseca: 2,6 terabyte di materiale. La fonte lo ha passato al quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung che, di fronte a una montagna di dati, si è rivolto ad ICIJ per condividere la ricerca e scoperchiarne il contenuto. In quanto unico partner italiano di ICIJ, "l'Espresso" ne è entrato in possesso.


Che cos'è Mossack Fonseca?
E' uno studio legale fondato a Panama nel 1977 e specializzato nella creazione di società registrate nei paradisi fiscali. Lo studio, considerato uno dei cinque migliori al mondo nel suo settore, è stato fondato da due avvocati. Uno è Jurgen Mossack, figlio di un nazista delle Waffen SS, che dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale si trasferì a Panama. L'altro è Ramon Fonseca, panamense, che ha studiato alla London Schools of Economics e ha lavorato nella sede dell'Onu di Ginevra prima di fare ritorno in America Centrale. Lo studio Mossack Fonseca ha 40 uffici nel mondo e circa 500 dipendenti. Fino a qualche tempo fa Ramon Fonseca è stato uno dei consiglieri del presidente panamense Juan Carlos Varela. A inizio marzo lo studio è stato coinvolto nell'inchiesta per corruzione che i magistrati brasiliani stanno conducendo sulla Petrobras, l'azienda petrolifera controllata dal governo di Brasilia. Quando la notizia è emersa,  Ramon Fonseca si è dimesso dalla carica di presidente. Sull'inchiesta Panama Papers, lo studio Mossach Fonseca si è difeso spiegando che non è responsabile di quello che i suoi clienti fanno con le società che lo studio crea per loro.


Panama Papers, una fonte anonima e un anno di lavoro per svelare i segreti offshore
Oltre 300 giornalisti di tutto il mondo per analizzare un'immensa banca dati finanziaria. La stessa su cui ora indagano le autorità fiscali negli Stati Uniti e in Germania, tra società fiduciarie e conti bancari


Che cos'è l’ICIJ?
E' un consorzio internazionale di giornalismo investigativo                                                                      Fondato a Washington nel 1997 dal giornalista americano Chuck Lewis, il network conta oggi 190 giornalisti di 65 Paesi. E' specializzato soprattutto in indagini su corruzione e crimini transnazionali. Il consorzio ha già pubblicato diversi lavori: l'ultimo dei quali, nel 2014, sul Lussemburgo. Intitolata Luxleaks, l'inchiesta svelò per la prima volta gli accordi riservati tra multinazionali e governo del Lussemburgo per ottenere risparmi fiscali. Un sistema che toglie denaro alle economie di diversi Paesi, regalandole invece a quella del Granducato. L’Icij è un'organizzazione non profit che basa il proprio finanziamento sulle donazioni. Alcuni dei finanziatori sono: Adessium Foundation, Open Society Foundations, The Sigrid Rausing Trust, the Fritt Ord Foundation, the Pulitzer Center on Crisis Reporting, The Ford Foundation, The David and Lucile Packard Foundation, Pew Charitable Trusts and Waterloo Foundation.

Chi è coinvolto?
L'inchiesta Panama Papers riguarda più di 214 mila società offshore collegate a persone residenti in oltre 200 Paesi. Il lavoro di indagine ha permesso di rivelare l'esistenza di società offshore riconducibili, direttamente o indirettamente, a 140 fra politici e uomini di Stato nel mondo. Fra questi, ci sono 12 attuali ed ex leader politici . Tra i più noti emersi finora: i primi ministri di Islanda e Pakistan, i presidenti di Ucraina e Azerbaigian, il re del Marocco e dell'Arabia Saudita, il presidente della Federazione russa, il premier del Regno Unito. Sono inoltre emersi i nomi di 550 banche che, attraverso lo studio legale panamense Mossack Fonseca, hanno creato più di 15 mila società offshore. Per l'Italia i nomi sono quelli di Ubi e Unicredit .



