domenica 30 aprile 2017

GLI ERRORI FATALI DEL FONDAMENTALISMO FINANZIARIO SPIEGATI DA UN PREMIO NOBEL. - William Vickrey

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Nel mese di ottobre 1996, il premio Nobel per l’Economia William Vickrey pubblicò un articolo che illustrava “I 15 errori fatali del fondamentalismo finanziario”: per esempio il sacro terrore del deficit e del debito pubblico, legato a erronee analogie tra comportamento economico del singolo e azione dello Stato. Queste fallacie sono rimaste ben vive – o meglio, sempre più vive – nel dibattito pubblico, e lo hanno anzi permeato, trovando un’applicazione concreta, dai risultati disastrosi, nelle regole di Maastricht. Per questo oggi abbiamo scelto di ripresentarne alcune, con la spiegazione del perché si tratta di ragionamenti sbagliati e – se tradotti in pratica – forieri di inutili sofferenze. Quelle che in un’eurozona intrappolata in questi errori, purtroppo, sono ormai evidenti agli occhi di tutti. 
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In campo economico, una grande parte delle teorie convenzionali oggi prevalenti negli ambienti finanziari, ampiamente utilizzate come base per le politiche governative, nonché pienamente accettate dai media e dall’opinione pubblica, si basa su analisi parziali, su ipotesi smentite dalla realtà e su false analogie.
Per esempio, si sostiene che sia bene incoraggiare il risparmio, senza prestare attenzione al fatto che, per quanto riguarda la maggior parte delle persone, favorire il risparmio significa scoraggiare il consumo e ridurre la domanda, e che una spesa fatta da un consumatore o da un governo è anche un reddito per i venditori e i fornitori, così come il debito pubblico è anche una risorsa. Altrettanto sbagliato è ritenere che ciò che è possibile o auspicabile per i singoli individui presi singolarmente sia ugualmente possibile o auspicabile per tutti  o per l’economia nel suo insieme.
E spesso sembra che l’analisi sia basata sul presupposto che la produzione economica futura sia quasi totalmente determinata da forze economiche inesorabili, indipendenti da qualsiasi strategia politica del governo, tanto che dedicare più risorse a un certo scopo porti inevitabilmente a sottrarle ad un altro. Questo potrebbe essere giustificabile in un’economia in completa piena occupazione o potrebbe essere in un certo senso convalidato supponendo che la Federal Reserve scelga e riesca a sostenere una politica di rigido mantenimento della disoccupazione al livello del suo tasso “naturale” o di “non accelerazione dell’inflazione”.  Ma nelle condizioni attuali non è né probabile né auspicabile che si riesca a ottenere un risultato simile.
Quella che segue è la lista di alcuni degli errori che derivano da questo modo di pensare. Presi nel loro insieme, stanno portando a politiche che nella migliore delle ipotesi ci tengono nella depressione economica, con tassi di disoccupazione generale bloccati tra il 5 e il 6 per cento. Questo sarebbe già abbastanza grave anche solo se provocasse una perdita del 10 – 15 per cento della nostra produzione potenziale ripartita uniformemente su tutte le categorie sociali: ma diventa gravissimo quando si traduce in una disoccupazione del 10, 20 e 40 per cento tra i gruppi sociali più svantaggiati; gli ulteriori danni in termini di povertà, disgregazione familiare, dispersione e abbandono scolastico, illegalità, uso di droghe e criminalità, diventano veramente pesanti. E se le politiche in questione saranno applicate fino in fondo insistendo sul “pareggio di bilancio”, possiamo aspettarci sicuramente una depressione grave. 
Il deficit pubblico danneggia le generazioni future?
Il deficit pubblico è considerato una spesa dissoluta e peccaminosa, fatta a scapito delle generazioni future, cui sarà lasciata una minore parte di capitale investito. Un errore che sembra derivare da una analogia sbagliata con i debiti contratti dai privati.
