sabato 26 novembre 2016

L'Istat smentisce Renzi, sotto il suo governo abbiamo pagato 12 miliardi di tasse in più che con Monti. - Andrea Del Monaco

730 ORECOMPILATO

Nel 2015, rispetto al 2014, abbiamo pagato più tasse e imposte per 9,26 miliardi. Lo dice l'Istat: il prelievo fiscale, ovvero la somma di tasse e imposte, è aumentato dal 2014 al 2015, da 702,84 a 712,1 miliardi; "è la somma che fa il totale" diceva Totò.
Dovrebbe ricordarlo anche il presidente del Consiglio Matteo Renzi quando ripete di aver abbassato le tasse e aggiunge: "l'ultimo governo tecnocratico che mi ricordo ha alzato le tasse e portato a -2,3% il Pil, era il governo di Mario Monti". Renzi dà un dato quasi esatto quando si riferisce al PIl del Governo Monti: nel 2012 crollò addirittura del 2,8%.
Al contrario Renzi dà un dato inesatto quando ripete di aver abbassato le tasse. Per fortuna in Italia esiste ancora l'Istat. Il 23 settembre 2016 l'Istat ha pubblicato il Report sui Conti Economici Nazionali.
Osserviamo tre dati: il Pil, la pressione fiscale e il prelievo fiscale. Il prelievo fiscale è l'ammontare in termini assoluti degli oneri dovuti e versati dai contribuenti allo Stato a titolo di imposta, tassa o contributo speciale. Concretamente il prelievo fiscale rappresenta quanto gli italiani hanno pagato allo stato in termini assoluti.
La pressione fiscale è il rapporto tra l'ammontare delle imposte (dirette, indirette e in conto capitale) e dei contributi sociali (effettivi e figurativi) e il Pil. Osserviamo cosa è successo negli ultimi cinque anni dal 2011 al 2015 ricordando una cosa. I dati di un anno sono la conseguenza del ciclo economico dell'anno stesso e della manovra effettuata dal governo nell'anno precedente. Così i dati del 2011 sono la conseguenza del ciclo economico del 2011 e della manovra del governo Berlusconi dell'anno 2010.
I dati del 2015 sono la conseguenza del ciclo economico dell'anno 2015 e della manovra del governo Renzi nel 2014. Vediamo dopo la manovra di Berlusconi nel 2010 cosa è successo nel 2011: il Pil è aumentato dello 0,6%, la pressione fiscale è al 41,6%, abbiamo pagato complessivamente 681,2 miliardi tra tasse, imposte e contributi speciali.
Vediamo, dopo la manovra del governo Monti nel 2011, cosa è successo nel 2012: il Pil è crollato del 2,8% (ancor di più di quanto ricorda Renzi), la pressione fiscale è salita di due punti percentuali al 43,6%, e addirittura abbiamo versato allo Stato 703,86 miliardi: il prelievo è aumentato di 22 miliardi (ricordate la stangata dell'Imu?).
Vediamo, dopo la manovra del governo Monti nel 2012, cosa è successo nel 2013: il Pil è crollato ancora del 1,7 %, la pressione fiscale è rimasta stabile al 43,6%, il prelievo fiscale è sceso di 3 miliardi a 700 miliardi.
Ma vediamo dopo la manovra del governo di Enrico Letta nel 2013 cosa succede nel 2014: il PIl cresce di uno 0,1 %, la pressione fiscale scende dello 0,2% al 43,4%, e il prelievo fiscale sale a 702,84 miliardi.
Ora attenzione, vediamo dopo la manovra del governo Renzi nel 2014, cosa succede nel 2015: il Pil aumenta dello 0,7%, la pressione fiscale rimane al 43,4%, e, il prelievo fiscale balza di 9 miliardi arrivando a 712,1 miliardi.
Quindi si possono dedurre interessanti conclusioni guardando i numeri:
  1. Ha ragione Renzi quando ricorda che il Pil è crollato nel 2012 sotto il governo di Mario Monti: meno 2,8%.
  2. La pressione fiscale del governo Renzi è uguale a quella del governo Letta che avrebbe dovuto stare sereno: sempre 43,4%.
  3. Il presidente Renzi ha torto quando dice di aver abbassato le tasse; in termini assoluti, nel 2015 rispetto al 2014, abbiamo pagato allo stato 9 miliardi di tributi in più: tale dato è particolarmente significativo in un momento in cui il Pil cresce degli zero virgola.
  4. Contrariamente a quanto la narrazione renziana dice, con Monti nel 2013 il prelievo fiscale è stato di 700 miliardi, con Renzi nel 2015 di 712 miliardi: quindi da Monti a Renzi 12 miliardi di tasse e imposte in più. Non è finita qui: il prelievo fiscale sale dai 681 miliardi di Berlusconi nel 2011 ai 712 miliardi di Renzi nel 2015: 31 miliardi di tasse e imposte in più. Ma perché accade questo?
Perché con la sottoscrizione del Fiscal Compact, del Six Pack e Two Pack nel 2011-2012, il bilancio dell'Italia ha il pilota automatico di Bruxelles: siamo costretti al consolidamento fiscale. Indipendentemente da chi è Premier.
E quindi Renzi è costretto a fare politiche uguali alle politiche dell'alfiere dell'austerità Monti. Questo è il mio intervento su la7 dove illustro questi semplici dati: come vedrete, un senatore della maggioranza di governo considera irrilevante l'aumento delle tasse che noi paghiamo.
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Addio Fidel Castro, 9 giorni di lutto a Cuba. Funerali il 4. Gentiloni: Italia ci sarà.