Perché ci sono solo quattro nomi italiani?
I Panama Papers contengono i nomi di circa 800 italiani. Quattro sono stati rivelati per la prima volta domenica sul sito de "l'Espresso" , in concomitanza con l'uscita dei primi risultati dell'inchiesta sulle altre testate partner di ICIJ. Gli altri nomi degli italiani verranno pubblicati nei prossimi giorni da "l'Espresso" che dedicherà al caso la sua copertina di venerdì 8 aprile nel numero in edicola. Per evitare casi di omonimia, il giornale ha deciso di pubblicare i nomi degli italiani presenti nei Panama Papers solo dopo averne verificato la loro identità.



Cosa c’entra Panama?
Panama è al centro della vicenda perché nel piccolo Paese dell'America centrale ha il suo quartier generale lo studio legale Mossack Fonseca, epicentro dell'inchiesta. Mossack Fonseca ha creato, per conto dei suoi clienti, società in moltissimi paradisi fiscali. A Panama, appunto, ma anche in altre nazioni dove il segreto bancario è massimo e il regime fiscale bassissimo: Bahamas, British Virgin Islands, Gibilterra, Lussemburgo, Svizzera, Samoa, Seychelles e tanti altri.

E’ legale avere un conto offshore?
Avere un conto corrente o una società offshore non è illegale di per sé. Nel caso dei cittadini italiani, diventa illegale se non lo si comunica alle autorità fiscali: in pratica se non lo si inserisce nella dichiarazione dei redditi. Di questo l'inchiesta giornalistica Panama Papers non si occupa, non avendo accesso ai dati fiscali delle persone in questione. "L'Espresso" si limita a segnalare, dopo opportune verifiche, gli italiani che risultano azionisti, amministratori o beneficiari di società create da Mossack Fonseca e registrate in paradisi fiscali.

E’ vero che non ci sono americani coinvolti e che è un complotto contro Putin finanziato da Soros?
Sui forum e sui social network in molti si sono chiesti perché, nei primi articoli usciti, non siano apparsi nomi di cittadini americani. Per qualcuno la mancanza non è casuale, ma dettata da una precisa regia di matrice statunitense. Tesi argomentata con il fatto che uno dei politici coinvolti dallo scandalo è il grande nemico degli Usa, Vladimir Putin. E che tra i finanziatori di ICIJ c'è la Open Society Foundations di George Soros, finanziere vicino agli Usa e arcinemico di Putin.
I Panama Papers contengono in realtà migliaia di nomi di cittadini americani, ma nessuno di eccellente è finora emerso dalle verifiche. Il lavoro delle varie testate del consorzio, fra cui "l'Espresso", sta continuando, ed è quindi possibile che nomi di cittadini americani appaiano in futuro. Va notato anche che molte società offshore sono registrate proprio negli Usa, negli Stati del Delaware e del Nevada, noti paradisi fiscali. E che l'ICIJ, in altre inchieste come quella intitolata Luxleaks , ha scoperto il coinvolgimento di diverse multinazionali americane.


 read:http://espresso.repubblica.it/inchieste/2016/04/04/news/panama-papers-10-cose-da-sapere-sulla-piu-grande-fuga-di-notizie-di-tutti-i-tempi-1.256879

L’Italia senza fibra che naviga quattro volte più lenta della Corea. - Giacomo Galeazziilario Lombardo


Connessione in rame anni 90 e mezzo Paese non usa Internet. Ma le aziende promettono una velocità irraggiungibile.

