mercoledì 14 novembre 2018

La banda del buco.- Marco Travaglio

L'immagine può contenere: 2 persone, persone in piedi e spazio all'aperto

Dopo aver sorseggiato i fiumi d’inchiostro versati dai giornaloni sull’oceanica manifestazione "Sì Tav" di sabato a Torino, che ha visto sfilare nientepopodimenoché un torinese su 35 o un piemontese su 177, una domanda sorge spontanea: cosa sapeva tutta questa brava gente del Tav Torino-Lione? Si spera vivamente che ne sapesse un po’ di più di una delle sette madamine organizzatrici dell’Evento, Patrizia Ghiazza, cacciatrice di teste all’evidenza sfortunata, che l’altra sera esibiva tutta la sua competenza a Otto e mezzo: “Né io né le altre organizzatrici siamo competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera”. Non male, per una manifestazione apolitica e apartitica, ma soltanto tecnica, sul merito del treno merci ad alta velocità (anzi, a bassa, perché le merci di solito viaggiano a non più di 100-120 km l’ora). Essendosi “informati sui giornaloni che hanno sponsorizzato la Lunga Marcia, era prevedibile che organizzatori e partecipanti ne sapessero pochino, e che quel pochino fosse falso. Infatti sventolavano cartelli “Sì alla Tav”, ignorando che è l’acronimo di Treno Alta Velocità, dunque è maschile, con buona pace di Stampubblica che ha spacciato l’iniziativa per una “rivolta delle donne” contro non si sa bene cosa, anche se in piazza sfilavano soprattutto maschietti di una certa età.
L’acronimo, fra l’altro, è una patacca (femminile), perché per le merci l’espressione giusta è Treno ad Alta Capacità (Tac). I marciatori, e Salvini a ruota, ripetevano che l’opera va assolutamente “completata”: ma un’opera si completa quando è già iniziata e qui non è stato costruito nemmeno un millimetro di ferrovia: i cantieri che tutti vedono da 15 anni sono quelli del tunnel esplorativo, nulla a che vedere con l’opera vera e propria, il “tunnel di base”, cioè il mega-buco dovrebbe attraversare 57 km di montagna e che fortunatamente non esiste: le gare d’appalto non sono state neppure bandite. Dunque non c’è nulla da completare. Alcuni sognano di salire un giorno a bordo del mirabolante supertreno, ma purtroppo, escludendo che i Sì Tav si considerino merci, resteranno mestamente a terra anche se l’opera venisse realizzata. Chi volesse invece raggiungere ad alta velocità Parigi o Lione da Milano o da Torino, può montare sul comodo Tgv, che dalla notte dei tempi percorre rapidamente quella tratta. Ma i nostri eroi strillano contro l’“isolamento dell’Italia” e per il “collegamento con l’Europa”, evidentemente ignari dell’esistenza del Tgv da e per la Francia, dei treni veloci da e per la Svizzera e così via.
Forse pensano che, per affacciarsi oltre la cinta daziaria, sia necessario scalare le Alpi a piedi. Monsù e madamine saranno tutti interessati al trasporto merci? Benissimo, allora possono stare tranquilli: le loro merci da trasportare ad altissima velocità da Torino a Lione possono depositarle in uno a caso dei container (perlopiù vuoti) che ogni giorno viaggiano sui treni della tratta Torino-Modane- Chambéry-Culoz, che dal 1871 attraversa il Frejus, ci è appena costata 400 milioni per lavori di ammodernamento ed è inutilizzata all’80-90%. 
Siccome alla marcia c’era pure Paolo Foietta, commissario dell’Osservatorio Tav, qualcuno avrebbe potuto domandargli con che faccia sostenga ancora l’utilità dell’opera, dopo avere scritto un anno fa al governo Gentiloni che “molte previsioni fatte 10 anni fa, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali della Ue, sono state smentite dai fatti”. 
Ma nessuno lo sapeva. E chissà se quanti invocano “lavoro” sanno che attualmente nel cantiere lavorano appena 800 persone, che salirebbero a non più di 3-4mila per il tunnel di base, con un costo stratosferico per ogni occupato. La delibera 67/2017 del Cipe stima il costo complessivo del solo tunnel di base in 9,6 miliardi: il 57,9% lo paga l’Italia e solo il 42,1 la Francia (anche se il tunnel insiste per l’80% in territorio francese e solo per il 20 in territorio italiano: perché?). E chissà se chi si riempie la bocca di paroloni come “futuro”, “sviluppo”, “modernità” è stato informato che, in 17 anni di studi e carotaggi, abbiamo già buttato 1,6 miliardi, oltre a tenere la Val di Susa in stato d’assedio permanente.
Ora servono sulla carta un’altra quindicina di miliardi, che poi nella realtà salirebbero a 20-25 (le grandi opere in Italia lievitano in media del 45%). È questa la “decrescita infelice”, non quella di chi si oppone a un’opera ad altissima voracità e a bassissima occupazione. 
E chi vaneggia di “penali da pagare” o di “fondi europei da restituire” o “da non perdere” ignora che la parola “penale” non compare in alcun contratto o accordo con la Francia, con l’Ue o con ditte private. L’Italia, sul suo tracciato, può fare ciò che vuole. Recita la legge 191/2009: “Il contraente o l’affidatario dei lavori deve assumere l’impegno di rinunciare a qualunque pretesa risarcitoria eventualmente sorta in relazione alle opere individuate… nonché ad alcuna pretesa, anche futura, connessa al mancato o ritardato finanziamento dell’intera opera o di lotti successivi”. Quanto all’Ue, finanzia solo lavori ultimati: se il Tav non si fa più, l’Italia non deve restituire un euro. Ora però le nostre disinformate madamine si sono montate la testa: chiedono udienza al Quirinale, danno ordini alla sindaca Appendino e al governo Conte, come se 25mila persone in piazza contassero più dei 10.935.998 italiani che hanno votato per i 5Stelle (No Tav) nel 2018 e dei 202.754 torinesi che nel 2016 hanno eletto la sindaca No Tav Chiara Appendino contro il Sì Tav Piero Fassino. Invece i No Tav, che negli anni hanno portato in piazza ora 40 ora 50mila persone, non se li è mai filati nessuno. A parte, si capisce, i manganelli della polizia.

