sabato 13 ottobre 2012

Tutto su Formigoni e lo scandalo Oil for Food. - Gabriele Ferraresi


formigoni opil for food
Foto | Flickr

Si parla tanto in queste ore dello scandalo Oil for Food in cui sarebbe coinvolto Roberto Formigoni. In realtà nessuno capisce mai bene di cosa si tratti. Ce lo spiega perfettamentequesta scheda dal sito delle Nazioni Unite, ve la traduco al volo:
Il 14 aprile 1995 il Consiglio di Sicurezza ha approvato la risoluzione 986, denominata programma “Oil for Food”. Il programma intendeva offrire all’Iraq la possibilità di scambiare petrolio con beni alimentari, medicine, e di prima necessità. La risoluzione è intesa come “temporanea misura allo scopo di soddisfare i bisogni umanitari della popolazione irachena”
Uhm, in tutto questo ci si dimentica della Seconda Guerra del Golfo. Oh bè, dettagli. In sintesi però, che c’entra Roberto Formigoni con tutto questo? Come si mischiano CL e le Hummer H2 dell’esercito Usa, Don Giussani e e la Exxon, Kofi Annan - e suo figlio, soprattutto - e la Compagnia delle Opere? Vediamo.
Sotto l’egida dell’ONU, venne venduto sul mercato mondiale petrolio per più di 130 milioni di dollari. Ufficialmente, circa 90 milioni furono usati per bisogni umanitari, una parte per ricostruire i danni della guerra del golfo, una parte per supportare le operazioni amministrative e operative dell’UN (2.2%), e per finanziare i costi del programma di ispezione per la presenza di armi (0.8%)
In teoria il programma Oil for Food era una buona idea: petrolio in cambio di beni alimentari per una popolazione ridotta maluccio. Peccato che come spesso accade, ci si metta di mezzo l’umana avarizia: ed ecco che le trattative per chi debba fornire il “food” in cambio del prezioso “oil”, si fanno poco chiare. Per primo ne scrive Gatti sul Sole24Ore, il suo pezzo lo trovate in fondo al post. E si scopre che sono oltre 2200 le aziende coinvolte in questo scandalo, di cui oltre un centinaio italiane
Formigoni avrebbe indicato tramite lettera (consultabile a pagina 6 del Rapporto Onu) al numero due iracheno, Tareq Aziz, le società a cui assegnare la fornitura di greggio: una di queste, la Cogep, fa capo ai Catanese. Questa famiglia di imprenditori non è nuova alle cronache giudiziarie (…) Nonostante il passato poco limpido di questa famiglia, Marco Mazzarino De Petro, amico di Formigoni e personaggio chiave nell’organizzazione di queste trattative (e indagato per corruzione internazionale), accompagnò personalmente i dirigenti della società italiana in Iraq per la firma del contratto con il Regime di Saddam
La lettera di cui si parla nel quote qui sopra la trovate in fondo al post. Ed è presa da questo articolo, apparso sul sito dei Ds qualche anno fa, molto ben documentato. Ma perchè si torna a parlare oggi di Oil for Food e Formigoni? Perchè c’è un “pentito”, Fabrizio Loioli, che spiega come andavano le cose. Stante la presunzione d’innocenza, leggete qui sotto, è preso tutto da Affari Italiani che ha riscoperchiato un calderone che se ne stava chiuso da qualche tempo
“Durante la negoziazione mi chiesero quali sarebbero stati i costi per la mia intermediazione, aggiungendo che avevano affrontato gia’ notevoli spese. Precisarono che per aver ottenuto questo quantitativo di petrolio dovevano versare la somma di centomila dollari a Formigoni, che lo aveva fatto loro ottenere, somma da versare non direttamente a lui ma tramite un suo referente. Gli domandai perche’ e mi risposero che era grazie a lui che avevano ottenuto quell’allocazione”
Ora ovviamente Formigoni nega, ci mancherebbe anche altro. E il procedimento giudiziario deve ancora arrivare alla fine, di nuovo. Però è difficile non ripensare al figlio di Kofi Annan: la moglie di Cesare non dovrebbe essere al di sopra di ogni sospetto? Forse anche il figlio. Non era così, e Kojo Annan fu coinvolto nella vicenda Oil for Food, come si legge in questo vecchio pezzo del Sole24Ore
Kojo Annan, figlio del segretario generale dell’Onu Kofi Annan, ha ricevuto oltre 750mila dollari da varie società di trading petrolifero oggi sotto inchiesta per il loro ruolo nello scandalo Oil for food. Da un’indagine condotta dal Sole 24 Ore in collaborazione con il Financial Times, risulta che quei pagamenti sono stati fatti nel corso del 2002 e del 2003 su un conto personale aperto da Kojo Annan nella filiale svizzera della banca britannica Coutts.
 Documenti Oil for Food
Documenti Oil for FoodDocumenti Oil for FoodDocumenti Oil for Food



Romanzo Quirinale, the end. - Marco Travaglio.