La realtà è quasi esattamente l’opposto. Il deficit si aggiunge al reddito netto disponibile dei cittadini, nella misura in cui le spese pubbliche, che costituiscono reddito per i loro destinatari, superano ciò che viene sottratto al reddito disponibile tramite imposte, tasse e altri oneri. Questo potere d’acquisto aggiuntivo, una volta speso, fornisce domanda aggiuntiva al mercato, spingendo i produttori a investire per aumentare la capacità produttiva degli impianti,  che sarà parte della vera eredità che rimane per il futuro.  Questo va ad aggiungersi a tutto ciò che gli investimenti pubblici rappresentano in infrastrutture, istruzione, ricerca e via dicendo. Maggiori deficit, sufficienti a rimettere in circolo la parte di risparmio – proveniente da un prodotto interno lordo (PIL) in crescita – che eccede quel che viene assorbito dagli investimenti privati a fini di profitto, non sono un peccato economico, ma una necessità economica. Quello che potrebbe causare problemi è un deficit in eccesso rispetto alle effettive possibilità di crescita in termini reali, ma siamo lontanissimi da questo scenario.
Del resto, anche prendendo per buona l’analogia con il comportamento dei singoli, le conclusioni sono assurde. Se a General Motors, AT&T, e alle singole famiglie fosse richiesto di avere il bilancio sempre in pareggio come è richiesto allo Stato, non esisterebbero le obbligazioni, i mutui, i prestiti bancari… mentre ci sarebbero molte meno automobili, telefoni e case. 
Incentivare il risparmio stimola la crescita?
Si sostiene che bisogna sollecitare o incentivare i singoli a risparmiare di più per stimolare gli investimenti e la crescita economica. Questa convinzione sembra derivare dal presupposto che il prodotto aggregato sia invariabile, cosicché ciò che non è destinato al consumo necessariamente e automaticamente viene dedicato alla formazione del capitale.
Anche in questo caso, in realtà è vero l’esatto contrario. In un’economia monetaria, per la maggior parte delle persone la decisione di risparmiare di più comporta la decisione di spendere di meno; ma meno spesa da parte del risparmiatore significa  meno reddito e meno risparmio per i rivenditori e i produttori; in questo modo il risparmio aggregato non viene aumentato, ma diminuito, perché rivenditori e produttori a loro volta riducono le loro spese, il reddito nazionale si riduce e con esso il risparmio nazionale. Un determinato individuo può infatti riuscire ad aumentare il proprio risparmio, ma solo a spese del reddito e del risparmio degli altri in misura anche maggiore.
Se il risparmio è costituito da una minor spesa per servizi, per esempio un taglio di capelli, l’effetto sul reddito e sul risparmio del fornitore è immediato ed evidente. Se riguarda una merce immagazzinabile, ci può essere un temporaneo investimento in magazzino, che però presto scomparirà, non appena il fornitore riduce le ordinazioni ai suoi fornitori per riportare il magazzino a un livello normale, il che porta infine a una riduzione della produzione, dell’occupazione  e del reddito.
Il risparmio non crea “fondi disponibili per il prestito” dal nulla. Non c’è alcun motivo di ritenere che l’accrescersi del conto in banca del risparmiatore aumenterà la capacità della sua banca di concedere prestiti più di quanto farà diminuire la capacità di concedere prestiti della banca del venditore. Se non altro, è più probabile che un venditore sia attivo sui mercati azionari o che usi il credito aumentato dalle vendite per fare investimenti nella sua attività, rispetto alla probabilità che un risparmiatore risponda a incentivi come l’esenzione o il differimento di imposte sui fondi pensione: l’effetto netto degli incentivi al risparmio è quindi quello di ridurre l’ammontare totale dei prestiti bancari. Gli incentivi al risparmio, con la corrispondente riduzione della spesa, non fanno nulla per migliorare la disponibilità delle banche e degli altri istituti di credito a finanziare progetti di investimento promettenti. Se c’è disponibilità di risorse non impiegate, il risparmio non è né un prerequisito né uno stimolo, ma una conseguenza della formazione di capitale, dato che il reddito generato dalla formazione del capitale fornisce una fonte di risparmio supplementare. 