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Fidel Castro è morto. Il Leader Maximo ed ex presidente cubano, che dal 2008 aveva lasciato la guida politica al fratello Raul, aveva 90 anni. La notizia della sua scomparsa l'ha data proprio Raul sulla Tv nazionale. Cuba ha proclamato 9 giorni di lutto nazionale. I funerali si terranno il 4 dicembre nel cimitero di Santa Ifigenia, nella città di Santiago de Cuba. «Il governo italiano sarà presente», ha annunciato il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni.

Il capo della rivoluzione comunista di Cuba conquistò il potere sull’isola nel 1959, rovesciando la dittatura. Castro aveva compiuto 90 anni il 13 agosto scorso ed era stato celebrato in pompa magna nel Paese. Nelle prossime ore il comitato organizzatore dei funerali renderà noti i dettagli delle cerimonie ufficiali. La morte di Fidel Castro è avvenuta venerdì sera alle 22,29. Come era suo desiderio, sarà cremato.

«Dolore, ma sapevamo che questo doveva succedere», ha commentato Emma, la sesta figlia della coppia dei genitori dei fratelli Castro, Angel Castro e Lina Ruz. Nel ricordare che il fratello Fidel si era ammalato ormai una decina di anni, Emma Castro ha detto alla rete Univision a Città del Messico, dove vive da molti anni, che confida di poter andare a Cuba per dare l'ultimo addio al 'lider maximo'.


Eroe per la sinistra nel mondo e dittatore sanguinario per i nemici, è stato protagonista di una piccola isola caraibica per quasi sessant'anni, sulla scia della sua tenace battaglia contro la maggior potenza del mondo, gli Stati Uniti. Nato a il 13 agosto 1926 a Biran, figlio del proprietario terriero spagnolo Angel Castro e della cubana Lina Ruz, ha studiato prima nei collegi La Salle e Dolores di Santiago de Cuba, poi, dal 1941 al 1945, a L'Avana, nella prestigiosa scuola gesuita di Belen, periodo che incide fortemente nella sua formazione culturale, così come in quella del fratello, Raul.

Qualche anno dopo la laurea in legge si candida alle presidenziali, progetto subito frustrato per il golpe del 10 marzo di Fulgencio Batista. La sua risposta è l'assalto alla Caserma della Moncada, il 26 luglio 1953. Per Fidel fu un disastro: i ribelli vennero catturati e 80 di loro fucilati. Castro è condannato a 15 anni di prigione e, nella sua difesa finale, pronuncia il famoso discorso su 'La storia mi assolverà', in cui delinea il suo sogno rivoluzionario.

Dopo il carcere, amnistiato, va in esilio negli Usa, poi in Messico: è qui che conosce Ernesto Guevara. Insieme al 'Che', Raul ed altri 79 volontari, nel '56 sbarca nell'isola a bordo del 'Granma'. Il gruppo, sorpreso dalle truppe di Batista, viene decimato: in 21 riescono a rifugiarsi nella Sierra Maestra. I due anni di guerriglia mettono alle corde il dittatore.