Finalmente, dopo tre mesi di sanguinose accuse fondate sul nulla, anzi sul falso, la Procura di Palermo può difendersi alla Corte Costituzionale dal conflitto di attribuzioni scatenato dal presidente Napolitano.
La questione, come i nostri lettori ben sanno, nasce dalle telefonate (quattro, si apprende ora) fra il capo dello Stato e Nicola Mancino, indirettamente e casualmente intercettate sui telefoni di quest’ultimo, coinvolto nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia. Secondo il Quirinale, incredibilmente spalleggiato dall’Avvocatura dello Stato, la Procura avrebbe dovuto procedere all’“immediata distruzione delle intercettazioni casuali del Presidente” perché The Voice è inintercettabile e financo inascoltabile. La Procura non le ha fatte trascrivere né utilizzate, giudicandole penalmente irrilevanti, e si è riservata di chiederne la distruzione al gip secondo la legge: cioè in udienza alla presenza degli avvocati dei 12 imputati che possono ascoltarle ed eventualmente chiedere di usarle per esercitare i diritti di difesa. La cosa ha fatto saltare la mosca al naso a Napolitano e ai suoi cattivi consiglieri, terrorizzati dal rischio che un avvocato, dopo averle ascoltate, ne divulgasse il contenuto. Che, per motivi misteriosi (almeno per noi cittadini), deve restare un segreto di Stato. Di qui il conflitto con cui Napolitano, tramite l’Avvocatura, chiede alla Consulta di censurare i pm di Palermo per un delitto da colpo di Stato: “lesione” e “menomazione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica” perpetrata sia con “la valutazione sulla rilevanza delle intercettazioni ai fini della loro eventuale utilizzazione”, sia con “la permanenza delle intercettazioni agli atti del procedimento”, sia con “l’intento di attivare una procedura camerale” regolata dal contraddittorio tra le parti.
A lume di Codice, ma soprattutto di logica e di buonsenso, abbiamo più volte scritto che la pretesa del Colle è insensata. Ora l’insensatezza è autorevolmente confermata dalla memoria della Procura, firmata dall’ex presidente dell’Associazione dei costituzionalisti italiani Alessandro Pace e dagli avvocati Serges e Serio. I quali, prim’ancora di avventurarsi nell’interpretazione delle presunte prerogative del Presidente, dimostrano come il Quirinale e l’Avvocatura abbiano sbagliato indirizzo: ammesso e non concesso che le telefonate andassero distrutte subito, non poteva farlo la Procura, visto che quel potere è affidato in esclusiva al giudice. Cioè: eventualmente il conflitto andava sollevato contro il gip. Non solo: se, come ammette la stessa Avvocatura per conto del Colle, le intercettazioni furono “casuali” quindi involontarie, come si può sostenere che erano “vietate”? S’è mai vista una norma che vieta qualcosa di involontario e casuale? Per questi due motivi preliminari il conflitto è “inammissibile”, con buona pace della Consulta che s’è affrettata a dichiararlo ammissibile.
Poi è anche infondato, per diversi motivi di merito. Intanto i pm dovevano valutare quel che diceva Mancino, a meno di regalargli un’”immunità contagiosa” derivante dal fatto che parlava con Napolitano. E poi nessuna norma costituzionale né procedurale ha mai stabilito la non intercettabilità indiretta (e nemmeno, in via assoluta, quella diretta) del capo dello Stato. Che non è un monarca assoluto, infatti è immune solo nell’esercizio delle sue funzioni. Dunque la prerogativa invocata dal Colle non esiste. Ergo i pm non hanno leso alcunché. Anzi avrebbero violato il principio costituzionale del contraddittorio e i diritti delle difese se avessero obbedito al Colle. A questo siamo: a un presidente della Repubblica (e del Csm) che istiga la magistratura a violare la legge e la Costituzione. A sua insaputa, si capisce.
Il Fatto Quotidiano, 13 Ottobre 2012

