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martedì 26 aprile 2022

Il conflitto in Ucraina è il fallimento (di parte) della classe dirigente italiana. - Alessandro Orsini

Il valore di una classe dirigente si misura dalla sua capacità di fare previsioni. Ad esempio, il generale Vincenzo Camporini, il 14 febbraio 2022, durante una diretta a Tutta la città ne parla (Radio 3), ovvero dieci giorni prima dell’invasione russa dell’Ucraina, si era detto assolutamente certo che Putin non avrebbe mai dato l’ordine di invadere l’Ucraina. Le parole di Camporini furono queste: “Io credo che gli attori di questa questione siano attori razionali e che Putin sia una persona razionale. L’attacco militare di massa della Russia contro l’Ucraina è privo di qualsiasi credibilità”. Camporini è stato uno dei generali italiani più alti in grado, addirittura capo di Stato maggiore. Oggi si è dato alla politica. Fa il consulente alla difesa per un piccolo partito politico. Il 14 febbraio 2022, Putin aveva già ammassato 180.000 soldati al fronte. Era davvero impossibile immaginare che non avrebbe invaso l’Ucraina. Eppure Camporini giurava che non avrebbe osato tanto. Desta impressione. Ma c’è di più: durante un’audizione al Senato del 4 dicembre 2018, Confindustria chiedeva di ritirare le sanzioni contro la Russia. Quanto ai nostri governi, non si sono mai preoccupati di diversificare l’acquisto delle fonti energetiche: non hanno mai pensato che Putin avrebbe invaso l’Ucraina. Dunque, il fallimento della classe dirigente italiana riguarda i generali (non tutti, per fortuna), la classe industriale e quella di governo. Potremmo dire che siamo in presenza di un fallimento totale. Le ragioni di una condizione così avvilente sono numerose, ma, al momento, nessuno le discute, nonostante un dibattito su questa smisurata incapacità di previsione sia vitale per gli interessi nazionali dell’Italia. La tecnica per non riflettere su questo fallimento totale è parlar male di Putin. Tutte le attenzioni dei cittadini devono essere dirottate contro la Russia e, soprattutto, l’intero dibattito politico-strategico deve essere impostato in termini moralistici. Le persone vengono così indotte a ritenere che il dibattito debba affrontare una sola domanda: se sia moralmente giusto o sbagliato che la Russia abbia invaso l’Ucraina. Ciò che sta accadendo in Italia è importante perché consente di osservare, in misura ravvicinata, come la libertà di informazione possa essere “costretta” e “ristretta” anche nelle società libere. Il problema è questo: nelle società libere, le teste degli elettori non possono essere rotte con i manganelli e allora il problema è elaborare le tecniche più raffinate per controllarle attraverso la distorsione e la manipolazione dell’informazione. La prima tecnica fondamentale per il controllo dell’informazione nelle società libere in tempo di guerra consiste nel suscitare il sentimento di identità nazionale, che oggi diventa sentimento di identità europea. L’appello a essere tutti uniti svolge una funzione manifesta e una funzione latente. La funzione manifesta è quella di unire la popolazione davanti al nemico avanzante. La funzione latente, cioè quella che le persone comuni colgono più difficilmente, è quella di chiudere la bocca ai critici e a coloro che sollevano dubbi sulle scelte dei governi in carica. In questo modo, il governo non deve rompere le teste dei cittadini; deve semplicemente lasciare che il lavoro sporco sia fatto da milioni di persone comuni sollevando un’ondata di violenta intolleranza. Ecco che i critici e i dubbiosi, che sono poi la vera salvezza di un Paese in guerra, vengono “silenziati”, anche se, in apparenza, le libertà liberali sono garantite giacché l’intolleranza collettiva orientata dal governo non richiede l’approvazione di nuovi decreti o la modifica della Costituzione. Non esistono “società libere”. Esistono società più o meno libere e noi dobbiamo capire in quale siamo.

Il conflitto in Ucraina è il fallimento (di parte) della classe dirigente italiana - Il Fatto Quotidiano

sabato 14 febbraio 2015

Giornalista, perché le bevi (quasi) tutte? - Marcello Foa


La notizia è di qualche giorno fa: la Troika ha piegato la Grecia anche grazie alle sottili pressioni di Sarkozy, il quale, avendo avuto accesso alla lista dei clienti Hsbc trafugata a Ginevra da Falciani, sapeva che la madre dell’allora premier per di più socialista Papandreu possedeva un conto non dichiarato da 500 milioni di euro. 
Diciamola tutta: fu un complotto, di cui naturalmente nessuno  era a conoscenza.