Il debito pubblico “spiazza” gli investimenti privati?
Si sostiene che il debito pubblico provochi un “effetto spiazzamento” nei confronti degli investimenti privati.
La realtà è che, al contrario, la spesa dei fondi presi in prestito (a differenza della spesa del gettito delle imposte) genera reddito disponibile aggiuntivo, aumenta la domanda di prodotti dell’industria privata, e rende quindi gli investimenti privati ​​più redditizi. Finché ci sono risorse inutilizzate in abbondanza, se le autorità monetarie si comportano con buon senso (invece di cercare di contrastare il presunto effetto inflazionistico del deficit), chi ha la prospettiva di un investimento redditizio può essere messo in grado di ottenere finanziamenti. In queste circostanze, ogni dollaro aggiuntivo di deficit nel medio-lungo periodo produce due o più dollari aggiuntivi di investimenti privati. Il capitale creato è un incremento della ricchezza – e ipso facto anche del risparmio – di qualcuno. La regola dell’ ”offerta che crea la propria domanda” non funziona più non appena una parte dei redditi generati dall’offerta viene risparmiata: mentre sono gli investimenti che creano il proprio risparmio, e anche di più. Lo “spiazzamento” che può verificarsi è solo il risultato, non della realtà economica sottostante, ma di  reazioni restrittive inappropriate  da parte di un’autorità monetaria come risposta al deficit. 
Se i deficit continuano, il costo del debito alla fine travolgerà il fisco?
Prospettiva reale: mentre gli osservatori allarmati si appassionano a proiezioni da film dell’orrore, in cui il debito pro capite diventa insostenibile e il pagamento degli interessi assorbe l’intero gettito fiscale, o si perde la fiducia nella capacità o volontà del governo di realizzare una pressione fiscale  tale da poter piazzare le obbligazioni sui mercati a condizioni ragionevoli, degli scenari di maggior buon senso prevedono un effetto trascurabile o addirittura favorevole sui conti pubblici. Se si mantiene la piena occupazione in modo che il PIL nominale continui a crescere, diciamo, a un tasso del 6% – circa il 3% di inflazione e circa il 3% di crescita reale – il debito per mantenersi in equilibrio dovrebbe crescere del 6% o forse anche a un tasso leggermente più alto; se il tasso di interesse nominale fosse l’8%, il 6% sarebbe finanziato dalla crescita, e solo il 2% resterebbe da pagare attraverso il bilancio corrente. Le imposte sul reddito da capitale degli interessi in aumento  ne compenserebbero una gran parte, e i risparmi legati alla riduzione della disoccupazione, delle prestazioni assicurative e dei costi sociali sarebbero più che sufficienti a coprire il resto, anche senza calcolare il notevole aumento delle entrate fiscali dovuto a un’economia più prospera. Anche se gran parte di queste entrate finirebbero nelle casse dei governi statali e locali, piuttosto che del governo federale, la cosa si potrebbe sistemare attraverso trasferimenti intergovernativi. Un debito di 15.000 miliardi è molto più facile da gestire in un’economia di piena occupazione, con spese sociali e sussidi di disoccupazione notevolmente ridotti, rispetto a un debito di 5.000 miliardi con un’economia in stagnazione e la capacità produttiva in rovina. Semplicemente, il problema non esiste. 
Il valore della moneta nazionale in valuta estera o in oro è una misura della salute economica di un paese?
Il valore della moneta nazionale in termini di una valuta estera (o in oro) è ritenuto un indicatore della salute economica del paese, e si pensa che le azioni intraprese per mantenere questo valore contribuiscano alla salute dell’economia. In alcuni ambienti si coltiva una sorta di orgoglio sciovinista per il valore della propria moneta, oppure si può trarre soddisfazione dal maggiore potere d’acquisto della moneta nazionale nei viaggi all’estero.
