domenica 10 maggio 2015

Stop ai vitalizi, ecco chi rischia e chi si salva

Da Berlusconi a Dell'Utri, gli effetti della norma che sospende gli assegni ai parlamentari condannati per reati gravi. Il presidente del Senato Grasso: «Si poteva fare di più, ma è un grosso passo avanti»


Dopo mesi di rinvii e di incessanti polemiche tra i partiti, i presidenti delle Camere riescono a tagliare quello che ormai può essere considerato il loro traguardo: gli uffici di presidenza di Senato e Camera hanno detto sì alla delibera che taglia il vitalizio ai parlamentari condannati. Ma al risultato, che fa esultare Grasso («Un bel segnale da parte delle istituzioni anche se avrei voluto di più») e Boldrini («È la moralizzazione della politica»), non si arriva in modo indolore. La maggioranza si spacca: quasi tutto il Pd vota “sì”; Ap (Area popolare) o non si presenta o non vota; Svp a Palazzo Madama si astiene. E anche l’opposizione è in ordine sparso: FI abbandona i lavori; M5S alla Camera esce e al Senato dice “no”; Sel dà l’ok insieme a Lega e FdI; mentre FI abbandona i lavori. 

La delibera approvata
L'approvazione della delibera, che cancella il “privilegio previdenziale” per il parlamentare che subisce una condanna definitiva a più di due anni per reati di mafia, terrorismo, contro la P.A.(eccezion fatta per l’abuso d’ufficio) e per tutti quelli che prevedono condanne non inferiori nel massimo a 6 anni, tra cui anche la frode fiscale, ma non il finanziamento illecito ai partiti, è stata una strada piuttosto in salita. Che ha richiesto infiniti incontri, colloqui più o meno riservati e varie riscritture del documento. Un lavoro certosino, insomma, che ha visto il presidente Grasso in prima fila. Sua infatti è la prima bozza poi rivista e corretta alla luce dei pareri dei costituzionalisti interpellati e delle istanze delle varie forze politiche. Nella delibera 2.0 infatti sono comparse misure che prima non c’erano e che sono state aspramente criticate dai 5 Stelle che alla fine o hanno votato contro o se ne sono andati gridando contro una norma a loro dire svuotata. 

Fra le nuove norme inserite e più contestate, la possibilità di riottenere il vitalizio in caso di riabilitazione. Questa può essere richiesta 3 anni dopo la fine della condanna (o dopo 8 o 10 anni in caso di reati gravissimi e di recidiva) e, qualora venga concessa, il vitalizio potrà essere ridato perché la fedina penale torna ad essere pulita e viene quindi meno «il requisito negativo» che ha portato al taglio del beneficio previdenziale. 

I tecnici delle Camere hanno 60 giorni di tempo per vagliare le singole posizioni, al termine dei quali sarà deciso quali vitalizi arano soppesi e quali invece continueranno ad essere erogati. Fra coloro che sono interessati dalla norma Silvio Berlusconi, condannato per frode fiscale nel processo sui diritti Mediaset, percepisce il vitalizio più elevato in assoluto, pari a 8mila euro al mese, che dovrebbe perdere salvo riabilitazione. Perderà il vitalizio anche Marcello Dell’Utri, condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa: detenuto nel carcere di Parma, percepisce 4.424,46 euro. Niente più assegno mensile anche per Cesare Previti, colpevole di corruzione in atti giudiziari, che finora ha incassato 3.979,06 euro al mese, oppure Totò Cuffaro che, detenuto a Rebibbia dopo la condanna a sette anni per favoreggiamento aggravato della mafia, percepisce ogni mese 5.154,79 euro. Fra i vitalizi tagliati anche quello di Giuseppe Ciarrapico, (1.510 euro) condannato a tre anni per il crac della Casina Valadier. Stop all’assegno mensile di 6.062 euro per Arnaldo Forlani, condannato in via definitiva a due anni e quattro mesi di reclusione per finanziamento illecito nell’affare Enimont.

Chi si salva
Dalla “tagliola” si salvano invece nomi come quello di Paolo Cirino Pomicino, condannato a un anno e otto mesi per la tangente Enimont percepisce  5.231 euro al mese, o Claudio Martelli (4.992 euro, otto mesi per l’inchiesta Enimont) e Gianni De Michelis (coinvolto in Tangentopoli ha patteggiato un anno e sei mesi, oltre ai sei mesi per l’affare Enimont ericeve vitalizio da 5.517 euro). 
Si salvano anche l’ex An Domenico Nania, 5.938,46 euro al mese e una condanna a 7 mesi per lesioni personali legate ad attività violente nei gruppi giovanili di estrema destra all’inizio degli anni Settanta; Renato Farina, l’agente Betulla dei servizi segreti condannato a sei mesi per favoreggiamento nel sequestro dell’imam egiziano Abu Omar, e Giorgio La Malfa, che salva il vitalizio da 5.759,87 euro nonostante la condanna a sei mesi per finanziamento illecito ai partiti. Resta nella lista anche l’ex sindaco di Milano e cognato di Bettino Craxi Paolo Pillitteri, condannato a quattro anni e sei mesi per ricettazione e finanziamento illecito ai partiti con una rendita di 2.906,11 euro al mese.