L’ex ministro del Tesoro americano Geithner ha ammesso che nel 2011 Berlusconi fu disarcionato in seguito a un complotto. 
In Ucraina un anno fa la verità sulla cosiddetta rivolta di Piazza Maidan è stata ampiamente aggiustata a fini mediatici oltre che ovviamente politici, presentando quello che di fatto era un golpe sotto le sembianze molto più confortevoli della commovente e pacifica rivoluzione di piazza e tacendo sul pesante, decisivo coinvolgimento di forze paramilitari neonaziste.

La vicenda di Charlie Hebdo presenta ancora oggi numerosi aspetti non chiariti e alcuni sono davvero imbarazzanti per la stampa mondiale. Uno su tutti: quando i leader mondiali si sono ritrovati per capeggiare l’immensa marcia popolare in difesa della libertà di stampa; peccato, però, che i leader non abbiano mai guidato il corteo ma si siano fatti filmare in una strada chiusa al pubblico. Dietro di loro, come vedete nella foto sopra, non marciava nessuno. Ma naturalmente né i tg né i giornali lo hanno detto al pubblico, preferendo enfatizzare la verità formale.

Persino le rivelazioni sulla già citata Lista Falciani, non possono essere certo considerate giornalismo di inchiesta, sebbene siano state presentate come tali. Qualcuno – non è difficile immaginare chi – ha semplicemente recapitato a un pool di testate internazionali gli elenchi, di cui peraltro non si sa nemmeno se autentici. E i giornali hanno sparato i nomi in prima pagina, senza nemmeno chiedersi se loro fossero strumentalizzati e a chi convenisse la pubblica gogna.

Potrei continuare con molti esempi sia recenti sia lontani ma mi fermo qui.

Chi segue questo blog conosce la mia posizione, piuttosto critica nei confronti del modo in cui oggi viene fatta informazione, per la sconcertante facilità con cui gli spin doctor riescono ad orientare e sovente a manipolare i media. Ne ho parlato recentemente in un’intervista a Enzo Pennetta per Critica scientifica e in un intervento organizzato un paio di settimane fa a Firenze dal consigliere regionale Gabriele Chiurli, con la partecipazione di Raymond McGovern, che per anni è stato capo del National Intelligence Estimates, uno dei massimi organismi Cia, e ora è uno dei più arcigni difensori delle libertà civili e implacabile critico delle politiche della Casa Bianca, sia di George W. Bush sia di Barack Obama.

Condivido al 100% la sua analisi: oggi la stampa non svolge il proprio ruolo di cane da guardia della democrazia, semmai è vero il contrario: troppo compiacente, troppo schierata, troppo pavida nei momenti in cui bisognerebbe essere coraggiosi. Si beve tutte le bufale degli spin doctor. 

Il suo giudizio riguarda la stampa americana – che noi continuiamo a torto a mitizzare, come se fosse ancora quella dei tempi del Watergate – ma è estendibile a quella europea.
E McGovern non è certo un complottista, tutt’altro: adotta un approccio pragmatico e saggio. Non insegue le proprie fantasie e i propri sospetti, per quanto suggestivi, ma si basa  sull’analisi dei fatti, sull’individuazione delle incongruenze, sulla formulazione insistita e pertinente di domande sugli aspetti poco chiari di una vicenda, sulla capacità di individuare connessioni non evidenti a prima vista e di costruire il proprio giudizio su prove o comunque su riscontri oggettivi. Insomma, ricostruisce con il dovuto scetticismo.

Ed è paradossale che debba essere un ex analista della Cia animato da un’ardente passione civica a ricordare ai giornalisti quella che dovrebbe essere una caratteristica innata di chi fa il mio mestiere.

Non è l’unico, peraltro.

L’ex consulente politica Naomi Wolf, diventata una scrittrice famosa in particolare grazie al romanzo The end of America in cui denuncia i rischi di un’involuzione totalitaria negli Stati Uniti, in una recente conferenza ha toccato gli stessi argomenti, giungendo a conclusioni analoghe, forse ancor più coraggiose.
“Siamo entrati in un’era in cui non è assurdo per un giornalista chiedersi sistematicamente se gli eventi a cui assiste sono veri o falsi. E più un evento è spettacolare, più alto è il rischio che sia stato inventato ad arte ovvero che si tratti di notizie false, create da governi e  da servizi segreti“, dichiara la Wolf.

Dubitare è l’unica forma di autodifesa. Per se stessi e per servire davvero il lettore.