Il primo gennaio 1959, i 'barbudos' entrano trionfalmente a L'Avana. Castro lo fa qualche giorno dopo. Fino al trionfo della 'revolucion', l'isola viveva del commercio con Washington. Dopo la presa del potere di Fidel, il paese divenne un campo di battaglia della 'guerra fredda'. Cuba riesce comunque a resistere al duro embargo americano e ad un attacco militare, quello della 'Baia dei Porci', organizzato dalla Cia formato da cubani reclutati all'estero. È poi stata al centro della crisi dei missili nel 1962 che ha rischiato di trascinare il mondo in una guerra nucleare mondiale.

Forte di un inossidabile carisma e affascinante capacità oratoria, Fidel è stato per decenni il 'nemico numero uno' di Washington: con il risultato che, mentre accresceva la sua dipendenza dall'Urss, appoggiava i movimenti marxisti e le guerriglie in America Latina ed in Africa, diventando tra i leader del movimento dei Paesi non Allineati.

Nel frattempo, si sposa con Dalia Soto del Valle. Hanno cinque figli: Alexis, Alexander, Alejandro, Antonio e Angel. Il 'lider maximo', con una vita privata nella quale realtà e mito s'intrecciano, è 'sopravvissuto' a dieci presidenti Usa e - ha più volte ricordato - a 600 attentati. Perfino nel crepuscolo del suo mandato, Fidel e il sistema politico cubano sono riusciti nel bene e nel male a resistere alla disintegrazione socialista e al crollo dell'Urss nel '91.

Per i cubani, Castro è stato il 'Comandante', oppure semplicemente Fidel, sul quale sono state costruite tante storie: «non dorme mai», «non scorda nulla», «è capace di penetrarti con lo sguardo e sapere chi sei», «non commette sbagli». Castro ha d'altro lato esibito una devozione per le cifre e dati, nascondendo caratteristiche come il pudore e lo scarso interesse, raro per un cubano, per la musica e il ballo.

Ha sempre avuto una salute di ferro fino all'improvvisa e grave emorragia all'intestino avuta al rientro di un viaggio dall'Argentina poco prima di compiere 80 anni. Malato, dopo aver delegato il potere al fratello Raul - prima in modo provvisorio il 31 luglio 2006, poi definitivamente nel febbraio 2008 - ha così cominciato il conto alla rovescia verso la fine di una vita leggendaria.

L'era di Fidel si scioglie lentamente, in mezzo a una nuova Cuba ogni volta più 'raulista', tra una serie di riforme economiche e la mano ferma del potere sul fronte politico: di sicuro una transizione, la cui portata è però difficile da capire.

La data chiave della nuova era è il 17 dicembre 2014: quel giorno, a sorpresa e con la mediazione di Bergoglio, L'Avana e Washington annunciano il 'disgelo' bilaterale. Fidel assiste da lontano al 'deshielo', ogni tanto scrive qualcosa ribadendo concetti quali la 'sovranità nazionale' e il 'no all'impero'. Ma in sostanza a dettare il ritmo dei cambiamenti ormai è Raul.

'Ucciso' più volte dalle reti sociali, e con lunghi periodi di assenza dal pubblico, i limiti al suo mandato Fidel li aveva fissati nel 2003, rivolgendosi ai cubani: «Rimarrò con voi, se lo volete, finché avrò la consapevolezza di potere essere utile, se prima non lo decide la stessa natura. Né un un minuto prima né un secondo dopo».


http://www.ilmessaggero.it/primopiano/esteri/fidel_castro_morto-2104520.html

Da leggere per capirne di più:

https://it.wikipedia.org/wiki/Fidel_Castro

Sciacca e Ribera sott'acqua, le impressionanti foto delle città allagate.

Foto di Nenè Mangiacavallo e Agostino Di Pisa.


Ribera
Ribera

Sciacca
Sciacca

Sciacca
Sciacca

Sciacca
Sciacca

Sciacca
Sciacca

http://livesicilia.it/2016/11/25/sciacca-e-ribera-sottacqua-le-impressionanti-foto-delle-citta-allagate_803763/13/#gpt

Il maltempo flagella l’Italia da Nord a Sud: il Tanaro fa ancora paura, 7 mila a rischio evacuazione.



Il bilancio delle forti piogge e dell’esondazione dei fiumi di questi ultimi giorni è di 1 morto e tre dispersi. Situazione preoccupante ad Alessandria.