Fonte: ilfattoquotidiano del 14 novembre 2018

Le casette marce e i terremotati di nuovo sfollati.


Pannelli marci e zuppi d'acqua che hanno reso le casette dei terremotati del centro Italia pericolanti. Roberta Rei è andata a indagare su cosa non ha funzionato nella ricostruzione.
Per la ricostruzione dopo il terremoto che ha colpito il centro Italia due anni fa abbiamo speso un miliardo e 188 milioni di euro di soldi pubblici per la costruzione delle casette per i terremotati. Che però si sono ritrovati con pareti e soffitto zuppi d’acqua, e molti di loro si sono dovuti nuovamente trasferire negli alberghi sul mare, a centinaia di chilometri dalle loro città, perché le abitazioni erano diventate pericolanti.
Com’è possibile? I carotaggi eseguiti hanno rilevato un’altissima presenza di umidità, e questo perché i pannelli delle case sono stati tenuti all’aperto. Come ha rivelato un operaio addetto al cartongesso a Roberta Rei: “Venivamo pressati per concludere nel minor tempo possibile. E così abbiamo montato i pannelli con le fessure tra uno e l'altro, e molto spesso non abbiamo completato le lavorazioni perché non facevamo in tempo. E si montavano i pannelli anche bagnati, perché non c'era un posto per lo stoccaggio dei materiali, e quindi venivano lasciati sotto la pioggia e la neve”. 
Casette che sono arrivate a costare anche 5.000 euro al metro quadro.
Ma non è tutto. La Procura di Macerata sta indagando sulle condizioni dei lavoratori. Uno di loro ha detto a Roberta Rei che "Nessuno di noi ha mai avuto il casco o i guanti, ed eravamo pagati in nero". Per ricevere il compenso ogni operaio doveva avere due carte ricaricaribili. In una veniva caricato lo stipendio, nell’altra gli straordinari. Gli operai raccontano alla Rei di aver visto cifre altissime che nulla c’entravano con gli straordinari e ipotizzano tentativi di riciclaggio. Anche su questo sta indagando la Procura. Roberta Rei è andata a chiedere conto proprio al presidente del consorzio Arcale Giorgio Gervasi, all’assessore responsabile della Regione Marche e ad Angelo Borrelli, capo della Protezione civile
“Ci sentiamo sballottati a destra e a sinistra, ci trattano come animali”, ha detto uno sfollato alla Iena. “Ci sentiamo presi in giro, da tutti quanti”, ha aggiunto un terremotato.
Fonte: iene.mediaset 13 11.2018