La realtà: tassi di cambio liberamente fluttuanti sono il mezzo con cui si riequilibrano i diversi andamenti del livello dei prezzi nei differenti paesi, mentre gli squilibri commerciali sono riportati in linea grazie a flussi di capitali utili ad aumentare la produttività complessiva del capitale. Cambi fissi o tassi di cambio limitati entro una banda di oscillazione ristretta possono essere mantenuti soltanto attraverso politiche fiscali coordinate nei paesi coinvolti, o imponendo tariffe che compromettono l’efficienza o altre restrizioni sul commercio, od obbligando a pesanti forme di disciplina, che implicano  tassi di disoccupazione inutilmente alti, come avviene per il trattato di Maastricht. I tentativi di controllare i tassi di cambio attraverso manipolazioni finanziarie, a fronte di squilibri di base, di solito alla fine saltano, con grandi perdite per le istituzioni che ci hanno provato e corrispondenti guadagni per gli abili speculatori. Ma anche se non c’è un crollo, gran parte della volatilità dei tassi di cambio può essere ricondotta a speculazioni sulla possibilità di massicci interventi da parte della banca centrale.
Le restrizioni sui tassi di cambio, come quelle previste negli accordi di Maastricht, renderebbero praticamente impossibile per una piccola economia aperta, come la Danimarca, perseguire autonomamente una efficace politica di piena occupazione al proprio interno. Gran parte dell’aumento di potere d’acquisto generato da una politica fiscale di stimolo della domanda sarebbe speso in importazioni, spalmando l’effetto stimolante sul resto dell’unione monetaria, così che la capacità di indebitamento della Danimarca si esaurirebbe molto prima di poter raggiungere la piena occupazione. Con tassi di cambio flessibili, l’aumento della domanda di prodotti importati provocherebbe invece un aumento del valore della valuta estera, che terrebbe a bada l’aumento delle importazioni e stimolerebbe le esportazioni, in modo da mantenere in casa il grosso degli effetti di una politica espansiva. In un regime di cambio liberamente fluttuante, il pericolo di selvaggi attacchi speculativi nella circostanza di una politica di pieno impiego consolidata sarebbe molto diminuito, soprattutto se combinato con una terza dimensione di controllo diretto sul livello generale dei prezzi nazionali.
Allo stesso modo, la ragione principale per cui stati ed enti locali non possono perseguire una politica indipendente di piena occupazione, è che sono privi di una moneta autonoma, e sono costretti ad avere un tasso di cambio fisso con il resto del paese.
Se ne deduce che debito pubblico non è negativo se il valore aggiuntivo - costituito dal debito pubblico più il reddito netto dei cittadini - viene utilizzato in infrastrutture, istruzione e ricerca. Lo diventa se viene sperperato.
In pratica, se il valore del debito viene impiegato in qualcosa di utile, produce reddito anche nel privato.
Mi pare, inoltre, di capire che uno stato, se riesce a mantenere l'occupazione e a buoni livelli, riuscirebbe a mantenere stabilità anche nel debito pubblico riducendone, automaticamente, il peso del tasso di interesse.
Come sospettavo, da digiuna in materia economica, ma in possesso di materia cerebrale funzionante, ho la conferma che gli accordi stabiliti dalla UE sono deficitari in quanto non sono basati su politiche fiscali coordinate nei paesi coinvolti.
Infine, la mancata sovranità monetaria di uno stato, aggiunta ad un basso livello di occupazione, aggiunta ai cambi fissi o tassi di cambio limitati entro una banda di oscillazione ristretta, sottopongono lo stato stesso al pericolo di selvaggi attacchi speculativi. Come già successo alla lira nel 1992 ad opera di Soros.
In pratica, la Ue è nata male!