L’Italia è martoriata dalla pioggia ormai da tre giorni. Non soltanto danni ma anche vittime dopo gli acquazzoni che hanno colpito il Nord Ovest della penisola e che lentamente si sono spostati verso le zone centrali interessando nella giornata di venerdì anche la capitale. 


ANSA

Il bilancio di questo ciclone di fine novembre è abbastanza pesante: c’è una vittima, il pescatore di 73 anni che era scomparso alla foce dell’Entella, e tre dispersi, un anziano a Perosa Argentina (Torino); un allevatore di Sciacca (Agrigento) e un commerciante di Letojanni (Messina). 


LAPRESSE

Il numero dei dispersi sale a quattro se si aggiunge il migrante scomparso nei giorni scorsi a Ventimiglia, probabilmente inghiottito dal fiume Roya. E ci sono ancora centinaia di sfollati, tra le province di Cuneo e nella provincia di Torino, 210 solo a Moncalieri, dove l’esondazione del fiume Chisola ha allagato tre borgate. 

LAPRESSE

I danni materiali sono molto ingenti si aggirano sui 100 milioni di euro.  
Colpiti anche l’entroterra di Imperia e parte del Savonese. 
Il capo della Protezione Civile, Fabrizio Curcio, segnala che in Piemonte ci sono stati «danni importanti», che si valuteranno «quando sarà finita la fase dell’emergenza». 

In Piemonte l’allerta rossa è ora solo limitata alle fasce lungo i fiumi in piena, ma il colmo di Tanaro, Bormida e Po fa ancora paura.  

ANSA

Ieri il premier Matteo Renzi ha seguito l’evoluzione nella sala operativa della Regione, elogiando il lavoro dei volontari e assicurando «azioni immediate».  

Oggi, il presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino, farà un sopralluogo nelle zone più colpite, a cominciare da Garessio (Cuneo), dove per tutta la giornata di ieri sono stati spalati fango e detriti. 

ANSA

Nella Valle Tanaro il fiume e i suoi affluenti hanno lasciato una grande devastazione: danneggiata la ferrovia turistica, appena riattivata, a Priola, innumerevoli le frane e le strade interrotte, campi allagati, fabbriche e attività artigianali e commerciali, case e cantine invase dall’acqua. 

ANSA

Il Tanaro ha fatto paura anche più a valle, uscendo dagli argini nell’Astigiano, mentre nel capoluogo di provincia gli argini hanno retto alla piena. Una sessantina i tratti delle strade provinciali e i ponti chiusi nella provincia di Cuneo, dove decine di persone hanno scelto di trascorrere la notte fuori casa. Evacuate abitazioni e cascine lungo i fiumi che bagnano Alessandria e la sua provincia, lo stesso Tanaro, la Bormida e il Po: a Isola S.Antonio la piena passerà solo tra la notte e domani mattina, mentre scatta già l’allerta in Lombardia e in Emilia-Romagna. 

ANSA

Gravi danni e grandi disagi anche in provincia di Torino più vicina al Cuneese: a Perosa l’argine del trio Albona si è rotto e la cascata di acqua, fango e detriti potrebbe avere travolto Biamino, un appassionato di cavalli che aveva sfidato la furia del maltempo proprio per mettere in salvo gli animali.  
L’elenco dei Comuni danneggiati tra le valli Chisone, Pellice e la pianura pinerolese, è lunghissimo: tante le frane e le strade allagate, danni all’agricoltura. 

ANSA

A Torino la piena del Po è passata trascinando contro il ponte di piazza Vittorio Veneto i due battelli turistici, uno dei quali è affondato dopo il fallimento delle operazioni di recupero. 

ANSA

Nelle prossime ore permarrà ancora la situazione di pericolo sul tratto di Tanaro compreso tra Asti e Alessandria e del Po tra Carignano (Torino) e Isola S. Antonio (Alessandria) Il livello del Tanaro ad Alessandria è ancora in crescita nelle prossime ore. Tra Carignano (Torino) e i Murazzi nel capoluogo piemontese, i livelli idrometrici del Po sono previsti ancora stazionari od in lieve diminuzione. I livelli di Tanaro e Po sono previsti in diminuzione nel corso della giornata di oggi. 