martedì 13 novembre 2018

Crisi di astinenza da crescita.- Miguel Martinez



Seguo la straordinaria manifestazione che si è svolta ieri a Torino a favore del TAV.
Alla testa di tutto, c’è la Confindustria:
“Confindustria ribadisce “con forza l’assoluta necessità di completare i lavori della Tav”. E annuncia “che proprio a Torino convocherà un Consiglio generale straordinario allargato alla partecipazione dei Presidenti di tutte le Associazioni Territoriali d’Italia per protestare insieme contro una scelta, il blocco degli investimenti, che mortifica l’economia e l’occupazione del Paese”.”
Leggo su Repubblica la composizione, invece, della piazza:
“Il sit-in è stato promosso dall’associazione “Sì Torino va avanti” e da “Sì lavoro”, legata a Mino Giachino, ex sottosegretario ai Trasporti del governo Berlusconi, che ha lanciato una petizione online arrivata a più di 65mila sottoscrizioni. Hanno aderito il Partito democratico, i moderati, Forza Italia e anche la Lega, nonostante il partito di Matteo Salvini governi insieme al Movimento 5 Stelle che intende bloccare i cantieri e ha annunciato l’analisi costi benefici per l’alta velocità.
In piazza anche i Radicali e Fratelli d’Italia, che raccolgono firme per due referendum.”
Casa Pound, che è ovviamente fortemente schierata dalla parte delle Opere che Fanno Grande l’Italia, all’ultimo momento ha deciso di non scendere direttamente in piazza,
«Pur condividendo le legittime proteste degli amici del No Ztl non intendiamo manifestare formalmente con il Partito Democratico e il circuito di poteri forti che la sinistra rappresenta».
Mettiamo da parte per un momento i pareri sul valore o sul pericolo dell’opera in sé, e partiamo dalla parolina che meno vi avrà colpiti: “gli amici del No Ztl”.
Non è solo in Oltrarno che le cose piccole permettono di cogliere la chiave di quelle grandi: no Ztl, cioè i commercianti che sotto l’egida di Casa Pound si stanno battendo perché il flusso di auto nel centro della città non si fermi nemmeno per un istante.
Auto prodotte con frammenti provenienti da tutto il mondo, che trasformano il petrolio ricavato dai deserti arabi in veleno per i nostri polmoni e in gas serra e tutto il resto. Va da sé che i No Ztl si battono soprattutto su Facebook regalando i propri profili al signor Zuckerberg, quindi tranquilli, non sono antisemiti.
Benzina e sottoprodotti portano un momentaneo sollievo alla crisi, che somiglia piuttosto a una crisi di astinenza. E certamente hanno ragione i piccoli commercianti a sentirsi addosso il fiato della morte addosso.
Però tutta la sciarada di ieri diventa più comprensibile, se partiamo da questo concetto: la crisi da astinenza da crescitaE’ chiaramente il motivo della scelta della Confindustria, ma anche di tutte le piccole realtà a scendere, giù giù fino ai Fratelli d’Italia.
Insomma, stiamo parlando qui di politica vera e non solo di politica spettacolo, per questo si mescolano tra di loro i giocatori delle varie squadre.
Apriamo una parentesi.
Nel 1936, Daniel Guérin scrisse Fascisme et gran capital, pubblicato in italiano come Fascismo e gran capitale dall’amico Roberto Massari.
Guérin, osservando da vicino la nascita del fascismo e del nazismo, aveva osato fare ciò che oggi i furbi evitano accuratamente di fare: dare una definizione falsificabile di fascismo.
Con molti esempi calzanti, Guérin diceva che gli imprenditori dell‘industria pesante, in particolare metalmeccanica, godevano di un enorme potere, strettamente legato agli appalti statali, perché dallo Stato ricavavano sia le infrastrutture che gran parte delle loro commesse.
Dallo Stato l’industria pesante aveva ottenuto la più Grande Opera Inutile e Imposta di tutti i tempi, la prima guerra mondiale.
Dall’altra parte, c’era l’industria leggera (segnatamente quella tessile della Toscana, che lui evidentemente conosceva bene), che non aveva bisogno di Grandi Opere, ma di traffici internazionali; era molto meno dirigista, non era legata allo Stato; e cercava di mediare nello scontro con i lavoratori.
Con la fine della pacchia (cioè della Grande Strage), l’industria pesante si trovava in una crisi paurosa: quando non c’è più da ammazzare, non ti comprano più le bombe.
A lungo termine, la soluzione più semplice sarebbe stata quella geniale adottata dagli Stati Uniti nel 1945: “facciamo altri ottant’anni di guerra, ovunque sia!”
Ma nel 1919, gli operai – che avevano goduto di una piccola pacchia anche loro – pretesero di avere il controllo sul luogo dove passavano la maggior parte delle loro vite da svegli.
Fu a quel punto che la Confindustria decise di finanziare lo squadrismo fascista.
Ma siccome la crisi si faceva dura, si aggregarono anche l’industria leggera, e tutto il mondo agrario.
Questa analisi del fascismo, a ottant’anni di distanza, presenta diversi problemi.
Intanto Guérin era un latino, e all’epoca solo anglosassoni e germanici intuivano qualcosa del vero problema del mondo, la catastrofe ecologica in preparazione.
Poi, esiste oggi una “industria pesante” e una “industria leggera” in Italia?
Come facciamo a distinguere capitali che girano vorticosamente per il pianeta su computer, e definirli “italiani” o “americani” o magari “nigeriani”?
In un mondo di anziani, esistono reduci ventenni fuori di testa per aver passato tre anni di vita e morte in trincea?
Esistono operai che rivendicano il controllo della fabbrica in cui lavorano?
E se nel 2018 cerchi l’olio di ricino, vai su Amazon e trovi questo:
Insomma, si fa presto a dire che stanno tornando i fascisti.
Ma fatta la tara a tutto ciò, la Confindustria esiste ancora; la crisi c’è; la crescita bisogna farla lo stesso; i lavoratori vanno flessibilizzati, globalizzati, delocalizzati, automatizzati; e almeno in Toscana, i padroni delle terre che producono il vino e i palazzi che ospitano i turisti sono i pronipoti degli stessi conti e marchesi che qui inventarono il fascismo.
Abbiamo finito di scherzare, quando si deve decidere sul serio, arrivano i produttori e decidono loro come bisogna fare.
E il momento tremendo arriva, quando compare anche il No Ztl, quando tutti i piccoli disperati spaventati dalla crisi si aggregano, e i profitti di pochi diventano la furia di tanti.
Con la differenza che gli squadristi del 1920 si limitavano a bastonare contadini e operai. Questa nuova furia crescista che non picchia nessuno e usa l’olio di ricino solo per abbellirsi le ciglia, è diretta contro la sopravvivenza della vita sull’unico pianeta che abbiamo.
Immaginatevi questa gente che si agita per un’ipotetica linea ferroviaria, il giorno che qualcuno minaccia di privarla della plastica usa e getta.
E mi dicono che Marte è proprio bruttino.
Fonte: comedonchisciotte del 10/11/2018