L’Italia è una Repubblica fondata sui 56K, in pratica la velocità di Internet negli anni 90. Su 28 Paesi dell’Ue è al 25° posto dell’indice europeo di digitalizzazione (Desi). E se in Corea del Sud, leader mondiale, la velocità media di connessione è di 20,5 megabit, e in Svezia, leader europeo, è di 17,4 mega, noi siamo fermi a 5,4 mega. In Italia il servizio universale garantito per legge è fermo al doppino di rame collegato al modem. Per questo, mentre giovedì è atteso l’ennesimo lancio del piano di governo sulla banda ultralarga, l’Autorità garante nelle comunicazioni chiede un salto tecnologico nella qualità minima dei servizi di accesso a Internet. «In Italia ci sono le condizioni per passare dai 56K ad almeno 2 mega» spiega il presidente dell’Agcom Angelo Cardani. 2 mega vuol dire il minimo necessario per parlare di Adsl, un sistema di connessione che a oggi è preistoria. Intendiamoci, qui stiamo ancora discutendo di «accesso efficace» alla Rete, mentre ci sono Paesi come la Finlandia che dal 2010 garantiscono un megabit gratuito a ogni cittadino, nella convinzione che Internet sia un bene (pubblico) necessario. Per capirsi: 56K è la banda stretta. Con l’Adsl si entra nella banda larga che ancora domina in Italia. Il mondo è proiettato ormai verso la banda ultralarga, cioè una velocità che va da 30 mega in su, più facile da ottenere grazie alla fibra ottica. I ritardi dell’Italia sono sintetizzati in cifre impietose. La copertura di banda ultralarga (superiore a 30 mega) è ferma al 44% contro una media Ue del 71%. Quella a 100 mega è inchiodata al 10,2% contro l’85% richiesto dall’Europa entro il 2020. Gli italiani che hanno abbonamenti sopra i 30 mega sono il 5,4% (il 30% nell’Ue).  

I buchi neri della Rete  

Quando è arrivato a Genova, da Montreal, per il suo dottorato, Sandro Bettin ha trovato una brutta sorpresa: «Non ho potuto sottoscrivere un abbonamento Adsl. A casa mia la rete fissa non esiste». Prima il rimpallo di responsabilità tra Infostrada e Telecom, poi gli hanno spiegato che non c’erano linee disponibili nella centralina di zona. Nella condizione di Sandro si trovano altri cittadini finiti nei buchi neri della Rete. Un paradosso mentre si parla sempre di più dell’esigenze di definire Internet un servizio universale. Al ministero dello Sviluppo economico il dossier connettività è affidato al sottosegretario Antonello Giacomelli. La scorsa settimana ha chiesto al commissario Ue Günther Oettinger che la Rete diventi davvero un diritto per tutti, come strade, acqua, poste. Peccato però che la fotografia dell’Italia dica il contrario e immortali un Paese a due velocità, con due terzi dei Comuni senza banda ultralarga e 19 milioni di cittadini che vivono nelle «aree bianche». Sono zone «a fallimento di mercato» dove i privati non trovano conveniente investire in infrastrutture di rete. Sono 5 mila comuni su 8 mila. Si va dalla periferia di Roma al paesino di montagna. 

Il caso Telecom  

La causa principale dei ritardi risale a una privatizzazione mal gestita che ha regalato la proprietà della rete fissa all’ex monopolista Telecom. Quando il rame sembrava la miglior soluzione, la compagnia investì in rame. Quando si cominciò a parlare di fibra ottica, rimase al rame. Una delle migliori reti in rame del mondo, ma cosa te ne fai quando le performance più efficaci ormai viaggiano su fibra? Telecom, anche per l’impressionante debito accumulato, non ha investito nelle nuove tecnologie. Perché farlo, è l’ovvio ragionamento, se così si svaluta la propria rete? «Ma la sola logica di mercato non garantisce il futuro» spiega Alessio Beltrame, a capo della segreteria tecnica del Mise. Il governo ha buon gioco a scaricare su chi lo ha preceduto le responsabilità sul digital divide mentre non nasconde una certa ostilità nei confronti di Telecom, avendo affidato a Enel il compito di portare la fibra nelle case degli italiani per raggiungere gli obiettivi dell’Agenda europea 2020. Anche i più ottimisti pensano che l’Italia, con la burocrazia che ha e i permessi che servono, non ce la farà. Renzi ha dato un’accelerata ma gli scenari restano aperti. Al centro c’è la sfida Telecom-Enel e l’incognita su Metroweb, la società pubblica, che ha il suo gioiello nella rete a banda ultralarga di Milano.  