ANSA

Le piogge hanno colpito pesantemente anche la Locride, dove è stata interrotta una linea ferroviaria, e il Crotonese. In Sicilia il maltempo ha flagellato l’Agrigentino. Danni anche nel Cagliaritano, mentre ad Amatrice le pessime condizioni meteo hanno costretto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a rinviare la visita. E una nuova allerta incombe su Piemonte e valle d’Aosta: il rischio di valanghe, «marcato» o addirittura «forte» dopo le abbondanti nevicate oltre i 2.000 metri e le temperature miti previsti nel weekend. 

Consulta boccia riforma Madia della pubblica amministrazione. Renzi: “È la dimostrazione che il Paese è bloccato”.

Consulta boccia riforma Madia della pubblica amministrazione. Renzi: “È la dimostrazione che il Paese è bloccato”

Secondo la Corte Costituzionale la riforma è illegittima nelle parti in cui prevede che l’attuazione attraverso i decreti legislativi possa avvenire dopo aver acquisito il solo parere della Conferenza Stato-Regioni, sede dove serve invece un'intesa per poter procedere. I sindacati dei dirigenti: "Esiste un giudice a Berlino. E domani la delega scade. Mattarella non firmi il decreto". Ora per i decreti attuativi spunta l’ipotesi del ritiro.