Grasso: «si poteva fare di più»
Si poteva fare di più ma serviva un messaggio ed è stato dato. È il messaggio del presidente del Senato Pietro Grasso il giorno dopo l'abolizione dei vitalizi per i condannati per reati gravi. «Anche la mia delibera iniziale sui vitalizi - ha spiegato -  era molto più rigorosa e coincideva essenzialmente con quella auspicata da M5S. Ma per potere andare avanti la politica ci insegna che serve il consenso democratico sui cui costruire qualcosa di positivo». Secondo Grasso, le delibere degli uffici di presidenza di Camera e Senato sullo stop dei vitalizi ai parlamentari condannati «è un grosso passo in avanti, una rivalutazione sul piano politico della revisione del ruolo della politica e della sua dignità. Non penso che quelle delibere siano qualcosa di antidemocratico. anzi, accrescino il senso della democrazia e della giustizia».

Skytg24

http://www.sky.it/eveningnews/2015/277/web/homepage.html?news=3

sabato 9 maggio 2015

Dagli al giornalista. - Marco Travaglio.



Confesso il mio doppio conflitto d’interessi: sono giornalista e sono anche uno di quelli spiati durante il governo Berlusconi-2 dal Sismi del generale Niccolò Pollari e del suo “analista” Pio Pompa e, per soprammercato, pure dalla cosiddetta Security della Telecom capitanata da Luciano Tavaroli (che in realtà lavorava in tandem con i servizi). 

Bene: a Perugia, nel silenzio generale, sta per concludersi il processo a Pio Pompa, nei cui uffici e appartamenti romani furono sequestrati nel 2007 ben 10 mila file. “In quei Cd, Dvd e hard-disk – ha ricordato il pm Massimo Casucci – sono stati rinvenuti dossier su giornalisti e magistrati, insieme a documenti su attentati e sulle questioni aperte riguardanti Iraq, Afghanistan e Nigergate. Quando è avvenuta la perquisizione, però, Pompa non faceva più parte dell’intelligence militare e dunque non poteva detenere quei file”. E perciò, dieci giorni fa, il pm ha chiesto la condanna di Pompa a 4 anni e mezzo di carcere per essersi procacciato documenti “atti a fornire notizie che nell’interesse della sicurezza dello Stato dovevano rimanere segrete”.

Ieri il sito del Fatto ha rivelato che, sentito come testimone, il generale Pollari – ex superiore di Pompa – ha invocato il segreto di Stato depositando una lettera che gli ha scritto Giampiero Massolo, direttore del Dipartimento Informazioni per la Sicurezza della Presidenza del Consiglio (il Dis, che coordina i servizi segreti militare e civile). Che dice Massolo? Che anche il governo Renzi, come i precedenti, ha deciso di apporre il segreto di Stato e addirittura di ricorrere alla Corte costituzionale per mandare in fumo il processo a Pompa. Ora, nei dossier sequestrati nel 2007, emergeva un sistematico dossieraggio su magistrati, politici e giornalisti considerati “ostili” a Berlusconi, definiti “bracci armati” di non si sa quale Spectre e dunque da “disarticolare”, “neutralizzare”, “ridimensionare” e “dissuadere”, anche con “provvedimenti” e “misure traumatiche”. 

Davvero il governo Renzi ha così a cuore la libertà di stampa e di pensiero da impedire verità e giustizia anche su quell’oscura vicenda? È vero, noi giornalisti siamo una categoria malfamata. Ma ormai il primo che passa si sente autorizzato a prenderci a ceffoni senza che nessuno dica o faccia nulla. È di questi giorni l’incredibile vicenda dell’Unità, che il Pd vorrebbe rimandare in edicola con i soliti soldi pubblici, ma abbandonando al loro destino i giornalisti delle ultime gestioni, lasciati soli a difendersi da querele penali e cause civili, a pagarsi gli avvocati e addirittura a farsi pignorare le case e gli stipendi.

Ed è dell’altro giorno la sentenza del Tribunale di Roma che dà torto a Sandra Amurri, giornalista del Fatto Quotidiano, e ragione all’ex deputato Dc e poi Udc Calogero Mannino, tuttora imputato a Palermo per violenza o minaccia a corpo dello Stato nel processo sulla trattativa Stato-mafia. L’antefatto è noto, almeno ai nostri lettori. 

Il 21-12-2011 Sandra Amurri, trovandosi al Bar Giolitti di Roma, a due passi da Montecitorio, ascoltò casualmente una conversazione fra due politici. Uno lo riconobbe subito: Mannino. L’altro lo identificò poi dalle foto scattate con l’iPhone: Giuseppe Gargani. Sentì dire fra l’altro a Mannino: “Stavolta ci fottono: dobbiamo dare tutti la stessa versione. Spiegalo a De Mita, se lo sentono a Palermo è perché hanno capito. E, quando va, deve dire anche lui la stessa cosa, perché questa volta ci fottono. Quel cretino di Ciancimino figlio ha detto tante cazzate, ma su di noi ha detto la verità. Hai capito? Quello, il padre, di noi sapeva tutto, lo sai no? Questa volta, se non siamo uniti, ci incastrano. Hanno capito tutto. Dobbiamo stare uniti e dare tutti la stessa versione”. E a Gargani: “Certo, certo, stai tranquillo, non ti preoccupare, ci parlo io”. Un caso di scuola di inquinamento delle prove. 

La Amurri raccontò sul Fatto quanto aveva visto e sentito e, chiamata dai giudici di Palermo a testimoniare sotto giuramento, confermò tutto. Mannino la insultò: “Mitomane”, “spia”, “agente volontario in servizio della Stasi in Germania o del Kgb nell’Urss”, “fantasia eccitata”, “delirio”, “menzogna organizzata”. La Amurri gli fece causa. Intanto, sentito come teste al processo Trattativa, Gargani confermava il colloquio (non, ovviamente, le parole) con Mannino nella data e nel luogo indicati. E il deputato Aldo Di Biagio, che l’aveva incontrata alla sua uscita dal bar Giolitti, testimoniava che subito la nostra giornalista gli aveva raccontato ciò che aveva appena sentito dai due politici. 