Md contro Ingroia. La storia si ripete. - Giorgio Bongiovanni


ingroia-antonio-sfum-web
Nella storia della lotta alla mafia, e in particolare nel percorso vissuto da quegli uomini che hanno fatto della lotta alla mafia più che una professione una vera e propria “missione”, si sono verificate vicende così uguali (nella modalità e nella tempistica), che non si può non dire che la storia si ripete. Il percorso di Pietro Scaglione, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, passando per il generale dalla Chiesa, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tanti altri è stato per certi versi identico.
Queste persone avevano come denominatore comune il fatto di essere integerrimi nella lotta alla mafia, incorruttibili, dei veri leader capaci di smascherare (attraverso indagini strategiche, creando veri e propri pool) i rapporti tra la mafia e il potere. Oltre a questo comune denominatore ce n’era un altro ancora più devastante. Essere costantemente e implacabilmente attaccati e offesi dai nemici “legittimi” come i mafiosi, la stampa para mafiosa, il potere economico e soprattutto la politica di destra, di centro e anche di sinistra, nella migliore delle ipotesi “tollerante” della mafia, nella peggiore delle ipotesi “collusa” con la mafia. Ma non solo. La cosa più grave che si verificava e si verifica a tutt’oggi, a dimostrazione che la storia si ripete, riguardava  gli attacchi, gli ostacoli, i tradimenti, le offese, le invidie, le gelosie, l’odio che provenivano dagli amici, dall’interno delle istituzioni che loro stessi servivano e alle quali appartenevano.  L’ultimo, clamoroso, assurdo episodio che conferma la regola riguarda la volgare e incivile offesa che viene fatta al giudice Ingroia da Magistratura Democratica, l’istituzione tra le più importanti nella storia della magistratura fondata per tutelare non solo l’immagine, la professionalità e la preparazione dei magistrati iscritti a questa corrente, ma anche la libertà di pensiero.
Farà bene Ingroia a dimettersi da un movimento che si è trasformato da pionieristico a sinedrio, a chiesa, a setta.
Quello che ferisce maggiormente sono gli attacchi che giungono ad Antonio Ingroia dai colleghi e amici di indagini antimafia, amici con i quali Ingroia ha pianto sulle bare di Falcone e Borsellino. Perché succede tutto questo, qual è la ragione? Questi amici sono collusi con la mafia? Sono stati pagati dal potere per ostacolare Ingroia? Sicuramente no. A questi esponenti di Magistratura Democratica hanno promesso forse dei posti di potere nel prossimo governo? Sicuramente no, ma se dovessero continuare qualcuno potrebbe pensare male.
Si potrebbe anche pensare che si tratta di una strategia offensiva al contrario del tipo: io devo aiutare il mio amico che sta sbagliando, non è più umile, vuole essere protagonista e magari vuole scendere in politica quindi lo attacco per fargli capire che è nell’errore. Certi attacchi arrivano da personaggi che, dimenticando il passato, dimenticando le bare sulle quali hanno pianto, non si rendono conto che così facendo diventano complici ideali di coloro che vogliono che Antonio Ingroia appaia solo. A questi oscuri personaggi, ai killer e ai mandanti basta che Ingroia o magistrati come lui appaiono soli per poterli colpire. Ecco quindi che la storia si ripete.
Grazie a Dio all’interno di Md ci sono valorosi magistrati come Giancarlo Caselli, Vittorio Teresi, Lia Sava ed altri che al contrario difendono l’operato di magistrati come Ingroia.
Da giornalista che conosce a fondo la storia della mafia e dell’antimafia consiglierei ai vertici di Magistratura Democratica di battersi il petto e dire “mea maxima culpa”. Con umiltà e altrettanta fermezza consiglierei loro (al di là di eventuali legittimi disaccordi con Ingroia)  di apparire e dimostrare al nemico che si è uniti senza lasciare da solo l’amico, il collega e il fratello con il rischio che quest’ultimo venga colpito dal nemico. Mi rammarico tanto che alcuni di quei magistrati che hanno pianto sulle bare dei loro amici non abbiano tratto una lezione dal passato.
Oggi il giudice Ingroia viene accusato di voler scendere in politica, ma visto che salvo rarissime eccezioni (di singoli esponenti politici) è stato attaccato praticamente da tutti con quale partito potrebbe presentarsi?! Quale sarebbe quindi il grande partito politico che secondo i sondaggi appoggerebbe Antonio Ingroia?!
Di fatto tra le accuse a lui rivolte vi è quella che riguarda la sua partecipazione a convegni legati a partiti politici.   Ritengo che non solo faccia bene ad andarci, ma sottolineo come sia Giovanni Falcone che Paolo Borsellino abbiano partecipato a diversi incontri organizzati da partiti politici di destra (MSI) e di sinistra (PCI). A tal proposito basta riprendere  gli estremi delle date e dei luoghi che attestano la loro partecipazione a questi incontri (così come mi accingo a fare in un prossimo editoriale).
Secondo il mio pensiero Ingroia lascerebbe la toga solo nel caso in cui scoprisse che ormai la magistratura è arrivata al punto massimo delle indagini nella ricerca della verità sulle stragi di Stato; in quel caso quindi opterebbe per continuare quella ricerca attraverso la politica. Magistrati come Ingroia sono a tutti gli effetti servitori dello Stato-stato, sono gli stessi  che hanno promesso sulle bare degli eroi e dei padri della nostra Patria di trovare la verità dall’interno di qualunque istituzione facessero parte.
Ma di queste “eresie” evidentemente è meglio non farne menzione e lasciare piuttosto spazio a pericolose e strumentali polemiche tanto utili ai poteri criminali del nostro Paese.
Sono sempre più convinto che Magistratura Democratica perseveri nell’errore, così come si legge nella Bibbia “Errare humanum est, perseverare autem diabolicum”.  Non scorderò mai che nel 1988 Md, con il dissenso di Giancarlo Caselli (che votò a favore di Giovanni Falcone), ma sostenuta da quello che Paolo Borsellino definì un “Giuda”, bocciò Falcone come consigliere istruttore caricandosi una parte di responsabilità con la sua morte.
Il settarismo è il baratro delle religioni, ma dovremmo ricordarci che è altrettanto letale anche nei movimenti laici.