Grazie del pensiero. - Marco Travaglio

Immagine correlata

Ogni tanto riceviamo lezioni di diritto dagli “amici” di Repubblica. Càpita, per carità: le polemiche vanno e vengono. Noi però siamo sfortunati: non riusciamo mai a capire dove avremmo sbagliato.

Di solito funziona così: noi scriviamo che Repubblica dice il falso e Repubblica, nel vano tentativo di dimostrare di aver detto il vero, scrive un altro falso. Sarà perché noi abbiamo il brutto vizio di documentarci e di parlare solo di cose che conosciamo.

Ora, per dire, Luca Bottura – che abbiamo conosciuto in altri tempi come “umorista” autore di varietà tv e mai abbiamo incontrato in una procura o in un tribunale, ergo non lo sospettavamo esperto di inchieste e processi – ci spiega i casi Consip e Raggi.

E parte subito col piede giusto: “Il padre di Renzi è stato assolto”. Invece purtroppo è indagato per traffico di influenze illecite (e per altre vicende inquisito per bancarotta fraudolenta e imputato per false fatturazioni) e il pm ne ha chiesto al gip l’archiviazione (non ancora concessa), dopo averlo definito “non credibile” e “largamente inattendibile” sull’incontro con l’imprenditore Alfredo Romeo. È un po’ come se un professore di astronomia, alla prima lezione, premettesse: “Sia chiaro, il Sole gira attorno alla Terra”. Anche gli studenti più digiuni in materia sospetterebbero che sia un impostore.

Tornando al nostro giurista per caso, cogliamo fior da fiore.
1) “Il padre di Renzi è stato assolto”
(falso: richiesta di archiviazione).

2) “Ma, siccome quel che scriveva Travaglio era accaduto davvero, è colpevole”
(falso: mai scritto che sia colpevole; abbiamo riportato le frasi dei pm che lo sbugiardano e alcune circostanze ignorate o trascurate nella richiesta di archiviazione).

3) “Virginia Raggi è stata assolta” (vero).

4) Ma “quel che hanno scritto i giornali era vero” (falso).
La Raggi era imputata di falso ideologico per una risposta a una domanda dell’Anac sul ruolo di Raffaele Marra, capo del Personale, nella nomina del fratello Renato (graduato dei Vigili) a dirigente del Turismo: un ruolo, scrisse la sindaca, soltanto “compilativo” di una decisione assunta da lei con il competente assessore Meloni. Poi si scoprì, da alcune chat, che Raffaele suggerì a Meloni di prendere Renato al Turismo (lui peraltro lo nega, nel processo per abuso d’ufficio: deciderà il giudice). E Meloni, che aveva già lavorato con Renato, ne fu felice. Su quest’unico punto verteva tutto il processo: la Raggi sapeva o no che Marra aveva messo lo zampino, quando scrisse che aveva svolto un ruolo “compilativo”? Secondo i pm, sì: cioè la sindaca mentì sapendo di mentire.
Secondo i difensori, no: scrisse all’Anac ciò che risultava a lei, ignara di riunioni in altri uffici e in sua assenza, peraltro su un “interpello” per la rotazione di tutti e 200 i dirigenti del Campidoglio, non solo di Renato. Il giudice ha dato ragione a lei: e non perché “manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova” (art. 530 comma 2), ma perché “il fatto non costituisce reato” (art. 530 comma 1). Cioè perché la Raggi non sapeva ciò che i pm l’accusavano di avere consapevolmente taciuto. Dunque non ha mentito, anzi ha detto quanto risultava a lei: all’Anac, ai pm e al tribunale. Punto. Assolta con formula piena.

Bottura sostiene che la Raggi è “il peggior sindaco/a di Roma di sempre”: liberissimo di preferirle Alemanno e gli altri galantuomini che spalancarono il Campidoglio a Buzzi, Carminati & C.

Ma, non sapendo nulla di questo come di nessun altro processo, il nostro giureconsulto sostiene che negli ultimi 2 anni e mezzo i giornali han fatto solo “cronaca giudiziaria spicciola”. E molto si duole perché ho riepilogato le balle più grosse dei giornali.