Ora il giudice di Roma dà ragione a Mannino e condanna la Amurri a pagargli 15 mila euro di spese legali. Ma, quel che è peggio, scrive nella motivazione che gli insulti sanguinosi di Mannino – i peggiori che un giornalista possa ricevere – sono “espressioni riconducibili all’esercizio del diritto di critica… proporzionate e strettamente collegate alle accuse mossegli nell’articolo” e “all’indebita interferenza della giornalista in una sua conversazione privata”. Già, perché qui la colpevole è la cronista: ha “abusivamente origliato il colloquio” e, anziché starsene zitta come fanno i conigli che non cercano rogne, l’ha denunciato e poi confermato ai giudici per aiutarli ad accertare la verità. 

La domanda è semplice: se io, comune cittadino o giornalista, ascolto al bar due persone che progettano un omicidio, o una rapina, o uno stupro, che devo fare? La sentenza non lascia dubbi: devo farmi i cazzi miei e lasciare che i due portino a termine il crimine. Altrimenti, se faccio il mio dovere di denunciarli, quelli potrebbero diffamarmi e, se reagisco, rischio di incontrare un giudice che mi accusa di averli abusivamente origliati violando la loro sacra privacy, e mi obbliga pure a rimborsarli con 15 mila euro. 

Una lezione di educazione civica.

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I tromboni dell'Expo. - Marco D'Eramo



Indovinello: cosa vi fanno venire in mente i nomi di Genova, Daejon, Lisbona, Hannover, Bienne, Aichi, Saragozza? Scommetto che nessuno ha in tasca la risposta esatta: queste città sono state sedi delle Expo rispettivamente del 1992, 1993, 1998, 2000, 2002, 2005, 2008. Questo per dire quanto indelebile è stata la traccia lasciata dalle più recenti Esposizioni universali nella memoria planetaria. 

Chi di noi ricorda che nel 2002 Bienne fu sede di una Expo? E dove si trova Bienne? (Svizzera).
Peggio: quale marchio ha lasciato nei nostri cuori Yeosu? Eppure questa città è stata sede dell'ultima Expo (2012) prima di quella di Milano: appena trentasei mesi fa. Non propongo neanche la domanda di riserva per sapere di quale nazione è Yeosu (Corea).

In soli pochi anni oblio e indifferenza hanno sepolto quegli eventi. Basterebbe questa costatazione a svelare il patetico provincialismo con cui l'italico rullio di tamburi mediatici ha accompagnato l'inaugurazione dell'Expo milanese. Verrebbe da parafrasare la fulminante battuta di un presentatore a un concerto di jazz di qualche anno fa: “Ecco a voi il meglio del trombonismo italiano”, solo che in questo caso “trombonismo” non si riferisce al trombone sostantivo, ma al trombone aggettivo.

“Il mondo ci guarda”, “Milano è tornata capitale”, “venti milioni di visitatori”, “decine di migliaia di nuovi posti di lavoro”, e così via con le iperboli, quando il resto della Terra continua a essere in tutte altre faccende affaccendato e consacra a questo evento epocale della nostra storia qualche trafiletto dedicato più che altro agli scontri, o alle tangenti, o a pezzi di stand che crollano.

Ma che importa, non siamo qui per lesinare un superlativo. La Repubblica non si risparmia: “Milano al centro del mondo” titola, mentre La Stampa prevede sicura: “Per sei mesi il mondo guarderà all'Italia”, ed Il Secolo XIX lancia il guanto (sempre al mondo): “La sfida dell'Italia”. Un editoriale del Corriere della Sera è rotto dal magone: “L'emozione di essere al centro del mondo”. Il timore del ridicolo non spaventa nessuno, tanto meno L'Avvenire che, dopo un'affermazione per lo meno discutibile (“Il mondo è all'Expo”), si pone un quesito comico: “Ma sarà più giusto?”. Come diavolo fa la presenza di alcuni stand in un'Esposizione a rendere il nostro pianeta più o meno equo?

Il fatto più stupefacente è che tra tanti dotti opinionisti, commentatori ed esegeti, nessuno abbia ripercorso non la storia aneddotica delle varie expo universali (elargitaci a piene mani), ma il loro significato e declino: come mai sono state inventate le esposizioni universali? A che scopo? È curioso che nessuno si sia chiesto come mai agli albori del terzo millennio poniamo tanta enfasi su un'idea che è ottocentesca in tutto e per tutto, non solo perché fu l'800 a inventare le Esposizioni universali (la prima si tenne nel 1851 a Londra), ma perché l'800 inventa la società industriale il cui elemento nevralgico diventa la merce di cui deve moltiplicare i consumatori. In una pagina fulminante del saggio “Parigi capitale del XIX secolo” Walter Benjamin scriveva (nel 1935): “Le esposizioni universali sono luoghi di pellegrinaggio al feticcio merce. 'L'Europe s'est déplacée pour voir des marchandises' dice Taine nel 1855”.