sabato 29 aprile 2017

Dov'è la sinistra?

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Scusate, sapete dirmi dov'è andata la sinistra? 
La cerco, ma non la trovo.....🤔😳☹️😭

ONG, Zuccaro, il mio parere.

Migranti, scontro nel governo, Gentiloni: "Grati a lavoro delle ong". Alfano: "100% ragione a pm Catania". Orlando: "Parlino atti giudiziari"

Se è vero ciò che afferma Zuccaro, c'è da rabbrividire; e non è la prima volta che l'uomo utilizza esseri umani come schiavi per trarne un profitto economico.
In ogni caso, ha fatto bene Zuccaro ad esprimere il suo pensiero pubblicamente, sappiamo come i governi propendano a coprire ed insabbiare faccende poco chiare dalle quale si evince quanto poco controllino il territorio o quanto amino stipulare accordi con organizzazioni di dubbia trasparenza legale per puro profitto economico o per il potere in se stesso.

Pare, inoltre, che alcune di queste ONG siano creature di Soros che, per chi ancora non lo conoscesse, è questo: 
https://it.wikipedia.org/wiki/George_Soros, per cui viene spontaneo dubitare che le sue non operino in nome dell'altruismo, della magnanimità, della benevolenza e della trasparenza.

C'è da prendere le distanze da chi commette reati e da chi permette che vengano impunemente commessi. 
Ed ogni giorno aumentano i motivi per farlo.

mercoledì 26 aprile 2017

25 aprile, festa della liberazione.


Partigiani_sfilano_per_le_strade_di_milano Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=18653

L'anniversario della liberazione d'Italia (anche chiamato festa della Liberazioneanniversario della Resistenza[2] o semplicemente 25 aprile) è una festa nazionale della Repubblica Italiana che ricorre il 25 aprile di ogni anno.
È un giorno fondamentale per la storia d'Italia ed assume un particolare significato politico e militare, in quanto simbolo della vittoriosa lotta di resistenza militare e politica attuata dalle forze partigiane durante la seconda guerra mondiale a partire dall'8 settembre 1943 contro il governo fascista della Repubblica Sociale Italiana e l'occupazione nazista.(wiki)
Tante le manifestazioni in memria dello storico avvenimento. 
Tra questi:
"Doppio corteo a Roma per la festa della Liberazione, uno dell'Anpi (senza Pd) e l'altro della Brigata ebraica." (fonte L'Espresso)

Non nego di essere felice di non essere vissuta durante la dittatura fascista e sono estremamente grata a chi si è fatto carico di liberarci da tale sciagura.
Ma poi mi domando......di quale libertà parliamo?
Ci riferiamo alla libertà di vivere e di dire, limitatamente alle regole dettate, ciò che più ci pare? 
Io gradirei una libertà più ampia, 
- senza confini di stato perché la terra è di tutti; 
- senza religioni che altro non sono che partiti politici camuffati da credenze teistiche; 
- senza i paletti ideologici dettati da personaggi inqualificabili che vogliono detenere il potere di guidare le masse e, quindi, di possedere le menti per possedere al massimo; 
- una cultura più ampia, accessibile a tutti, senza distinzione di grado sociale o possibilità economica;
- un lavoro dignitoso e produttivo, in condizioni di libertà, uguaglianza, sicurezza e dignità umana;
- uguaglianza sociale;
- giustizia equa per tutti;
e tante, tante altre cose....
In realtà, con questa limitata libertà io mi sento impotente e incatenata. 
Festeggiamo una liberazione limitata solo per gratificare chi si è sacrificato quasi inutilmente per noi e per dare ai sostituti dei precedenti oppressori la possibilità di possederci con una spolverata di finta democrazia: 
Tanto per gradire.
La realtà è che siamo ancora legati, e mai liberi di pensare in piena libertà.
La realtà è che non siamo liberi, non lo siamo affatto e perdiamo pezzi di libertà ogni giorno irrimediabilmente.
Siamo schiavi di false dottrine, schiavi del potere economico, schiavi di ipocrisie, schiavi dell'ignoranza, incatenati da lusinghe.