Ennesimo incidente, questa volta sostanziale, sulla strada della riforma della pubblica amministrazione targata Marianna Madia. Secondo la Corte Costituzionale, la delega è illegittima nelle parti in cui prevede che l’attuazione attraverso i decreti legislativi possa avvenire dopo aver acquisito il solo parere della Conferenza Stato-Regioni, sede dove serve invece un’intesa per poter procedere. La pronuncia della Consulta è arrivata in seguito a un ricorso della Regione Veneto e riguarda le norme relative a dirigenzapartecipateservizi pubblici locali e pubblico impiego: rende quindi illegittimi anche i decreti approvati giovedì in via definitiva dal Consiglio dei ministri, tra cui quelli sui dirigenti e sui servizi locali (ancora da varare invece il testo unico sul pubblico impiego).
Ha fatto subito buon viso a cattivo gioco Matteo Renzi, che a nove giorni dal referendum costituzionale ha approfittato del pronunciamento per sottolineare: “La Consulta ha dichiarato parzialmente illegittima la norma sui dirigenti perché non abbiamo coinvolto le Regioni. E’ un Paese in cui siamo bloccati“. Chiaro il riferimento agli effetti della revisione del titolo V prevista dalla riforma Renzi-Boschi: se passerà, il governo potrà bypassare gli enti locali evitando la grana dei conflitti di competenza. Poco dopo è arrivata anche una nota del Comitato ‘Basta un sì’ che parla di “un ricorso basato su motivazioni meramente formali” che causa “l’ennesimo blocco burocratico, che ha fatto sprecare tempo e soldi al Parlamento per le sedute necessarie ad approvare questi provvedimenti e che impedisce ai cittadini di ricevere i benefici in essi contenuti. Uno stop che la riforma costituzionale permetterebbe di superare, riportando la gestione della pubblica amministrazione, com’è giusto che sia, alla competenza dello Stato”. Di parere diametralmente opposto i dirigenti, da tempo sulle barricate contro il ruolo unico e il rischio di restare senza poltrona e con lo stipendio ridotto: “E’ tutto da rifare. E domani la delega scade“, cantano vittoria. La Madia si limita a dire che “le sentenze si rispettano”. E, già che c’è, aggiunge anche lei che “se votiamo sì non ci sarà più la possibilità che una Regione blocchi l’innovazione di tutto il Paese”.
Tornando alla pronuncia, la Corte ha circoscritto il giudizio alle misure della delega Madia impugnate dalla Regione Veneto, lasciando fuori le norme attuative. “Le pronunce di illegittimità costituzionale colpiscono le disposizioni impugnate solo nella parte in cui prevedono che i decreti legislativi siano adottati previo parere e non previa intesa”, si spiega nella sintesi della sentenza. In particolare, sono stati respinti i dubbi di legittimità costituzionale relativi alla delega per il Codice dell’amministrazione digitale. Lo stop riguarda quindi esclusivamente le deleghe al governo “in tema di riorganizzazione della dirigenza pubblica”, “per il riordino della disciplina vigente in tema di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni”, “di partecipazioni azionarie delle pubbliche amministrazioni e di servizi pubblici locali di interesse economico generale”. La Consulta, guardando al futuro, sottolinea comunque che “le eventuali impugnazioni delle norme attuative dovranno tener conto delle concrete lesioni delle competenze regionali, alla luce delle soluzioni correttive che il Governo, nell’esercizio della sua discrezionalità, riterrà di apprestare in ossequio al principio di leale collaborazione“.
Ora per i decreti Madia spunta l’ipotesi del ritiro. I provvedimenti sulla dirigenza pubblica e sui servizi pubblici locali, approvati giovedì in Consiglio dei Ministri, potrebbero essere bloccati in uscita e il ‘timbro’ del Quirinale per questi diventerebbe superfluo. Invece per i decreti già pubblicati in Gazzetta Ufficiale, in vigore, quelli sulla razionalizzazione delle partecipate pubbliche e sui licenziamenti lampo per i furbetti, l’ipotesi di correttivi potrebbe non risultare sufficiente lasciando spazio all’alternativa del ritiro. Per quanto riguarda il testo unico sul pubblico impiego il problema non si pone, visto che la presentazione era prevista per febbraio. Quanto alla legge deroga, da cui i decreti discendono, dovrebbe essere rivista con anche una riapertura dei termini, ovvero delle scadenze per la definizione dei provvedimenti di attuazione.
Nei mesi scorsi alcuni tasselli della riforma erano già stati “smontati” dalla giustizia amministrativa: a metà ottobre il Consiglio di Stato ha bocciato il decreto sulla dirigenza pubblica per assenza di copertura finanziaria e mancanza di nuovi sistemi di valutazione, arrivando alla conclusione che  “occorrono rilevanti modifiche al decreto per un miglior risultato sul meritoefficienza e responsabilità dei dirigenti”. Sia il Tar sia il Consiglio di Stato hanno poi giudicato “illegittimi” e “irragionevoli” i requisiti richiesti dal decreto sulla pa digitale ai gestori di pec, certificatori e conservatori di documenti digitali. Ciliegina sulla torta, il Tar del Lazio ha demolito pure il regolamento attuativo di quest’ultimo decreto sulla digitalizzazione dei servizi ribadendo che i requisiti di capitale sono ingiustificati.
Dall’Unadis al Fedir, i sindacati dei dirigenti pubblici esultano. “Esiste un giudice a Berlino“, commenta l’Unione nazionale dirigenti dello Stato attraverso il segretario generale Barbara Casagrande. “Qualcuno comincia a dire che la legge Madia è incostituzionale e, di conseguenza, lo è il decreto legislativo adottato ieri dal Consiglio dei Ministri, laddove non vi è una intesa con la Conferenza Stato Regioni (ma solo un parere). Dopo le numerose iniziative volte ad evidenziare le nostre preoccupazioni nei confronti di una riforma inapplicabile, incostituzionale, che lede l’imparzialità della funzione amministrativa e ingenera incrementi dei costi all’esterno, adesso dobbiamo ragionare sulle azioni immediate a tutela della difesa della dirigenza”. “Domani la delega scade”, ma “auspichiamo che non si blocchi il processo di riforma, ma che avvenga in modo corretto e condiviso”. Per mercoledì è convocata una “grande assemblea della dirigenza, insieme ai nostri legali, per definire le azioni imminenti a difesa della categoria e del Paese”.
Il segretario nazionale della Federazione dei Dirigenti e Direttivi Pubblici (Fedir), Antonio Travia, fa appello al presidente Mattarella chiedendogli “di non rendersi complice di Renzi di ulteriori illegittimità e quindi di non firmare il decreto Madia sulla dirigenza”.

venerdì 25 novembre 2016

Ars, il mistero di Riggio e Cascio Condannati, ma non ancora sospesi. - Accursio Sabella

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Per la legge Severino, i due parlamentari condannati oltre un mese fa devono lasciare Sala d'Ercole. Ma la procedura è ferma a Palazzo Chigi.

PALERMO - La condanna a due anni e otto mesi per corruzione nei confronti di Francesco Cascio è arrivata 34 giorni fa. 
Quella a Francesco Riggio (5 anni e 8 mesi) per la truffa relativa ai fondi del Ciapi, addirittura 38 giorni fa. Per la legge Severino, entrambi i deputati regionali dovranno essere sospesi dalla carica per 18 mesi. In pratica, dovranno decadere, visto che la fine della legislatura è prevista tra meno di un anno. Ma entrambi sono ancora lì, a Sala d'Ercole, da 34 e 38 giorni. Giorni in cui, oltre ovviamente a ricevere indennità e bonus, che nel caso di Cascio si “estendono” all'intero ufficio di “past president”, i deputati avranno potuto esaminare, votare, approvare e bocciare provvedimenti importanti come ad esempio la manovra di assestamento.