Repubblica, per esempio, riuscì a scrivere che: le inchieste sulla Raggi erano il “mesto déjà vu di una stagione lontana, quella della Milano di Mani Pulite” (falso: Mani Pulite si occupava di tangenti e appalti, l’inchiesta Raggi di una lettera all’Anac);

“Salvatore Romeo ha un legame privato, privatissimo con la Raggi, in pieno conflitto d’interesse” (dunque la Raggi era l’amante di Romeo, oltreché di altri; a questo si riferisce Di Battista quando, ricordando quanti l’hanno dipinta come una puttana, restituisce l’insulto a loro, non a tutta la categoria);

“Quelle polizze potrebbero avere un’origine non privata, ma politica”, “il rebus della provenienza dei fondi”, “soldi di chi? Per garantirsi quale ritorno?”, “tesoretti segreti e ricatti” per “garantire un serbatoio di voti a destra” (non è mai esistita alcun’indagine sulle polizze di Romeo che ipotizzasse fondi occulti, tesoretti segreti o compravendite di voti, anzi la Procura dichiarò subito le polizze “prive di rilevanza penale”;

quella, dunque, non era cronaca giudiziaria spicciola, ma linciaggio organizzato a base di menzogne costruite a tavolino: gli unici veri falsi materiali visti in quel processo).

Alla fine, dopo aver inanellato una collezione di balle da Guinness, il Bottura si avventura in un ardito parallelo fra 25 anni di assalti di B. alla libera stampa, dall’editto bulgaro ai conflitti d’interessi editorial-televisivi, e gl’insulti di Di Maio&C. ai falsari del caso Raggi. E spiega che, diversamente da oggi, “a quei tempi eravamo tutti insieme da questa parte della barricata”.
Però – minaccia – se le nuove SS verranno a prendermi, “noi saremo lì a difenderti”.

Non so dove fosse lui ai tempi di B., ma so dov’era Repubblica.
Nel 2008, quando B. tornò al governo e osai ricordare in tv i rapporti del neopresidente del Senato Schifani con alcuni mafiosi, fui attaccato da tutto il centrodestra, da mezzo centrosinistra e Repubblica mi “difese” schierandosi con Schifani e insinuando che mi facessi pagare le ferie dalla mafia.

Quindi grazie del pensiero, ma per la mia difesa preferisco fare da solo.
Come se avessi accettato.

Fonte: ilfattoquotidiano del 13 novembre del 2018

Intascava soldi dall'imputato La Consulta boccia il Csm: «Quel giudice è da cacciare». - Luca Fazzo



I colleghi provano a salvare il magistrato che andava licenziato. Stop della Corte Costituzionale.

Va a sbattere contro la Corte Costituzionale uno dei tentativi più arditi del Consiglio superiore della magistratura di salvare la poltrona a una toga scoperta a prendere soldi.

Che nel giudicare le colpe dei giudici al Csm siano inclini al garantismo è cosa risaputa: di magistrati assolti, o puniti blandamente, nonostante prove granitiche sono piene le cronache di questi anni. Ma nel caso di Luisanna Figliola, giudice preliminare a Roma e oggi pm a Napoli, sembrava che non ci fosse scampo: la legge prevedeva per lei come unica sanzione possibile la destituzione, ovvero il licenziamento. Il Csm ha ritenuto che l'obbligo di sfilare la toga alla collega violasse addirittura la Costituzione, e si è rivolto alla Corte Costituzionale perché cancellasse la norma. Ricevendone in risposta una brusca bocciatura. Se un magistrato si fa pagare da un imputato, non può continuare a fare il magistrato: sembra una ovvietà, ma per farla digerire al Csm c'è voluta la Consulta.
La Figliolia è un magistrato maturo e di grande esperienza, con alle spalle processi importanti nella Capitale (compreso quello alle nuove Brigate Rosse) e con un passato di militante in una delle correnti della magistratura. Ma questo rende ancora più grave quanto avviene tra lei e Vittorio Cecchi Gori, il produttore cinematografico finito in dissesto.

La sentenza della Corte Costituzionale riassume così le colpe: alla Figliolia «è contestato di avere ottenuto da un imprenditore, che sapeva essere indagato presso il proprio ufficio di appartenenza per il delitto di bancarotta fraudolenta, vantaggi indiretti (consistenti nel conferimento al proprio coniuge di un contratto per un corrispettivo mensile di 100.000 euro) e diretti (costituiti da numerosi soggiorni in lussuose abitazioni, viaggi in aereo privato, una borsa del valore di 700 euro e una festa di compleanno del valore di 2.056 euro)». Più colorito il contesto dei rapporti tra i due come li ha raccontati, nel processo alla Figliolia, l'ex fidanzata di Cecchi Gori, Mara Meis: secondo cui la giudice avrebbe imposto al produttore oltre ai servigi del marito anche la presenza di una maga, grazie alla quale l'uomo poteva dialogare con la madre morta.
La Figliolia è stata assolta in sede penale, perché non si è dimostrato quali favori - a parte i dialoghi con l'Oltretomba - fornisse a Cecchi Gori in cambio dei soldi. La cacciata però sembrava inevitabile. Il Csm, nel luglio 2017, prova a salvarla. Ma la Consulta, con la sentenza depositata ieri, va giù dura: se l'obiettivo deve essere «restaurare la fiducia dei consociati nell'indipendenza, correttezza e imparzialità del sistema giudiziario», allora «una reazione ferma contro l'illecito disciplinare può effettivamente contribuire all'obiettivo delineato (...) non essendo affatto scontato che esso possa essere conseguito mediante una sanzione più mite». E il licenziamento lascia alla Figliolia «la possibilità di intraprendere altra professione, con il solo limite del divieto di continuare a esercitare la funzione giurisdizionale».
Fonte: ilgiornale del 13/11/3018