domenica 23 aprile 2017

Bando per la tenuta di Castelporziano: scelta la figlia dell’ex vicesegretario del Quirinale. Pronti ricorsi: ‘Non ha i requisiti’. - Thomas Mackinson

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Per la prima volta l'incarico triennale da 125mila euro l'anno viene affidato tramite selezione pubblica per titoli. Partecipano in 577 e 16 sostengono i colloqui, tra cui il fior fiore dei direttori di parchi e aree protette, docenti universitari e dirigenti forestali. Risultato? A dirigere la residenza estiva del Presidente viene scelta Giulia Bonella, 44 anni, figlia dell’ex vicesegretario generale della Presidenza della Repubblica, lo stesso organismo che ha gestito la selezione. Il Quirinale: “Ha tutti i titoli e il cv europeo non contempla l’indicazione delle parentele”.

Ne aveva parlato perfino il Tg1: per la prima volta il Quirinale sceglie con una selezione pubblica per titoli il nuovo direttore della tenuta di Castelporziano, residenza estiva del presidente con annessi seimila ettari di macchia mediterranea incontaminata. Basta nomine a chiamata diretta, viva la trasparenza e la meritocrazia. E che sia d’esempio agli italiani tutti. La selezione per quel ruolo di assoluto prestigio, che vale un compenso annuo di 125.080 euro, effettivamente viene fatta con tanto di avviso (a dicembre) e commissione di valutazione di saggi (a marzo). La competizione è durissima: 577 candidati e 17 selezionati per il colloquio conoscitivo.
Tra il 6 e 7 marzo 2017 sfilano davanti al Segretario generale della Presidenza Ugo Zampetti e all’apposita commissione candidati con curriculum più che importanti e attinenti all’incarico: ex direttori di Parchi nazionali, docenti universitari, dirigenti forestali con lunghi anni di esperienza nella gestione delle riserve naturali dello Stato. L’esito è che la più idonea a dirigere la tenuta presidenziale in vita sua non ha mai diretto un parco o una riserva naturale. Dubbi sono anche i requisiti minimi per partecipare al bando, come la formazione post laurea e un’esperienza “almeno decennale” con compiti di “direzione, programmazione e coordinamento in settori che abbiano attinenza con il presente avviso e con le attività svolte presso la Tenuta di Castelporziano”.
A lasciare di sasso gli esclusi è però un altro dettaglio: la nuova numero 1 di Castelporziano è infatti la figlia della ex vicesegretario generale della Presidenza della Repubblica, e cioè lo stesso organismo che ha gestito la selezione. Ad aggiudicarsi il prestigioso incarico è infatti Giulia Bonella, 44 anni, che a Castelporziano ha svolto un tirocinio nel 1998 sul tema “La rinnovazione del Punus pinea in presenza di carico eccessivo di cinghiali”. Il Colle ribatte di aver tenuto conto dell’avviso unanime del gruppo di lavoro motivato “dall’eccellente livello delle sue competenze ed esperienze professionali, maturate in ambito pubblico e privato ed anche in sede europea”. E sulla parentela con la professoressa Carmela Decaro, docente alla Luiss di Roma, nominata da Carlo Azeglio Ciampi vice segretario generale tra il 1999 e il 2006, risponde che l’incarico è cessato 11 anni fa e che “l’avviso di selezione stabiliva che il cv dei candidati fosse redatto ‘in conformità del vigente modello europeo’, il quale, come è noto, non contiene voci relative alle generalità di parenti”.