Il piano strategico del governo divide l’Italia in quattro zone (cluster): A e B sono le più remunerative. C e D sono le «aree bianche» dove è necessario l’intervento pubblico. Il governo vuole partire da quest’ultime con 3 miliardi di stanziamento. L’obiettivo è arrivare con la fibra a casa, l’unica che permette di andare anche molto oltre i 100 mega: è la Ftth (Fiber to the home) che garantisce velocità di connessione più alta rispetto alla Fttc (to the cabinet) che porta la fibra fino all’armadio in strada e poi prosegue sul rame. Un sistema misto che Telecom, contattata dalla Stampa, difende: «Se la casa non è lontana, e in genere in Italia è così, su 100 mega di velocità il rame fa perdere al massimo il 5% di velocità. Fare anche l’ultimo quinto di collegamento in fibra è più costoso perché si deve entrare nei condomini». Enel invece, sostenuta dal governo, dice di essere in grado di portare a costi ridotti la fibra in casa, attraverso la posa aerea e la sostituzione di 32 milioni di contatori elettrici. Una rete che verrebbe affittata agli operatori interessati a fornire il servizio, come Vodafone e Wind che hanno già sottoscritto un accordo con Enel. A occuparsi dei bandi di gara nelle «aree bianche» sarà la società pubblica Infratel. Il suo presidente, Salvatore Lombardo, ha chiare le conseguenze per Telecom: «Offrendo la fibra fino a casa, Vodafone e Wind potrebbero prendersi i clienti di Telecom. Se Telecom sta ferma, perde posizioni di mercato. Se invece reagisce e sposa la nuova infrastruttura, la sua rete in rame non servirà più».  

Il recente passaggio di Telecom in mani francesi ha rimesso in pista l’ipotesi di scorporare la rete dell’ex monopolista, che a quel punto non è detto non possa tornare allo Stato magari a un prezzo inferiore. «La rete vale ancora 13 miliardi ed è l’unica garanzia del debito con le banche» spiega Maurizio Matteo Dècina, ex vicepresidente dei piccoli azionisti Telecom, esperto di banda larga. «Lo Stato comprando la rete potrebbe accorparla alle altre, compresa Enel, e creare una società unica delle reti». Dècina sta per uscire con un libro, Digital divide et impera, che svela l’altra forte carenza italiana, dopo quella infrastrutturale: la scarsità di domanda.  

Analfabetismo digitale  

In un Paese dove, secondo il Desi, il 37% della popolazione non usa Internet, parlare solo di reti è come costruire autostrade mentre i cittadini non hanno la patente. «Il governo dovrebbe invertire la prospettiva - dice Dècina - perché è la domanda che crea l’offerta». E dovrebbe farlo a partire dalla pubblica amministrazione, il cui livello di digitalizzazione (e-government), nonostante i proclami, è ancora basso. Un esempio è l’e-procurement, cioè l’acquisto dei beni e servizi via web che sfoltirebbe molti costi ma che ancora non supera il 10%. Il Sistema di identità digitale (Spid, password per l’uso dei servizi pubblici) va ancora a rilento, e rischia di creare ulteriori discriminazioni, come spiega Guido Scorza, docente di Diritto delle nuove tecnologie: «Avremo cittadini che potranno esercitare i propri diritti per via telematica e altri no, a causa del gap tecnologico». Il digital divide si allargherebbe. La diffusione della banda ultralarga deve rispondere a questo, tenendo presente che copertura e utenza effettiva sono due cose ben diverse. Lo insegna il caso della Calabria, al primo posto per cablaggio, in una classifica nazionale capovolta. Le regioni del Sud sono più avanti sulla banda ultralarga perché hanno usato i fondi comunitari 2007-2013. Altra cosa sono le connessioni effettive, quasi nulle: ci vorrebbero sistemi di incentivi e sconti per poveri, studenti, malati, disoccupati. «Infatti pensiamo a voucher e buoni per stimolare la domanda» ammette Beltrame.  