lunedì 12 novembre 2018

Milano, la figlia della Boccassini investe e uccide un pedone sulle strisce | Polemiche sul capo dei vigili.

Milano, la figlia della Boccassini investe e uccide un pedone sulle strisce | Polemiche sul capo dei vigili

Il sindacato di Polizia locale milanese denuncia: "Sul luogo dellʼincidente lʼex collaboratore del magistrato madre dellʼinvestitrice".


Un uomo, investito sulle strisce pedonali da uno scooter: la vittima, il medico e infettivologo Luca Voltolin, muore in ospedale. Un tragico incidente stradale come molti altri accaduti a Milano, non fosse altro che il motorino è condotto dalla figlia di due noti magistrati milanesi, Alberto Nobili e Ilda Boccassini. La motociclista viene indagata per omicidio stradale, ma la notizia per più di un mese non arriva ai giornali. E, a rendere più "sospetta" la vicenda, ci pensa l'Usb, sindacato di base dei vigili urbani, che segnala la presenza sul luogo dell'incidente, prima di volanti e ambulanze, di Marco Ciacci, attuale capo dei vigili di Milano ed ex dirigente di polizia giudiziaria, nonché ex collaboratore della stessa Boccassini, madre dell'investitrice.

L'incidente risale alla sera del 3 ottobre in viale Monte Nero, quando lo scooter guidato da Alice Nobili, 35 anni, urta un pedone sulle strisce pedonali. L'uomo cade e batte la testa: morirà al Policlinico dopo sei giorni di coma. La Procura apre un'inchiesta per il reato di omicidio stradale, indagando la conducente dello scooter, figlia dei due magistrati.

Due cose di questa vicenda colpiscono: la prima è il fatto che nessuno la faccia trapelare, e solo il quotidiano Libero la riprenda (poi ripresa da altri quotidiani milanesi), quasi un mese dopo. La seconda, denuncia il sindacato della Polizia locale Usb, è che che quella sera in viale Monte Nero "sarebbe intervenuto sul posto prima delle pattuglie proprio Marco Ciacci", che "...ha collaborato per anni con la Boccassini quando dirigeva la sezione di polizia giudiziaria della Procura".

Si tratterebbe, sempre secondo il sindacato, di una "violazione del codice" di comportamento dei dipendenti pubblici" che, all'articolo 7 dice: "Il dipendente si astiene dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale". Viene inoltre affermato che "non sarebbe stato eseguito l'alcol test, cosa che di norma, anche se non obbligatorio, in incidenti del genere andrebbe fatto". Nel frattempo ad Alice Nobili è stato sequestrato il mezzo e sospesa la patente. Ora a processo, con l'accusa di omicidio stradale, rischia dai 2 ai 7 anni di carcere.

Fonte: tgcom24 del 12 novembre 2018

L’Euro va in pezzi, ma a Bruxelles e Francoforte fanno ancora finta di nulla (ed incolpano l’Italia). - L. Luccarini