I candidati esclusi promettono battaglia e la stessa Associazione italiana direttori e funzionari aree protette (Aidap) si appresta a scrivere una lettera aperta a Sergio Mattarella per chiedergli di intervenire a tutela della riserva e a garanzia della correttezza della procedura, sbandierata come prova di trasparenza e valorizzazione delle competenze ma risolta poi con una soluzione che sa di nepotismo. Si attrezza a ricorrere lo stesso presidente Aidap, Andrea Gennai, che ha partecipato alla selezione senza accedere al colloquio. “Sono due volte in imbarazzo, come candidato e come presidente”, racconta. “Mi pare evidente la sproporzione tra i titoli e le esperienze di molti professionisti e quello della nuova direttrice. Il punto non sono i suoi ascendenti familiari, ma che la selezione sia stata fatta nel rispetto dei requisiti del bando. A fine marzo ho fatto richiesta di accesso agli atti per avere il verbale conclusivo della commissione d’esame e il cv del vincitore. Non ho ricevuto risposta”.
Vero è che Castelporziano è un parco anomalo, dice Gennai, perché è un’area protetta ma nasce come tenuta presidenziale e perciò unica, “anzi doppia perché c’è anche la gemella di San Rossore (Pisa) che dal 1999 è della Regione Toscana. Io ne sono stato direttore per tre anni e mezzo e avevo 14 dipendenti del Colle laggiù. Confermo che le due tenute hanno una gestione peculiare, ma siccome l’ho fatta e m’hanno escluso ritengo abbiano seguito criteri diversi”. Sconcertato è pure Giorgio Boscagli, 64 anni, direttore del Parco nazionale Foreste casentinesi e per 20 anni biologo ispettore di sorveglianza del Parco d’Abruzzo. È tra i 17 che hanno superato di slancio la preselezione, ma il colloquio? “Non posso dire che sia stata una farsa ma francamente non ho avuto la sensazione di un reale interesse ad approfondire competenze e conoscenze. Poi ho letto il curriculum della professionista scelta e non fatico ad ammettere che altri erano assolutamente preponderanti”.
Difficile dire come finirà. Eventuali ricorsi devono essere proposti alla stessa presidenza della Repubblica, che è organo costituzionale e come tale autodetermina i propri giudizi, salvo che un altro organo di giustizia non intervenga, aprendo la strada al conflitto d’attribuzione. Improbabile. Così come il passo indietro sul nome del nuovo capo della Riserva presidenziale accolto con fior di riserve. Di sicuro la vicenda non aiuta lo sforzo profuso finora dal presidente Mattarella a convertire l’ex reggia reale in uno spazio aperto ai cittadini e alle regole che governano la pubblica amministrazione vincolandola a procedure trasparenti. Neppure a levare le vecchie macchie che proprio a Castelporiziano hanno imbrattato l’immagine della Presidenza.
Di pochi giorni fa la notizia, rilanciata da Repubblica, del conflitto di attribuzioni sollevato dal Quirinale contro la Corte dei Conti davanti alla Consulta proprio per una vicenda di ruberie e nepotismo nella tenuta emersa nel 2009, quando un’ispezione rivelò un ammanco di quasi 5 milioni di euro dalle casse tra spese ed esborsi ingiustificati. Ne era scaturita un’indagine penale e un procedimento civile che avevano coinvolto anche l’ex segretario generale Gaetano Gifuni e suo nipote per abusi edilizi ed ex dipendenti della contabilità che furono condannati a risarcire 4,6 milioni di euro, oltre a cento milioni per danno all’immagine. Su questa parte, però, la Corte dei Conti nel 2016, è arrivata a conclusioni differenti, non riconoscendo i danni d’immagine e chiedendo il risarcimento solo all’imputato assolto per omessa vigilanza. Contro la decisione il presidente della Repubblica ricorre alla Consulta. Di mezzo equità e giustizia. Le stesse che i candidati direttori scartati per una sospetta raccomandazione.

venerdì 21 aprile 2017

Lo cercano in 800, con cani molecolari, da 16 giorni......ma non l'hanno trovato.....

L'immagine può contenere: 1 persona, spazio all'aperto e natura

Anac, il governo leva i superpoteri a Cantone. Poi ci ripensa. - Nino Femiani

Raffaele Cantone (ImagoE)

Gentiloni rassicura subito il capo dell'Anticorruzione: "Riprisitineremo la norma".