Ma non è merce qualunque quella che le Esposizioni universali ottocentesche mostrano, è la marcia del Progresso che viene esibita attraverso di loro: nel 1851 furono svelati per la prima volta il caucciù e la mietitrice meccanica; nel 1855 (Parigi) destò ammirazione la macchina da cucire Singer; nel 1867 (Parigi) strabiliarono ascensore, macchina per produrre bevande gassate e cemento armato; nel 1876 a Philadelphia fu presentato il telefono e anche il ketchup.

Poi i brevetti e con essi il segreto industriale ebbero il sopravvento e le innovazioni non furono più rivelate ai quattro venti: le Esposizioni persero a poco a poco il loro carattere di antro delle meraviglie della scienza e della tecnica, anche se questo retaggio continuò a risuonare nell'Expo di Bruxelles del 1958 (dedicata all'energia atomica) in cui l'Urss mostrò un esemplare di Sputnik, la prima navicella spaziale; e poi ancora a Osaka nel 1970 quando il Giappone presentò il primo treno superveloce.

Il Progresso con la P maiuscola non riguardava solo le merci, ma investiva tutta la società, la sua gestione dello spazio, la sua architettura. Non per nulla il simbolo della prima Expo londinese del 1851 fu il Palazzo di Cristallo (in realtà in ferro e vetro) che sarebbe stato il prototipo di tutte le armature metalliche successive e che avrebbe ispirato tutta l'edilizia moderna. Come non parlare della Tour Eiffel simbolo dell'expo universale parigina del 1889, il cristallo di atomi di ferro simbolo di Bruxelles 1958, o dello Space Needle (l'Ago Spaziale) di Seattle. Ma anche il Colosseo quadrato dell'Esposizione Universale Romana (Eur) del 1942 (che non si sarebbe mai tenuta) aveva l'ambizione di raffigurare le ultime tendenze architettoniche, in quel caso del neoclassicismo unito al razionalismo italiano.

Ma alla fine degli anni '60 del secolo scorso l'ideologia del Progresso perdeva colpi e perdevano senso le Expo a esso dedicate: da allora nessuna Expo ha sciorinato le meraviglie del possibile: non hanno esposto neanche un computer. E perdevano colpi i simboli architettonici: i padiglioni sono stati costruiti vieppiù sotto il segno dell'effimero, per essere smontati battenti chiusi.

Ma senza lasciarsi andare troppo alla nostalgia: perché quelle esposizioni “progressiste” esponevano anche quello che l'ineffabile Rudyard Kipling chiamò il “White man's burden”, “il fardello [civilizzatore] dell'uomo bianco”, esponevano perciò l'opera “civilizzatrice” dell'Occidente e, per farlo, dovevano esporre i selvaggi. Furono le grandi esposizioni universali a istituire infatti gli Zoo umani, padiglioni in cui veniva ricostruito l'habitat di tribù africane o malgasce o indonesiane dove famiglie di indigeni venivano esposte alla curiosità dei visitatori. Né c'è da inorridire: anche quelle erano esposizioni buoniste, che semplicemente riflettevano l'”imperialismo umanitario” del tempo. Ricordiamo che l'ultimo Zoo umano fu esposto nell'Expo di Bruxelles addirittura nel 1958.

Ma allora ci si chiede che senso ha oggi allestire un'esposizione universale, se non come occasione per varare qualche grande cantiere, sdoganare – sotto la voce “promozione di mercato” – qualche spesa pubblica in un'era in cui le spese pubbliche socialmente utili (investimenti nella scuola, nella sanità nel welfare) sono considerate “sprechi” da riformare secondo i suggerimenti di tutte le trojke del mondo. È la ragione per cui la retorica dell'Expo oscilla sempre tra l'epica e il pizzicagnolo.

L'epica è quella della retorica nazionalista della sfida al mondo che abbiamo già visto e che ci ricorda irresistibilmente l'Eur fascista, anche allora voluta da Bottai nel 1935 per “mostrare al mondo il Genio della Civiltà italica”: sono passati 80 anni e sempre alle stesse guasconate da Italietta siamo restati. E l'odore di regime esala di nuovo, 80 anni dopo, irrespirabile dal coro ditirambico degli italici media. 

Non solo il paragone regge, ma è persino sconfortante perché dell'Eur 1942 sono almeno rimaste tracce durature che ancora sono studiate nei manuali di architettura, mentre c'è da chiedersi cosa resterà dell'Expo milanese. Ma soprattutto perché il genio italico cui allora ci si riferiva era quello così pomposamente decantato nell'iscrizione sul Colosseo quadrato (“Un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori...”), mentre il genio attuale si dispiega facendo rientrare (sussumendo) l'universo mondo nel modello Eataly: cosa è questa fiera se non un Eat-world? In questo particolare, mantenendo una curiosa fedeltà con le Expo dell'800. Osservava infatti Benjamin: “La 'specialità' è una designazione merceologica che fa la sua apparizione in quell'epoca nell'industria di lusso. Le esposizioni universali costruiscono un mondo fatto di 'specialità' (…) Modernizzano l'universo”. E cosa sono gli stand gastronomico-alimentari se non una fiera di specialità? Lardi di Colonnata, amaretti di Saronno, capperi di Pantelleria, orizzonti insuperabili della nostra epoca.

Ci ricongiungiamo qui al pizzicagnolo che non solo espone negli stand bresaole e tomini, ma lucra e fa la cresta su ogni sua “specialità”: l'animo da droghiere ispira i miseri conticini della spesa, i calcoli sui profitti immediati che ogni italico, guicciardiniano “particulare” può trarne: ci viene infatti annunciato in trionfo (da La Provincia) che “L'expo può far decollare Como”: Ohibò!
Mentre Il Secolo XIX s'inalbera piccato con un'importante notizia di spalla in prima pagina:

“Liguria beffata
all'Expo: niente
assaggi di pesto
pizza libera”

Non resta che pestare i vil marrani partenopei.