L’Euro va in pezzi, ma a Bruxelles e Francoforte fanno ancora finta di nulla (ed incolpano l’Italia) di L. Luccarini
L’Euro Currency Index rappresenta il rapporto di quattro valute principali rispetto all’euro: dollaro USA, sterlina britannica, yen giapponese e franco svizzero ed è quindi è una specie di unità di misura della sua forza relativa.
All’apice, o quasi, della crisi del 2008/2009, con l’economia americana quasi in ginocchio dopo il fallimento di Lehman Brothers, raggiungeva il suo massimo con un valore di 112,50.
La valuta continentale si segnalava, in quel frangente, come una sorta di  “bene rifugio”.
Dieci anni dopo tuttavia la situazione appare del tutto rovesciata.
Da quei massimi infatti l’Euro Currency Index ha iniziato una discesa fino all’attuale valore, poco sopra 93. Che segnala un deprezzamento complessivo della moneta di circa il 20%. Che vuol dire che il denaro di cui disponiamo ha perso 1/5 del suo potere acquisto nel mercato globale.
E tutto questo è avvenuto nonostante il rapporto dell’Euro con il Dollaro, pur nell’ambito di una tendenza ribassista di fondo, si sta cercando in qualche modo di “stabilizzare” per effetto delle politiche dell’amministrazione Trump, rivolte ad una sorta di “svalutazione competitiva” della divisa americana (figura. 1.1).
Ma che evidentemente non sono bastate fino ad ora a compensare i motivi che determinano l’attuale debolezza della nostra moneta.
Capire cosa abbia determinato questa dinamica può servire anche per far comprendere che la crisi di credibilità in cui versano tutte le istituzioni europee, BCE compresa, impone che il ricambio ai loro vertici, previsto per tutto l’arco del 2019, sia accompagnato da un deciso mutamento di rotta nelle politiche economiche e finanziarie.
Altrimenti i cosiddetti “piani B”, più che remote eventualità, potrebbero diventare ineluttabili per diversi Stati, non solo il nostro. Certo, il valore dell’Euro è depresso perchè, come vogliono la logica e la dottrina tradizionale, la remunerazione delle attività che vi sono rappresentate è minore rispetto a quelle di altre aree valutarie.
Ma questo fenomeno non si spiega sulla base dei soli tassi di crescita delle diverse economie, dal momento che il GDP degli Stati Uniti – ad eccezione di quanto sta avvenendo in questo 2018 – ha fatto registrare negli ultimi valori tra l’1,5% ed il 2,5%% più o meno quindi paragonabili a quelli dell’Eurozona. E neppure sulla base dei tassi di interesse, che BCE ha mantenuto per un certo periodo marginalmente positivi, rispetto al loro azzeramento che la Federal Reserve dispose già nel 2009.
Dunque, il motivo del trend discendente risiede in altro. E con ogni probabilità è rappresentato da come la Germania, paese leader nell’area, ha utilizzato gli enormi surplus che intanto stava accumulando. Praticamente non utilizzandoli.
Parliamo peraltro di grandissimi aggregati finanziari. Quello derivante dalla crescita dell’avanzo della bilancia dei pagamenti correnti, che secondo certi studi a partire dal 2001 è arrivato ad una cifra pari a quasi 3.500 miliardi, corrispondente grosso modo ad un intero suo PIL. Quello che poi si è determinato in conseguenza dei trasferimenti di denaro intra-market che l’hanno portata a detenere un saldo finanziario di circa 900 miliardi, triplicato rispetto a quello di cui disponeva nel 2007, come si vede nella figura 1.2 che riflette i dati Target2.
Il motivo per cui la Germania non adopera questi attivi è oggetto di diverse interpretazioni, tutte plausibili e al tempo stesso opinabili. Perciò per il momento ne prescindiamo. Fatto sta che Berlino da tempo non persegue più economie di stimolo alla domanda interna (che risulta frenata anche dal limitato tasso di crescita dei salari reali) e neppure si sogna di aumentare gli investimenti pubblici, che non hanno mai superato la quota del 20% del PIL, ponendosi al di sotto della media degli stessi partner europei. Si limita, piuttosto, ad un regime di accumulazione, per così dire, “passiva” di risorse finanziarie.
Che in questo modo, non offrendo rendimenti di alcun genere, analogamente a quanto avviene quando un individuo lascia giacere i suoi soldi sul proprio conto corrente senza impiegarli in alcun modo, si svalutano e basta.
Il problema, alla fine, potrebbe essere tutto della Germania, se non fosse che gran parte della liquidità dell’Eurozona continua a riversarsi proprio su quel paese, impoverendo finanziariamente quasi tutti gli altri. E tra questi, come si vede chiaramente dalla figura 1.2, in particolar modo l’Italia. Il problema, dunque, diventa di tutti ed incide sulla quotazione dell’Euro. Che perciò si indebolisce.
Ora, come noto, il fatto che una moneta si svaluti può offrire a chi se ne serve un vantaggio, in termini di maggiori esportazioni dei suoi beni e servizi. Ed è ciò che la Germania è riuscita ad ottenere negli ultimi anni, alimentando così la propria posizione finanziaria positiva con l’estero, che peraltro è migliorata anche in altri paesi dell’UE, compresa l’Italia.
Questo beneficio però deve essere valutato anche in relazione alla situazione attuale dell’Unione Europea che, nata come un’associazione di Stati che dovevano favorire il reciproco sviluppo in un ambito di libera concorrenza tra loro (come erano all’origine il MEC e poi la CEE) si è sempre più trasformata in un modello quasi “Sovietico”, fondato su una serie di pianificazioni e vincoli di bilancio che sottraggono libertà economiche ai suoi membri.