Roma, 21 aprile 2017 - Un comma abrogato nel codice sugli appalti e scoppia la polemica. Viene cancellato nel Consiglio dei ministri il secondo comma dell’articolo 211 e, nei fatti, vengono tagliate le unghie all’Anac, l’autorità nazionale anticorruzione di Raffaele Cantone. Cosa era scritto in quella decina di righe finite al macero? 
Permettevano all’Anac di essere vincolante, anche nelle sanzioni comminate (fino a 25 mila euro a carico del dirigente responsabile), se ravvisava gravi illeciti. Un bisturi contro i corrotti, perché consentiva di mostrare il cartellino giallo appena ravvisava un "sussistente vizio di legittimità in uno degli atti della procedura". In 60 giorni la stazione appaltante si doveva ‘ravvedere’, altrimenti scattava il cartellino rosso. Tutto questo è stato depennato nel corso del consiglio dei ministri del 19 aprile, in occasione dell’annuale ‘tagliando’ (previsto dallo stesso codice), creando le premesse per ‘rimpicciolire’ Cantone e la sua Agenzia con un ritorno di grand commis e lobbisti. Finora la ‘raccomandazione vincolante’, figlia dei poteri dell’Autorità e disposta dal comma 2, era stata usata da Cantone una sola volta, pochi giorni fa. Questo perché il regolamento su come esercitare l’attività di vigilanza era stato approvato appena il 15 febbraio.
Gentiloni, in missione negli Usa, fa sapere che non c’è "nessuna volontà politica di ridimensionare i poteri dell’Anac". Fonti di Palazzo Chigi aggiungono che il premier "è stato in contatto con Cantone". Sul punto, assicurano, "sarà posto rimedio già in sede di conversione del decreto in maniera inequivocabile". Cantone, gelato dall’intervento del governo, "prende atto positivamente" dell’impegno assunto dal premier, ma manifesta perplessità per il fatto che la norma non sia stata discussa né abbia potuto avere un confronto in Parlamento. Un banale scivolone burocratico (carte non lette dai ministri e passate alla firma) o un segnale inviato a Cantone considerato da alcune parti un ingombro, insieme al codice degli appalti, per il decollo degli investimenti? Nella nebbia politica, sollevata in queste ore, non è chiaro chi abbia materialmente cancellato il comma anticorruzione. Tutti puntano il dito contro il governo e bordate arrivano da maggioranza e opposizione.
"Questa soppressione è un atto grave e i responsabili devono assumersene la responsabilità. Siamo di fronte a una violazione del rapporto tra Parlamento e governo", tuona il senatore Stefano Esposito, componente della Commissione Lavori Pubblici che è saltato dalla sedia quando ha visto il testo. "Con un colpo di spugna l’Anac ha perso i suoi poteri. La legge è passata per il Consiglio dei ministri che, o non ha capito nulla e quindi firma senza leggere le carte, oppure è complice. Rimane la domanda: chi vuole depotenziare l’Anac?", si interroga Roberta Lombardi del M5S.
Oltre a politici e burocrazia, sono in molti a voler fare lo sgambetto a Cantone. Secondo una ricerca Ance – l’associazione costruttori edili – il nuovo codice sta spaventando gli amministratori pubblici. Norme poco rodate, procedure farraginose, soft law, hanno avuto come conseguenza un calo degli investimenti. Nei primi 11 mesi del 2016 i bandi di gara per lavori pubblici sono diminuiti del 12,6% in valore in confronto all’analogo periodo del 2015. Giù soprattutto gli appalti dei Comuni, ridotti del 38,3% in valore. Con gli assessori locali che hanno scelto di andare avanti con tanti piccoli bandi, inferiori a 150mila euro, cresciuti del 23%. Altro che trionfo della trasparenza.
Ancora una volta il governo cerca di proteggere chi corrompe o viene corrotto!