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venerdì 8 maggio 2015

L'attentato. - Giorgio Bongiovanni

Palermo. Surreale. 
E’ questa l’atmosfera che si respira oggi all’aula bunker dell’Ucciardone. 
Ennesima udienza al processo trattativa Stato-mafia. In videoconferenza c’è il collaboratore di giustizia Vito Galatolo. Sugli schermi si intravede l’uomo di spalle con un cappello in testa. Le sue parole colpiscono duro. Il progetto di attentato nei confronti del pm Nino Di Matteo prende forma. Il procuratore aggiunto Vittorio Teresi lo incalza con domande serrate alle quali il pentito non si sottrae. Di Matteo andava ucciso “perché stava andando troppo oltre” nel suo lavoro, soprattutto per quanto riguarda le indagini “di questo processo”. Galatolo parla di 200 kg di tritolo destinati al magistrato palermitano. Secondo il figlio del boss dell’Acquasanta, Vincenzo Galatolo, lo stragista Matteo Messina Denaro avrebbe messo a disposizione un suo artificiere. “Avevamo l'ordine che non dovevamo presentarci con questa persona – spiega il collaboratore di giustizia –. Ci stupiva il fatto che non dovevamo sapere chi era questo uomo di Messina Denaro... Noi capimmo che era esterno a Cosa Nostra e che poteva essere qualcuno dello Stato che era interessato a fare questa strage”. Galatolo specifica inoltre che, attraverso le missive di cui era venuto a conoscenza, Messina Denaro aveva tranquillizzato i suoi sodali evidenziando che “facendo quell’attentato (a Di Matteo, ndr) non ci dovevamo preoccupare perché questa volta saremmo stati coperti”. Si tratta di quelle “coperture” di cui lo stesso collaboratore di giustizia aveva già sentito parlare in prossimità della strage di via D’Amelio dal boss Filippo Graviano? “Al fondo Pipitone, dove abitavamo, si riuniva il gotha di Cosa Nostra – sottolinea di seguito il figlio di Vincenzo Galatolo –. A volte venivano anche altre persone. Per una famiglia mafiosa, mantenere contatti con uomini dei Servizi segreti, significava ottenere una sorta di 'protezione'. Potevamo ottenere informazioni su eventuali indagini, blitz, arresti prima che venissero compiuti. Chi veniva? Ricordo il questore Arnaldo La Barbera ma anche Bruno Contrada. C’erano uomini con e senza divisa, uomini dei Servizi, del Ros”. A detta del pentito, La Barbera era “a libro paga dei Madonia” in quanto “ci dava informazioni e prendeva soldi”. Galatolo ricorda quindi un uomo “con la faccia sfregiata” che veniva chiamato “il mostro”. “Una volta lo vidi entrare assieme a Bruno Contrada (ex numero 3 del Sisde, ndr). Questa persona l’ho riconosciuta sulle fotografie che mi sono state mostrate”. Il neo pentito continua il suo racconto spiegando che l’ex boss dell’Arenella Gaetano Scotto “era uno che era in contatto con i servizi segreti, che avevano un ufficio al Castello Utveggio, sul Monte Pellegrino che sovrasta il luogo della strage di via D'Amelio. Lo stesso Nino Madonia (ex  reggente del mandamento di Resuttana, ndr) era in contatto con rappresentanti istituzionali”. In aula viene evidenziato che il progetto di attentato nei confronti del pm Di Matteo prevedeva anche una sorta di piano “B” da realizzare a Roma con i kalashnikov. Di Matteo sarebbe dovuto essere “attirato su Roma tramite il pentito Salvatore Cucuzza”, racconta Galatolo. “Avevamo un contatto con lui e sapevamo che stava molto male e che aveva un ristorante vicino alla Cassazione”. Il progetto omicidiario prevedeva di “far appoggiare i kalashnikov” nel locale del pentito. Lo stesso Cucuzza “doveva far venire Di Matteo al suo ristorante per parlare del processo Stato-mafia. Nell’appartamento di fronte uomini di Cosa Nostra avrebbero controllato se Di Matteo sarebbe arrivato. E lì si sarebbe fatto l’agguato”. Salvatore Cucuzza è, però, morto per un tumore maligno poco dopo essere stato coinvolto in questo disegno criminale.
Di Matteo siede accanto ai suoi colleghi del pool e ascolta nuovamente questa storia di stragi annunciate che lo riguarda da vicino. “Le parole hanno un peso!”, pronuncia con forza il pm condannato a morte di fronte al contesto realmente surreale che assume il controesame dell’ex boss. Se si mettono in fila le parole dette e quelle non dette in tutta questa vicenda ci si rende conto dei contorni sempre più grigi. Da una parte ritroviamo la sentenza di morte di Totò Riina, le relative direttive di Matteo Messina Denaro e le rivelazioni dei collaboratori di giustizia; dall’altra si percepisce sempre di più il silenzio – colpevole – dei massimi esponenti delle istituzioni di fronte ad una condanna che è tuttora pendente (a partire dall’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il Premier Matteo Renzi, i Presidenti di Senato e Camera, Piero Grasso e Laura Boldrini, fino a toccare trasversalmente buona parte dei vari schieramenti politici). Che Paese è quello che tenta di sminuire la gravità di ciò che sta accadendo attorno al pm più protetto d’Italia? E cosa si può dire ad una magistratura colpevole di isolarlo attraverso bassezze degne della peggiore casta (si vedano ad esempio gli incarichi “ordinari” dei quali Di Matteo si deve occupare sottraendo tempo prezioso a indagini delicatissime, fino ad arrivare alle bocciature del Csm alle sue domande di avanzamento di carriera che di fatto lo sovraespongono ulteriormente)? Da mesi a Palermo si cerca quel tritolo di cui parla Galatolo, ma il ritmo delle ricerche appare oggi molto più sfumato, quasi impalpabile. Contemporaneamente si assiste alla precisa volontà di smorzare il peso delle dichiarazioni dell’ex boss dell’Acquasanta storcendo il naso di fronte ai suoi riferimenti sul ruolo di Matteo Messina Denaro, mettendo in dubbio la sua attendibilità, o quanto meno evitando di parlarne a livello mediatico. E’ la storia che si ripete. Come se vent’anni, dopo le stragi, non fossero bastati. Il silenzio istituzionale nei confronti di Nino Di Matteo continua, però, ad incrementare il suo volume. Dal Presidente Mattarella non è giunta ancora una parola chiara e netta a proposito. E questo suo silenzio, vista la storia tragica legata alla sua famiglia, appare del tutto incomprensibile e soprattutto grave. Una condanna a morte di Cosa Nostra non va mai in prescrizione. L’integrità morale della maggioranza dei rappresentanti del nostro Stato (in tutte le sue sfaccettature), invece, è già stata archiviata da un pezzo: oggi si chiama collusione.