Dalla Sharp arrivano i pannelli solari trasparenti per balconi e finestre.- Enrica Bartolotta

pannelli solari sharp trasparenti per balconi e finestre

Il 1 di ottobre Sharp Japan ha presentato il suo nuovo pannello solare: un manufatto in vetro laminato nero e celle fotovoltaiche, disegnato apposta per singoli appartamenti da installare come parapetto per i balconi ma che essendo trasparente potrebbe anche essere applicato a finestre ad esempio nei grattacieli.
Essendo semitrasparente (Sharp See Thru) e poco più sottile di un centimetro, il pannello è perfetto per essere applicato sui balconi e ringhiere dei condomini. Oltre a consentire all’appartamento la dovuta privacy, è un perfetto schermo contro i raggi solari che vengono così immagazzinati ed usati come riserva di energia.

Purtroppo, i prodotti più efficienti attualmente in commercio hanno un coefficiente di conversione che arriva fino al 20% che, nel caso dei pannelli Sharp non arriva al 7%.
Una potenza energetica che rientra nell’ordine di un massimo di 95 Watt a pannello: un risultato per ora ancora non all’altezza rispetto a quelli raggiungibili oggi.
Bisogna però dire che sono davvero pochi i pannelli solari così sottili, in commercio, e questo di Sharp risponde ad un sempre crescente bisogno dei consumatori di voler essere green ma senza dimenticare raffinatezza e stile.
Inoltre per il momento, Sharp Japan non si è ancora pronunciata riguardo ad un’eventuale piano di vendita, perciò tutto può ancora succedere.
Incrociamo le dita! Per un vivere più sostenibile che sia anche elegante ed utile.
Guardate le immagini disponibili ad oggi dei Pannelli Sharp See Thru:
Pannelli Solari Sharp Trasparenti
Pannelli Solari Sharp Trasparenti

Ddl anticorruzione, Severino: “Deve essere attuato, ce lo chiedono Ue e cittadini”.


Ddl anticorruzione, Severino: “Deve essere attuato, ce lo chiedono Ue e cittadini”


"Sulla fiducia non è stata presa alcuna decisione. Sarà importante vedere gli emendamenti, poi si deciderà. Ma il disegno di legge deve essere attuato”. Così il ministro della Giustizia che ha aggiunto: "Non ce lo chiede solo l’Europa e il mondo economico, ma anche le persone oneste".