Dal turismo alla telemedicina, il futuro dell’economia passa dalla fibra. Secondo la Commissione Ue e la Banca Mondiale, a un aumento del 10% di penetrazione della banda larga corrisponde un punto e mezzo di Pil. Intanto c’è chi si arrangia. Il piccolo centro di Serramanna, nel cuore della Sardegna, sarebbe potuto diventare un rivoluzionario laboratorio di finanza online. Qui nel 2010 nasce Sardex, un circuito di credito commerciale basato su una moneta digitale locale: una delle prime 20 startup innovative oltre il milione di euro di fatturato, malgrado le croniche difficoltà di accesso a Internet. Dai 56K degli inizi all’Adsl da 7 mega, fino al potenziamento della centralina per intervento del governo. «Ma gli attuali 20 mega non ci bastano per 30 dipendenti sempre connessi», racconta Carlo Mancosu, uno dei cinque fondatori di Sardex.  

È vera fibra?  

In Italia dal 2012 esiste un software di Agcom (Misura Internet), l’unico che certifica la reale qualità della connessione rispetto al servizio acquistato e permette di recedere senza penale. Su 50 mila casi l’80% di misurazioni ha attestato la violazione del contratto. La sfida della fibra servirà anche a far chiarezza sulle offerte commerciali proposte dalle compagnie telefoniche. Tim smart fibra, Wind absolute fibra, Ultrafibra di Fastweb. C’è stato un palese abuso del termine «fibra» nelle campagne pubblicitarie, nonostante la tecnologia sia ibrida e poggi anche sul rame, come un maglione che viene venduto in lana ma per metà è di poliestere. Nelle condizioni di contratto si specifica che l’offerta è la fibra fino al cabinet «Ma guardando la pubblicità in tv sembra che la fibra arrivi ovunque fino a casa» ci spiegano da Altroconsumo che tra i tanti reclami raccolti ha quello di Stefano, cliente Fastweb dal 2011, che dopo aver sottoscritto un aumento della banda da 10 a 100 mega, si è trovato a navigare in wi-fi a metà della velocità. O ancora Chiara F. che lo scorso ottobre ha stipulato un abbonamento Superjet di Fastweb da 20 mega ma non arriva neppure a uno. Appena tre giorni fa, in Francia un decreto ha stabilito che si può definire «fibra» solo quella che arriva fino a casa (Ftth). «Quando anche in Italia la fibra in casa arriverà davvero - sorride Beltrame - mi chiedo quale superlativo inventeranno le aziende visto che li hanno usati tutti». 

http://www.lastampa.it/2016/04/03/italia/cronache/litalia-senza-fibra-che-naviga-quattro-volte-pi-lenta-della-corea-BMlawdJKuIy1BuJcVuF1BL/pagina.html

E mentre in Finlandia credono che la fibra sia un bene pubblico, in Italia chi comanda ha paura che una connessione veloce possa creare vari problemi o intoppi alle loro magagne, sappiamo tutti, infatti, che dominare gli ignoranti è più semplice che abbindolare gli edotti.

domenica 3 aprile 2016

Piante grasse.


I fiori delle piante grasse hanno colori vivaci e, a volte, sono anche molto profumati.




I fiori delle piante grasse di Cetta.

I glicini di Cetta.


Ogni anno la natura rinnova il suo miracolo.
I miei glicini, belli e profumati.
Cetta

Palermo maltrattata.


E' mortificante vedere Palermo, una città splendida, nel degrado totale. La sporcizia dilaga; da tempo immemorabile cartacce, sterpaglia alta due metri, vetri di bottiglie, sacchetti di plastica sono sparsi ovunque, nelle aiuole, sui marciapiedi e a coprire tombini con il conseguente intasamento ed allagamento in caso di pioggia.
E non si può attribuire la colpa solo ai palermitani ineducati, perchè questa sporcizia è lì da sempre, non viene mai raccolta, e quando, sporadicamente, il comune di degna di mandare gli "operatori ecologici", che di ecologico hanno poco o nulla, questa spazzatura viene ammonticchiata e lasciata sul posto per tanto tempo, con il risultato che la prima folata di vento la sparpaglia nuovamente ovunque capiti!
Io le tasse le pago, tutte e tante, gradirei averne un riscontro!