Un mistero. Perché in altri casi, i deputati condannati sono stati “sospesi” in tempi molto più brevi. Persino nell'arco di una settimana. Ma stavolta, tutto procede a rilento. Come mai? Giorni addietro il deputato nazionale del Pd Francesco Boccia aveva puntato il dito contro l'Assemblea regionale siciliana, guadagnandosi però una piccata risposta del presidente dell'Ars Giovanni Ardizzone che ha, di fatto, svelato dove si è inceppato il meccanismo: “L'onorevole Boccia – la replica di Ardizzone all'Adnkronos - ha commesso un errore di persona. Sarebbe stato più corretto, infatti, rivolgersi alla presidenza del Consiglio dei ministri, piuttosto che a quella dell'Assemblea regionale siciliana”. Da allora, sono passati quasi dieci giorni. Ma nulla si è mosso. E contattato da Livesicilia, Ardizzone allarga le braccia: “Per procedere – spiega – serve un decreto di sospensione della Presidenza del consiglio dei ministri. Un decreto che dovrà essere trasmesso al Commissario dello Stato, quindi quest'ultimo dovrà trasmetterlo all'Ars”. A quel punto, non è chiaro se la sospensione avviene attraverso la semplice presa d'atto e comunicazione in Aula o tramite la convocazione della commissione per la Verifica dei poteri, come era avvenuto nel caso della prima “vittima” della Legge Severino, cioè l'ex deputato del Pdl Salvino Caputo.

Di certo c'è che il procedimento è fermo a Palazzo Chigi. E di giorni, come detto, ne sono passati parecchi. Al punto che qualcuno ha iniziato a sollevare qualche dubbio di natura “politica”. Riggio, infatti, è un ex deputato del Pd che si sarebbe avvicinato a movimenti politici vicini ai renziani. 

Cascio, invece, è il coordinatore regionale del Nuovo centrodestra, il partito del ministro dell'Interno Angelino Alfano. Contro quest'ultimo ha puntato il dito, tra gli altri, il deputato nazionale di Sinistra Italiana, Erasmo Palazzotto: “Non vorremmo – ha detto - che il Ministro dell'interno confonda il suo ruolo istituzionale con quello di capo del Ncd, partito di cui Francesco Cascio è uno dei principali esponenti”. A dire il vero, Alfano, da capo dell'Ncd, sul tema si era espresso, ribadendo “amicizia, stima e fiducia” a Cascio e dicendosi certo della “sua innocenza che sono convinto riuscirà a provare in appello. L’articolo 27 della Costituzione – ha aggiunto - è tuttora in vigore e ci consente, e al tempo stesso impone, di considerarlo innocente”. Il ministro ha poi annunciato di aver “convintamente respinto” le dimissioni del deputato siciliano da coordinatore regionale di Ncd.

In realtà, però, le dimissioni non servirebbero nemmeno, in questo caso. Basterebbe applicare la legge. Che invece tarda a diventare operativa nei casi di Cascio e a maggior ragione di Riggio, condannato prima del suo collega di Ncd. E intanto, i parlamentari che dovrebbero subentrare ai due deputati, ossia Giuseppe Di Maggio e Pino Apprendi, attendono. “Inizio ad avere l'impressione – denuncia Apprendi – che in questi casi la politica interferisca, rallentando o accelerando le procedure. Devo anche prendere purtroppo atto che il mio partito non si è mobilitato per far rispettare la regolarità del procedimento. Anzi, - conclude – devo constatare che il Pd si è proprio disinteressato di questa questione”. E il mistero dei deputati “intoccabili” continua.


http://livesicilia.it/2016/11/25/ars-il-mistero-di-riggio-e-cascio-condannati-ma-non-ancora-sospesi_803821/

L’INCOERENZA DI NAPOLITANO. - Tomaso Montanari

L’incoerenza di Napolitano

Per l’ennesima volta, il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano entra a gamba tesa nel gioco politico, prendendo posizione a fianco di una sola delle due metà in cui lui e Matteo Renzi stanno spaccando il Paese. Lo fa dichiarando che vota Sì, “coerentemente con le mie posizioni di questi anni”.
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Non so sull’arco di quanti anni sia lecito misurare questa coerenza, ma se nel computo rientra ancora, non dico il 1956 ma almeno il 1995, Napolitano è – al contrario – del tutto incoerente. In quell’anno, infatti, egli firmò una proposta di legge costituzionale (2115/1995) che, se fosse stata approvata, oggi avrebbe impedito a Renzi di imporre a maggioranza questa “riforma” e, in ogni caso, ci obbligherebbe a un voto referendario “spacchettato” per temi.