La legge anticorruzione va fatta. Lo chiedono l’Europa e i cittadini. Ne è convinta il ministro della Giustizia Paola Severino che, giungendo a Napoli a un convegno della Federazione dei cavalieri del lavoro, ha detto: ”Sulla fiducia non è stata presa alcuna decisione. Sarà importante vedere gli emendamenti, poi si deciderà. Ma il ddl deve essere attuato”. 
Perché l’approvazione del ddl anticorruzione è una richiesta non solo dell’Ue, dell’economia e delle imprese, ma “dei cittadini perbene“. “Non ce lo chiede solo l’Europa, gli organismi internazionali, l’economia ed il mondo delle imprese – ha detto Guardasigilli – ce lo chiedono i cittadini perbene, i giovani, le persone che si sono mobilitate in iniziative, le più diverse, ma che in comune hanno la forza di chi non intende rinunciare a uno scatto di orgoglio del nostro Paese. L’approvazione del ddl – ha concluso la Severino – è un obiettivo che non possiamo mancare”.

La Padanie ed i padani.



Dove le trovano? Nei fiumi?

https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10151203250193874&set=a.285072333873.144325.136742868873&type=1&theater

venerdì 12 ottobre 2012

Allarme del Giurista Rodotà: Può un Parlamento di non eletti mettere mani in modo così incisivo sulla Costituzione?