Cetta.

sabato 2 aprile 2016

Petrolio in Basilicata, 850mila tonnellate di sostanze pericolose nei pozzi. “Eni beneficiaria dell’ingiusto risparmio”. - Thomas Mackinson

Petrolio in Basilicata, 850mila tonnellate di sostanze pericolose nei pozzi. “Eni beneficiaria dell’ingiusto risparmio”

Le dimissioni del ministro Guidi hanno messo in secondo piano le pesantissime accuse per reati ambientali della Procura di Potenza. Secondo i pm, grazie all'alterazione dei codici rifiuto, l'azienda ha risparmiato fino a 100 milioni sui costi di smaltimento. Anche le emissioni in atmosfera, sistematicamente in eccesso, venivano taroccate. La produzione, per ora, è sospesa. Intanto prosegue l'indagine dei carabinieri del Noe e non si esclude l'ipotesi di disastro ambientale.

Sei numeri su un foglio. Bastava cambiarne due per far splendere il sole nella valle del petrolio. Il rifiuto da pericoloso diventava innocuo, pronto per esser smaltito nei pozzi e nelle terre agricole della Val D’Agri, a un costo di 33 euro a tonnellata anziché 90 o 160. Un cambio dei “codici Cer” operato sistematicamente dai manager dell’Eni di Viggiano, con la complicità delle ditte incaricate dello smaltimento, che avrebbero reiniettato in un solo anno qualcosa come 854mila tonnellate di liquidi inquinanti, permettendo – secondo i pm – alla società del cane a sei zampe di risparmiare fino a 100 milioni di euro.
E’ solo un frammento della vicenda che ha sconvolto la Basilicata. Una storia che rischiava di finire in ombra per via delle più clamorose dimissioni del ministro Guidi, costretto a lasciare a causa delle intercettazioni con il compagno sullo sblocco del progetto Tempa Rossa, sul quale l’imprenditore aveva messo gli occhi. Invece l’indagine dei carabinieri del Noe sul fronte ambientale prosegue, e la procura di Potenza non esclude l’ipotesi di disastro ambientale. In ballo c’è il destino delle terre inquinate e il futuro dello stabilimento coi relativi guai occupazionali che già si profilano. Fino a segnare, forse, il definitivo tramonto della grande illusione del petrolio pulito in Val D’Agri.
Eni, il “principale beneficiario” – Sullo sfondo, resta anche il tema delle emissioni in eccesso, a completare l’opera di chi – per un qualche profitto e tornaconto ancora da chiarire – ha inteso nascondere per anni la reale capacità inquinante dell’impianto petrolifero, avvelenando l’ambiente. Sul punto Eni, come si conviene, ostenta sicurezza. Precisa che i sei dipendenti arrestati sono stati subito sospesi e che è in corso un’indagine interna. Sulle motivazioni che li avrebbero indotti a taroccare rifiuti pericolosi ed emissioni in eccesso trapela un malcelato stupore. I pm non contestano loro il peculato, Eni smentisce che possano aver ricevuto premi per i risparmi conseguiti illecitamente. E dunque le utilità di quelle condotte non avrebbero altro agente che l’azienda stessa che i pm indicano espressamente come “il principale beneficiario dell’ingiusto risparmio conseguito”. E tuttavia Eni non risulta tra i soggetti indagati. D’altra parte quello stesso risparmio appare risibile sia per un’azienda che fattura 200 miliardi l’anno e rispetto al rischio di finire nella bufera e vedersi sigillare gli impianti. Al momento, a quanto si apprende, la società presieduta da Emma Marcegaglia è impegnata proprio nel tentativo di scongiurare il sequestro del centro oli, contestando il nesso causale tra il suo funzionamento e la reiterazione del reato, come all’Ilva di Taranto. E anche in Basilicata si farà leva sul fattore occupazionale che non riguarda solo i 196 occupati diretti al Cova ma molti di più: gli ultimi dati pubblicati nel LR 2014 mostrano che hanno lavorato per le attività di Eni Distretto Meridionale 3.530 persone di cui 409 occupati diretti e 3.121 occupati indiretti nell’indotto oil&gas. I dipendenti da giorni stanno facendo manutenzione alle macchine ferme, la certezza è che “viste le perdite, se l’attività non riprende a breve non potremo garantirgli un lavoro”. E il ricatto è servito.