In quel momento la maggioranza era nelle mani di Berlusconi, Bossi e Fini e un fitto drappello di parlamentari del Centrosinistra affermò con forza che la costituzione non doveva essere nella disponibilità del governo del momento. Tra quei parlamentari figuravano anche Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella.
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Ma cosa diceva quella sacrosanta proposta di modifica che toccava gli articoli 64, 83, 136 e 138 della costituzione? Essa muoveva dalla convinzione – cito dalla relazione introduttiva – che “il principio maggioritario trovi un limite invalicabile nel rispetto dei principi costituzionali, delle regole democratiche, dei diritti e delle libertà dei cittadini: principi, regole, diritti, libertà che non sono e non possono essere rimessi alle discrezionali decisioni delle maggioranze pro tempore”.
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Perché – cito ancora – “è questo il pilastro principale del costituzionalismo moderno, prodotto maturo di una lunga e contrastata stagione storica terminata con l’affermazione dei principi e dei valori della cultura democratica e liberale”.
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Essendo queste le premesse, si capisce che tutti gli articoli di quella proposta di legge firmata da Napolitano (e da Mattarella) meritino di essere commentati.
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L’articolo 4 cambiava il primo comma del fatidico articolo 138, elevando a due terzi la soglia minima per cambiare la costituzione, e continuando a prevedere due deliberazioni separate da almeno tre mesi. Tradotto in termini odierni: se quella riforma Napolitano fosse stata approvata, oggi non avremmo la riforma Napolitano-Boschi-Renzi, approvata a maggioranza.
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Si proponeva poi di cambiare anche il terzo comma dello stesso articolo 138, che manteneva il referendum popolare (in aggiunta ai due terzi del parlamento), prevedendo che si votasse “per ciascuna delle disposizioni sottoposta a revisione, o per gruppo di disposizioni tra loro collegate per identità di materie”. Tradotto in termini odierni: se quella riforma Napolitano fosse stata approvata, oggi si sarebbe votato come avrebbe (giustamente!) voluto Valerio Onida.
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Ancora due altri punti, diametralmente opposti alla riforma odierna. Napolitano proponeva che il presidente della Repubblica fosse eletto “a maggioranza di due terzi dell’assemblea”. Sempre: dal primo all’ultimo scrutinio. Tradotto nei termini della riforma renziana farebbero 487 voti: quando invece oggi ne bastano 221, dal settimo scrutinio.
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Al Napolitano di oggi la velocità sembra un valore cui sacrificare le garanzie democratiche, ma al Napolitano del 1995 era venuta un’ottima idea: “Se, alla scadenza del mandato del presidente uscente, l’assemblea non ha ancora provveduto alla elezione del suo successore, le funzioni di presidente della Repubblica sono provvisoriamente assunte dal presidente della Corte Costituzionale”.
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Infine, un’altra chicca: si stabiliva che le Camere adottassero i propri regolamenti a maggioranza dei due terzi dei componenti. Questo sì che era uno statuto delle minoranze! Mentre oggi la riforma Napolitano-Renzi-Boschi prevede che ciò avvenga a maggioranza semplice: mettendo di fatto la minoranza nelle mani della maggioranza e, per esempio, vanificando totalmente la possibilità che le leggi di iniziativa popolare vadano avanti speditamente anche se non gradite al governo.
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Insomma, Giorgio Napolitano può dire tutto tranne che il suo Sì di oggi sia coerente con il Napolitano del 1995. Allora Napolitano era in minoranza, e pensava ai diritti della minoranza. Oggi è il capo della maggioranza e non pensa più ai diritti della minoranza.
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Ma noi siamo ancora d’accordo con il Napolitano di allora, e votiamo No perché pensiamo che cambiare la costituzione a maggioranza abbatta “il pilastro principale del costituzionalismo moderno”: parola di Giorgio Napolitano.