UNA FASE COSTITUENTE PIU’ DEMOCRATICA. - Stefano Rodotà



Stiamo vivendo una fase costituente senza averne adeguata consapevolezza, senza la necessaria discussione pubblica, senza la capacità di guardare oltre l’emergenza. È stato modificato l’articolo 81 della Costituzione, introducendo il pareggio di bilancio. Un decreto legge dell’agosto dell’anno scorso e uno del gennaio di quest’anno hanno messo tra parentesi l’articolo 41. E ora il Senato discute una revisione costituzionale che incide profondamente su Parlamento, governo, ruolo del Presidente della Repubblica. Non siamo di fronte alla buona “manutenzione” della Costituzione, ma a modifiche sostanziali della forma di Stato e di governo. Le poche voci critiche non sono ascoltate, vengono sopraffatte da richiami all’emergenza così perentori che ogni invito alla riflessione configura il delitto di lesa economia.
In tutto questo non è arbitrario cogliere un altro segno della incapacità delle forze politiche di intrattenere un giusto rapporto con i cittadini che, negli ultimi tempi, sono tornati a guardare con fiducia alla Costituzione e non possono essere messi di fronte a fatti compiuti. Proprio perché s’invocano condivisione e coesione, non si può poi procedere come se la revisione costituzionale fosse affare di pochi, da chiudere negli spazi ristretti d’una commissione del Senato, senza che i partiti presenti in Parlamento promuovano essi stessi quella indispensabile discussione pubblica che, finora, è mancata.
Con una battuta tutt’altro che banale si è detto che la riforma dell’articolo 81 ha dichiarato l’incostituzionalità di Keynes. L’orrore del debito è stato tradotto in una disciplina che irrigidisce la Costituzione, riduce oltre ogni ragionevolezza i margini di manovra dei governi, impone politiche economiche restrittive, i cui rischi sono stati segnalati, tra gli altri da cinque premi Nobel in un documento inviato a Obama. Soprattutto, mette seriamente in dubbio la possibilità di politiche sociali, che pure trovano un riferimento obbligato nei principi costituzionali.
La Costituzione contro se stessa? Per mettere qualche riparo ad una situazione tanto pregiudicata, uno studioso attento alle dinamiche costituzionali, Gianni Ferrara, non ha proposto rivolte di piazza, ma l’uso accorto degli strumenti della democrazia. Nel momento in cui votavano definitivamente la legge sul pareggio di bilancio, ai parlamentari era stato chiesto di non farlo con la maggioranza dei due terzi, lasciando così ai cittadini la possibilità di esprimere la loro opinione con un referendum. Il saggio invito non è stato raccolto, anzi si è fatta una indecente strizzata d’occhio invitando a considerare le molte eccezioni che consentiranno di sfuggire al vincolo del pareggio, così mostrando in quale modo siano considerate oggi le norme costituzionali.
Privati della possibilità di usare il referendum, i cittadini — questa è la proposta — dovrebbero raccogliere le firme per una legge d’iniziativa popolare che preveda l’obbligo di introdurre nei bilanci di previsione di Stato, regioni, province e comuni una norma che destini una quota significativa della spesa proprio alla garanzia dei diritti sociali, dal lavoro all’istruzione, alla salute, com’è già previsto da qualche altra costituzione. Non è una via facile ma, percorrendola, le lingue tagliate dei cittadini potrebbero almeno ritrovare la parola.
L’altro fatto compiuto riguarda la riforma costituzionale strisciante dell’articolo 41. Nei due decreti citati, il principio costituzionale diviene solo quello dell’iniziativa economica privata, ricostruito unicamente intorno alla concorrenza, degradando a meri limiti quelli che, invece, sono principi davvero fondativi, che in quell’articolo si chiamano sicurezza, libertà, dignità umana. Un rovesciamento inammissibile, che sovverte la logica costituzionale, incide direttamente su principi e diritti fondamentali, sì che sorprende che in Parlamento nessuno si sia preoccupato di chiedere che dai decreti scomparissero norme così pericolose. È con questi spiriti che si vuol giungere a un intervento assai drastico, come quello in discussione al Senato. Ne conosciamo i punti essenziali. Riduzione del numero dei parlamentari, modifiche riguardanti l’età per il voto e per l’elezione al Senato, correttivi al bicameralismo per quanto riguarda l’approvazione delle leggi, rafforzamento del Presidente del Consiglio, poteri del governo nel procedimento legislativo, introduzione della sfiducia costruttiva. Un “pacchetto” che desta molte preoccupazioni politiche e tecniche e che, proprio per questa ragione, esigerebbe discussione aperta e tempi adeguati. Su questo punto sono tornati a richiamare l’attenzione studiosi autorevoli come Valerio Onida, presidente dell’Associazione dei costituzionalisti, e Gaetano Azzariti, e un documento di Libertà e Giustizia, che hanno pure sollevato alcune ineludibili questioni generali.
Può un Parlamento non di eletti, ma di “nominati” in base a una legge di cui tutti a parole dicono di volersi liberare per la distorsione introdotta nel nostro sistema istituzionale, mettere le mani in modo così incisivo sulla Costituzione?
Può l’obiettivo di arrivare alle elezioni con una prova di efficienza essere affidato a una operazione frettolosa e ambigua? Può essere riproposta la linea seguita per la modifica dell’articolo 81, arrivando a una votazione con la maggioranza dei due terzi che escluderebbe la possibilità di un intervento dei cittadini? Quest’ultima non è una pretesa abusiva o eccessiva. Non dimentichiamo che la Costituzione è stata salvata dal voto di sedici milioni di cittadini che, con il referendum del 2006, dissero “no” alla riforma berlusconiana. A questi interrogativi non si può sfuggire, anche perché mettono in evidenza il rischio grandissimo di appiattire una modifica costituzionale, che sempre dovrebbe frequentare la dimensione del futuro, su esigenze e convenienze del brevissimo periodo.
Le riforme costituzionali devono unire e non dividere, esigono legittimazione forte di chi le fa e consenso diffuso dei cittadini. Considerando più da vicino il testo in discussione al Senato, si nota subito che esso muove da premesse assai contestabili, come la debolezza del Presidente del Consiglio. Elude la questione vera del bicameralismo, concentrandosi su farraginose procedure di distinzione e condivisione dei poteri delle Camere, invece di differenziare il ruolo del Senato. Propone un intreccio tra sfiducia costruttiva e potere del Presidente del Consiglio di chiedere lo scioglimento delle Camere che, da una parte, attribuisce a quest’ultimo un improprio strumento di pressione e, dall’altra, ridimensiona il ruolo del Presidente della Repubblica. Aumenta oltre il giusto il potere del governo nel procedimento legislativo, ignorando del tutto l’ormai ineludibile rafforzamento delle leggi d’iniziativa popolare. Trascura la questione capitale dell’equilibrio tra i poteri.
Tutte questioni di cui bisogna discutere, e che nei contributi degli studiosi prima ricordati trovano ulteriori approfondimenti. Ricordando, però, anche un altro problema. Si continua a dire che le riforme attuate o in corso non toccano la prima parte della Costituzione, quella dei principi. Non è vero. Con la modifica dell’articolo 81, con la “rilettura” dell’articolo 41, con l’indebolimento della garanzia della legge derivante dal ridimensionamento del ruolo del Parlamento, sono proprio quei principi ad essere abbandonati o messi in discussione.