Scambio di codici. E le sostanze nocive finiscono nel pozzo – 
Poi c’è l’ambiente, poi. 
E’ l’ordinanza del Noe dei carabinieri il fulcro di questa storia che porta all’emissione di una cinquantina di provvedimenti cautelari e al sequestro preventivo dell’impianto Cova di Viggiano. Per l’alterazione dei codici rifiuto sono indagati vari manager e responsabili del centro, imprenditori dello smaltimento. L’elenco comprende funzionari della regione, otto manager dell’Eni nonché imprenditori affidatari di contratti di smaltimento. Tutti, secondo le accuse, contribuivano in vario modo a praticare e gestire il “traffico illecito di rifiuti”. Di queste condotte, al di là delle posizioni giudiziarie, resta il lascito di centinaia di migliaia di tonnellate di liquidi contenenti metidieanolammina (MDEA) e glicole trietilenico, sostanze tossiche che venivano comunemente smaltite come acque di produzione e reiniettate nel pozzo Costa Molina2, ubicato in agro di Montemurro (PZ), benché in realtà fossero “rifiuti speciali pericolosi” da trattare anziché nascondere sotto terra. Le cronache lucane sono piene di studi, rilevazioni e dossier che attestano da anni il riemergere degli inquinanti e degli scarti di estrazione/lavorazione degli idrocarburi. Dati che venivano smentiti dall’Eni e dalle autorità pubbliche, sulla scorta di certificazioni che l’inchiesta definisce senza fronzoli “false”.
Sforamenti e allarmi ignorati. Il sistema per nasconderli – False anche le attestazioni sulla capacità inquinante dei camini del centro Oli che, insieme ai residui di produzione, sono l’altro fattore di maggior impatto ambientale. Qui gli inquirenti hanno fatto un lavoro certosino tra intercettazioni e documenti, rilevando come gli allarmi per gli sforamenti dei limiti alle emissioni in atmosfera fossero sistematicamente falsati, per ricondurli ai valori delle prescrizioni e nasconderli alle autorità competenti, sempre allo scopo di non incorrere nel blocco delle attività del centro. A consentirlo era il sistema automatizzato di monitoraggio degli allarmi, che prevedeva l’invio di un sms a una lista di funzionari dell’Eni-Cova, con anche l’indicazione del punto di emissione (camino). Solo tra dicembre 2013 e luglio 2014 ne arrivano 208, tutti a indicare l’avvenuto superamento dei limiti di emissione di Nox So2.
Il Noe di Potenza accerta però che per molti avvisi scattava da parte dei vertici del Centro Oli una “condotta fraudolenta volta a nascondere agli enti di controllo le reali cause del problema e celare le inefficienze dell’impianto”. Nelle intercettazioni, ad esempio, i vertici della gestione ambientale del SIME di Eni, Vincenzo Lisandrelli e Roberta Angelini, si accordano su come giustificare gli sforamenti per farli apparire transitori, al fine di non palesare i persistenti problemi dell’impianto che possono causare problemi di carattere prescrittivo. Un trucco per abbattere il numero di sforamenti segnalati era quello di tenere aperta la comunicazione oltre le 24 ore previste, così da far rientrare più eventi in una sola.  “Appare chiaro”, scrivono i magistrati “che i problemi impiantistici che causano gli sforamenti delle emissioni in atmosfera del Cova hanno ripercussioni anche sulla qualità dei rifiuti liquidi che escono dal Cova e vanno a smaltimento presso i vari depuratori finali”. E’ il perfetto (quanto illecito) ciclo dei rifiuti: dove a un dato alterato ne segue un altro, lungo tutta la filiera che porterà l’ombra nera del petrolio più sporco sulla Val D’Agri.