Non v’è dubbio in effetti che l’Euro è sostanzialmente un sistema di “cambi fissi” tra le 19 nazioni che lo hanno adottato come moneta e perciò la ripartizione delle quote di mercato all’interno della relativa area tende ad irrigidirsi, in assenza di una “leva monetaria” che possa consentire ad un paese di guadagnare competitività nei confronti dell’altro.
Donde la necessità per ciascuno Stato di operare sulla componente “costo del lavoro”, con la conseguente compressione della dinamica salariale interna (e degli stessi diritti dei lavoratori) per alimentare la propria percentuale di “export”, nel frattempo divenuta la principale componente positiva della sua economia. Donde la (neppure troppo) strisciante deflazione che si è realizzata negli ultimi anni in Europa. Che spiega a sua volta la svalutazione della moneta.
E’ questo, peraltro, un classico “cul de sac”, in cui deflazione chiama svalutazione, che a sua volta implica ulteriore deflazione e via dicendo. E che ben si rappresenta nell’andamento del Bund decennale che con il suo rendimento stabilmente sotto lo 0,5%fornisce la proiezione ciclica di una crescita piatta (se va bene) della domanda interna di tutta l’Eurozona.
D’altra parte il Bund non può che offrire che queste miserie, dal momento che la Germania opera una modesta richiesta di denaro al mercato e così facendo sostiene i prezzi dei suoi Titoli di Stato e contiene il relativo onere per interessi molto al di sotto della media degli altri partner/concorrenti. Mentre l’opposto avviene in paesi come l’Italia, dove l’elevata offerta di obbligazioni determina un calo dei relativi prezzi (ed un conseguente aumento dei rendimenti). Ed il divario tra le nazioni dell’Unione continua così ad allargarsi.
In questo quadro di relazioni, tra i paesi dell’Eurozona e dell’UE con l’esterno, è chiaro che un qualsiasi calo congiunturale della domanda globale rischia di far saltare tutti i residui equilibri, già molto precari.
E’ bastato in fondo un accenno di protezionismo da parte degli Stati Uniti per far rotolare tutte le stime che ancora a febbraio davano per certa una crescita in Europa “robusta e al di sopra delle più rosee aspettative”, come affermato da Mario Draghi e dalla stessa Commissione.
E le politiche monetarie di BCE non hanno certo offerto adeguati strumenti per consentire a tutti i paesi dell’area di affrontare nuove possibili tensioni finanziarie e le sfide dell’economia globale. “Tassi zero” che non hanno generato alcuna forma di rilancio dell’economia, se non giusto una breve fase di rimbalzo, appiccicata come una sanguisuga alle dinamiche del resto del mondo.
Una domanda interna complessiva sempre troppo debole, anche perché scarsamente alimentata dalla spesa pubblica, oggetto di attenzione quasi ossessionante da parte delle istituzioni UE. E, per converso, nessuna significativa diminuzione del debito degli Stati in termini assoluti come effetto di questo controllo.
Persino lo stesso lieve incremento di inflazione registrato nell’ultimo anno pare dovuto più che altro alla spinta esogena del costo delle materie prime (il cui indice di riferimento è passato da un livello 160 a 200/210) e quindi rischia di produrre solo ulteriori effetti depressivi.
Infine il vero pasticcio, generato, sul piano puramente finanziario, da un sistema di acquisti in Quantitative Easing ancorato alle quote di partecipazione delle singole Banche Centrali al capitale BCE, che ha finito soltanto per fornire ulteriore benzina alle quotazioni del Bund, giunte ormai al livello di un’autentica “bolla speculativa”.
E che in ogni caso giovano soltanto ad un paese. Il più ricco, che diventa sempre più ricco nel rapporto con gli altri componenti del “club Euro”, tutti obbligati a maggiori oneri per interessi sul debito. Quello che dovrebbe perciò in qualche modo alimentare valori aggiunti in tutta l’area e che, al contrario, tiene stretti i suoi averi come Zio Paperone nel suo deposito.
Potendone tutto sommato assorbire la conseguente svalutazione senza grossi danni, anzi giovandosene per aumentare la sua quota di esportazioni e i conseguenti flussi finanziari in entrata. Anche dagli altri partner europei, tutti ormai trattati alla stregua di concorrenti da spremere, far indebitare e quindi definitivamente soggiogare alle sue politiche. In fondo la fotografia più attendibile del periodo non può che arrivare dalla stessa Germania.
Ed è (figura 1.3) l’andamento del principale indice di borsa tedesco, il Dax che, da febbraio di quest’anno, fa segnare uno scostamento di valori nei confronti dello S&P americano di circa il 16%. A cui va aggiunta una svalutazione dell’Euro rispetto al Dollaro, nello stesso periodo, di quasi il 10%.
Siamo partiti da quel mese di febbraio in cui Draghi ha dichiarato al Parlamento Europeo che la ripresa si espandeva con una crescita “più forte di quanto previsto in precedenza, distribuita più equamente tra settori e aree geografiche rispetto a qualsiasi altro momento dopo la crisi finanziaria”.
Per la cronaca, il Dax è tornato sui livelli di prezzo dell’inizio del 2017 e la sensazione è che debba scendere ancora.
E, sempre per la cronaca, ma soprattutto a beneficio di quelli che si fanno sempre 4 risate di fronte a queste evidenze, segnalo che – come può vedersi nel grafico – l’andamento del Ftse italiano è perfettamente sovrapponibile a quello della borsa tedesca. Non origina dunque da casa nostra il problema.
Non abitano qui i “cialtroni”.
Fonte: stopeuro del 9 novembre 2018