L’incendio nel Terminal 3. Coinvolta area di 1000 metri quadrati.


L’aeroporto di Fiumicino è rimasto paralizzato per ore in seguito all’incendio scoppiato stanotte. Anche il traffico in tilt.


Ore di paura all’aeroporto di Fiumicino, dopo che la scorsa notte un violento incendio, scoppiato dopo mezzanotte, ha colpito il Terminal 3. Fortunatamente le fiamme, che non hanno provocato feriti gravi ma solo tre intossicati, sono state domate, ma i disagi alla circolazione sono ancora molti. Da mezzogiorno lo scalo è stato riaperto agli arrivi, mentre le partenze sono riprese gradualmente a partire dalle 14. Ritardi e cancellazioni si sono ripercossi anche su altri scali nazionali, mentre la chiusura dell’Autostrada Roma - Fiumicino ha paralizzato per ore la capitale.

Ritorno alla normalità
È in corso una graduale ripresa della piena attività dello scalo romano, pur rimanendo completamente inagibile il Terminal 3, dove le fiamme hanno interessato l'area commerciale nella zona transiti e, come spiegano i vigili del fuoco, «ci vorranno giorni» per la messa in sicurezza. Dalle 12 alle 14 sono stati operativi 12 voli l'ora, mentre adesso si sta tornando ai ritmi consueti. Ripresi anche i collegamenti ferroviari con Roma e riaperta l'autostrada. Le compagnie aeree si stanno riorganizzando per predisporre, appena possibile, le partenze di tutti i passeggeri, mentre i voli in arrivo atterrano regolarmente. «Il primo volo della giornata, della compagnia Iberia, è appena partito» ha annunciato intorno a mezzogiorno il presidente dell'Enac Vito Riggio, e poco dopo L’Alitalia ha comunicato la ripresa graduale dei voli della compagnia di bandiera; il primo volo decollato è stato l'AZ 110 diretto ad Amsterdam. 
Si indaga per scoprire le cause
Al momento restano da definire con certezza le cause del rogo, probabilmente innescato da un corto circuito. È stata esclusa subito dagli inquirenti l’ipotesi dolosa. Stando alle prime ricostruzioni, le fiamme sarebbero divampate poco dopo la mezzanotte dal bar Gustavo al Terminal 3, all’interno dell’area transito successiva al controllo passaporti e non dal deposito bagagli, come riferito in un primo momento. In poco tempo l’incendio ha invaso completamente il Terminal, provocando una colonna di fumo altissima, visibile anche a chilometri di distanza. Sarebbe stata una dipendente del bar ad accorgersi delle fiamme e lanciare l’allarme «È una testimonianza che stiamo valutando secondo gli elementi che hanno i vigili del fuoco» ha spiegato il vice questore Antonio Del Greco, mentre proseguono le indagini per capire se la struttura fosse dotata di un sistema antincendio adeguato «Bisogna comprendere se quello che è accaduto la notte scorsa è solo un caso accidentale o sia un segnale di problemi da verificare - ha affemato Riggio - bisogna capire cosa è bruciato così velocemente, quale materiale ha fatto propagare le fiamme rapidamente: i materiali usati in aeroporto sono a norma di legge, non so però cosa c'era nei negozi. Questo è un punto che bisognerà capire. Ora vigileremo su tutte le società presenti al Terminal 3, sulle cause aspettiamo gli accertamenti». 

Stanchezza e paura dei passeggeri
Appoggiati ai bagagli, sdraiati sui marciapiedi, seduti per strada o sul pavimento: dopo l'incendio che ha causato la chiusura dello scalo romano, i viaggiatori aspettano notizie sui voli. C’è chi fa la coda al banco informazioni, chi preferisce sedersi al sole e chi si sdraia per strada o sul pavimento, sono migliaia le persone rimaste a terra a causa della chiusura temporanea dello scalo romano. Nella mattina quasi tutti i passeggeri in transito, a parte quelli delle compagnie low cost “dirottato” su Ciampino, sono stati trasferiti in albergo in attesa che riprendessero i voli. A quelli rimasti dentro l'aeroporto era consentito occupare solo "Land side", ovvero il lato check-in, dove venivano distribuite bottigliette d'acqua. 

http://tg24.sky.it/tg24/cronaca/2015/05/08/incendio_fiumicino_disagi_ritardi_aeroporto_roma.html

Vitalizi condannati, approvata l’abolizione (a metà): fuori M5S e Forza Italia. -

Vitalizi condannati, approvata l’abolizione (a metà): fuori M5S e Forza Italia

Via libera dall'ufficio di presidenza di Montecitorio e Palazzo Madama. La delibera prevede lo stop per i condannati in via definitiva per mafia, terrorismo e reati contro la PA (ma non l'abuso d'ufficio), nonché quelli con condanne superiori a 6 anni. C'è la possibilità di riabilitazione. M5S non partecipano al voto prima, votano contro poi: "Compromesso al ribasso".

Abolizione (a metà) dei vitalizi ai condannati: dopo mesi di rinvii e ripensamenti con un ritardo forse solo secondo a quello sulla legge anticorruzione c’è il via libera dell’ufficio di presidenza della Camera e del Senato. Restano fuori prima e votano contro poi i 5 Stelle (“Compromesso al ribasso”), mentre Forza Italia ha abbandonato i lavori in entrambi i casi (“Ci voleva una legge ad hoc”). Non ha partecipato al voto Area popolare. Sì di Pd, Lega Nord, Sel e Fdi. La presidente Laura Boldrini: “E’ un forte segnale di moralizzazione”. Il questore M5S Laura Bottici: “Questa non è la delibera originale, né quella mia, né quella di Grasso dello scorso anno, sulle quali abbiamo fatto battaglia per undici lunghi mesi”.
L’abolizione a lungo agognata arriva dopo la campagna di Libera che ha raccolto 500mila firme, ma è comunque zoppa. La delibera approvata infatti, decide lo stop delle pensioni a vita per gli eletti in Parlamento condannati per reati di mafia, terrorismo e contro la Pubblica amministrazione con pene superiori a 2 anni di reclusione. Ma nella versione finale del testo, con il compromesso voluto dal Partito democratico, aumentano le possibilità di farla franca: si esclude l’abuso d’ufficio, si prevede la modifica in senso restrittivo per i delitti non colposi da 4 a 6 anni e si inserisce la riabilitazione.

A approvata la delibera per agli ex deputati condannati per reati gravi. E' segnale forte di moralizzazione.

I 5 Stelle protestano: “Questa delibera è solo una farsa, che salva la stragrande maggioranza dei politici condannati, tutti i loro amici di tangentopoli, e colpisce solo una piccola cerchia. Ancora una volta la casta si è auto assolta e continuerà a godere di vitalizi pagati dai cittadini italiani”. Queste le 4 modifiche che avevano chiesto per migliorare il provvedimento: “Includere nelle cause di abolizione del vitalizio anche chi è stato condannato per reati punibili con un massimo di pena di 4 anni (e non 6), oltre che per abuso d’ufficio; escludere la riabilitazione come causa di ripristino del vitalizio; escludere la reversibilità del vitalizio in caso di decesso”.
Già in mattinata erano iniziate le prime tensioni: “Non amo lisciare il pelo all’antipolitica”, ha detto il senatore Pd Ugo Sposetti parlando per primo a Palazzo Madama su di un tema non all’ordine del giorno. “Rivolgo una supplica al presidente del Senato: non ci si occupa del tema dell’abolizione dei vitalizi ai condannati durante la campagna elettorale”. Applausi da Lucio Malan dai banchi di Forza Italia: “Bravo!”. Critiche dai 5 Stelle: “Indecenti”. Imbarazzo invece dai colleghi Pd per la sconfessione pubblica di un atto che vogliono a tutti i costi portare a casa. “Ritengo”, ha concluso, “che i membri del consiglio di Presidenza si trovino di fronte ad un diritto inalienabile, un diritto acquisito, un diritto che matura con il versamento dei contributi del lavoratore e dell’azienda, un diritto alla sopravvivenza”. In realtà la situazione è diversa: solo con il governo Monti il sistema è diventato contributivo, mentre prima era retributivo e quindi non si può parlare di “diritto acquisito” in seguito ai contributi versati.
Tra i temi contestati nella bozza della delibera c’è quello dell’inserimento della riabilitazione: nel caso in cui questa venga richiesta dall’interessato (potrà farlo dopo 10 anni dalla fine della condanna per i reati più gravi e dopo 3 anni nei casi meno gravi) e questa venga concessa dal giudice, comportando la cancellazione della condanna dalla fedina penale, il vitalizio potrà essere riassegnato. Essendo la condanna di fatto un requisito negativo e non introducendo la delibera una pena accessoria, spiegano alcuni tecnici, quando la fedina penale torna pulita, “è giusto che il vitalizio venga ridato” perché le misure devono essere “ragionevoli e proporzionate” per non essere contestate. Stop alla pensione anche nel caso di patteggiamento, ma la misura varrà dall’entrata in vigore della legge in poi perché, si sottolinea nella maggioranza, “quando uno decide di patteggiare deve sapere prima a cosa va incontro”.
La delibera entrerà in vigore “il sessantesimo giorno successivo alla data della sua approvazione”, quindi non prima di due mesi a partire da oggi. Si legge nel testo approvato oggi. Le misure saranno applicate, si legge ancora, “ai deputati cessati dal mandato che, alla data di entrata in vigore” della delibera “siano già stati condannati in via definitiva, o che, successivamente a tale data, riportino condanna definitiva per i delitti” previsti dal provvedimento. Pertanto ai deputati non più in carica non verrà chiesto la restituzione del pregresso.

Corruzione, ecco il whistleblower all’italiana. Cantone detta le regole. - Elena Ciccarello

Corruzione, ecco il whistleblower all’italiana. Cantone detta le regole

Una delibera dell'Anac detta le linee guida per gestire le denunce di dipendenti pubblici su casi di malaffare e nepotismo. Al primo punto la tutela del segnalante e le procedure informatiche per garantire riservatezza. In Usa si recuperano così sei miliardi l'anno, mentre in Italia è sempre in agguato il marchio del "delatore".

In Italia c’è chi li chiama “delatori” e guarda con sospetto alle loro denunce. Ma negli Usa è grazie ai “whistleblower“, persone che segnalano in modo riservato all’autorità gli illeciti di cui sono testimoni, che il Governo recupera ogni anno l’85% delle somme oggetto di frodi, oltre 55 miliardi di dollari dal 1986 con una media, oggi, di sei miliardi all'anno. Un sistema lontano “anni luce” da quello italiano, secondo il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone che ieri, intervenendo con l’ambasciatore statunitense John R. Philip ad un convegno organizzato dall’Universita’ Luiss Guido Carli, ha presentato il nuovo vademecum sul whistleblowing approvato dall’Anac e sollecitato nuovi “passi in avanti dal punto di vista normativo” per tutelare il dipendente pubblico che decide di esporsi.
Le Linee guida approvate dall’Anticorruzione nascono per “offrire agli enti pubblici italiani una disciplina applicativa delle stringate disposizioni di principio introdotte dalla legge n. 190/2012 (cd. “Legge Severino“)”. Si tratta dunque di regole elaborate, secondo quanto scritto dalla stessa Autorità, a partire da norme troppo “sintetiche” cui si è voluta dare “un’espansione massima possibile”, “nel contempo suggerendo al Legislatore possibili miglioramenti”.
Il vademecum si concentra sul tema della tutela del segnalante, in primis, su cui si chiede un “intervento chiarificatore” da parte della politica, ma anche sull’orizzonte di illeciti che possono essere segnalati, sui soggetti cui rivolgersi per fare la segnalazione e il trattamento da riservare alle segnalazioni anonime (comunque acquisite anche se trattate in modo diverso). Secondo l’Anticorruzione potranno essere segnalati non solo gli illeciti contro la pubblica amministrazione ma anche “l’abuso da parte di un soggetto del potere a lui affidato al fine di ottenere vantaggi privati”. L’elenco è lungo “sprechi, nepotismo, demansionamenti, ripetuto mancato rispetto dei tempi procedimentali, assunzioni non trasparenti, irregolarità contabili, false dichiarazioni, violazione delle norme ambientali e di sicurezza sul lavoro” eccetera.
Le amministrazioni pubbliche non possono rivelare l’identità del whistleblower senza il suo consenso, tranne nei casi in cui chi “è sottoposto al procedimento disciplinare” per effetto della segnalazione abbia bisogno di conoscerla perché “assolutamente indispensabile” per la propria difesa. L’autore della segnalazione non può in ogni caso essere oggetto di provvedimenti disciplinari per effetto della sua denuncia, ma la tutela decade se viene riconosciuto colpevole di un reato di calunnia o diffamazione già in primo grado.
Il primo punto del vademecum resta comunque la tutela del whistleblower, sui cui la normativa attuale, secondo il documento, presenta ancora troppe lacune. Su questo l’Anticorruzione, in attesa di nuove norme, introduce alcune regole per il ricorso a procedure informatiche tali da evitare “la presenza fisica del segnalante”, che vanno indirizzate al responsabile per la prevenzione della corruzione dell’ente a meno che non riguardino proprio quel funzionario. In tali casi la segnalazione andrà invece inviata all’Anac. In ogni caso le amministrazioni dovranno fare di tutto per adottare procedure di tutela. “Al fine di evitare che il dipendente ometta di segnalare condotte illecite per il timore di subire misure discriminatorie, è opportuno che… le amministrazioni si dotino di un sistema che si componga di una parte organizzativa e di una parte tecnologica, tra loro interconnesse”, si legge nel documento.
A fronte di queste disposizioni resta però un problema di fiducia. E di tempi. “A noi tanti scrivono perché non ricevono risposte da parte delle istituzioni o perché hanno bisogno di indicazioni e di incoraggiamento prima di presentare una segnalazione” spiega a ilfattoquotidiano.it Giorgio Fraschini, responsabile dello sportello per le segnalazioni di Transparency Italia. “Chi decide di fare una segnalazione ha bisogno di fidarsi del suo interlocutore e le fredde procedure burocratiche spesso in questo non sono d’aiuto”. Il modulo offerto dal servizio dell’Anticorruzione, come prima cosa, chiede a chi vuole fare una segnalazione di indicare il suo nome, cognome e posizione lavorativa. E questo, come notato dallo stesso Cantone, può non aiutare quando non si è in grado di garantire il segnalante da ritorsioni. “Chi scrive all’Anticorruzione non riceve una risposta e non riesce a capire a che punto sia la sua segnalazione” continua poi Fraschini. “Ma chi per colpa di quegli illeciti ha perso il lavoro o vive una situazione di disagio non può aspettare dei mesi”. L’America è ancora lontana.