venerdì 8 novembre 2019

Per Alessandro. - Marco Travaglio

L'immagine può contenere: 4 persone, persone che sorridono

Alessandro Morricella era nato a Martina Franca, aveva 35 anni, una moglie e due bambini di 2 e 6 anni. Era un bravo operaio dell’Ilva di Taranto, sequestrata nel 2012 dai giudici di Taranto e subito riaperta per decreto da Monti e dai suoi successori.

L’8 giugno 2015 si è avvicinato, come sempre, al foro di colata dell’altoforno 2 per controllare la temperatura. E, probabilmente per un accumulo anomalo di gas, certamente per la scarsa sicurezza del vetusto impianto, è stato investito da una fiammata mista a ghisa incandescente, che l’ha trasformato in una torcia umana.

Ricoverato in ospedale, è morto dopo quattro giorni di atroce agonia il 12 giugno, proprio nel giorno dedicato alle vittime del lavoro. Una data tutt’altro che casuale: il 12 giugno 2003, sempre all’Ilva, Paolo Franco e Pasquale D’Ettorre erano stati uccisi dal crollo di una gru e subito dimenticati da tutti.

Fuorché dal rapper pugliese Caparezza, che dedicò loro il brano Vieni a ballare in Puglia: (“Tieni la testa alta quando passi vicino alla gru perché può capitare che si stacchi e venga giù”). E dai coraggiosi magistrati di Taranto, che da 7 anni tentano di imporre il minimo rispetto per la sicurezza dei lavoratori e per la salute dei cittadini, facendo lo slalom fra decreti salva-Ilva e scudi penali sfornati dai governi dei più svariati colori per garantire l’impunità a chi gestisce il più grande impianto siderurgico d’Europa.

Dopo la morte di Alessandro, quinta vittima dell’Ilva in tre anni, l’allora procuratore Franco Sebastio indaga vari dirigenti per omicidio colposo e inosservanza delle norme di sicurezza sul lavoro e additano il mancato ammodernamento degli altiforni dell’“area a caldo” dell’Ilva come “concausa non trascurabile” della sua e delle altre quattro morti.

E ottengono il sequestro dell’altoforno 2, poi dissequestrato il 31 ottobre. Ma a condizione che vengano attuate 7 prescrizioni, fra cui l’automazione del campo di colata che ha ucciso Alessandro e gli altri.

Obblighi che in quattro anni non saranno mai rispettati, malgrado il miliardo di evasione fiscale sequestrato dai pm di Milano ai Riva e destinato alla gestione commissariale per gli interventi sulla sicurezza, più il miliardo che i nuovi titolari di Arcelor Mittal prometteranno di investire allo scopo.

Ma intanto il governo Renzi, nel 2015, ha varato l’ennesimo decreto salva-Ilva che autorizza l’uso dell’altoforno 2 appena sequestrato. E ha addirittura regalato l’impunità penale ai commissari di governo, anche per i morti in fabbrica. Nel 2018 la Consulta boccia il decreto Renzi sull’altoforno 2 come incostituzionale.

Motivo: il dl “privilegia in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa”, diritti “cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso”.

Invece sullo scudo, studiato per i commissari e poi finito a coprire Arcelor-Mittal, la Consulta non può pronunciarsi perché viene revocato e poi parzialmente ripristinato da 5Stelle e Lega, e infine cancellato da M5S, Pd, LeU e Iv.

Il 31 luglio 2019, visto che nessuno degli obblighi è stato rispettato, i giudici di Taranto tornano a sequestrare l’altoforno 2. E poi a dissequestrarlo, ma a patto che entro 100 giorni vengano finalmente eseguiti i lavori per mettere in sicurezza l’impianto entro il prossimo 13 dicembre.

Ma l’altro ieri il gruppo franco-indiano comunica al governo la disdetta del contratto che lo impegnava a gestire in affitto e dal 2021 a rilevare gli stabilimenti ex Ilva accampando due scuse.

1) “Con effetto dal 3 novembre 2019 il Parlamento italiano ha eliminato la protezione legale necessaria alla Società per attuare il suo piano ambientale senza il rischio di responsabilità penale, giustificando così la comunicazione di recesso”.

2) “In aggiunta, i provvedimenti emessi dal Tribunale penale di Taranto obbligano i Commissari straordinari di Ilva a completare talune prescrizioni entro il 13 dicembre 2019, termine che gli stessi Commissari hanno ritenuto impossibile da rispettare – pena lo spegnimento dell’altoforno numero 2”, quello che ha ucciso Alessandro.

Cioè: Mittal ha scoperto con sgomento che in Italia esistono una Costituzione e un Codice penale. E sfodera due alibi che non reggono: lo scudo penale non esiste in nessun Paese d’Europa, dove Mittal gestisce quasi tutte le acciaierie, con standard di sicurezza e ambiente molto più stringenti di quelli che pretende di perpetuare in Italia; quanto alle prescrizioni sull’altoforno 2, non sono una novità, visto che i giudici le invocano dal 2012 (quando sequestrarono per la prima volta l’Ilva) e ancor più stringentemente dal 2015 (quando morì Alessandro) e nel 2018 la Consulta ha già sentenziato che l’altoforno 2 non può restare aperto se non è messo in sicurezza.

In 7 anni si sono succeduti 6 governi (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte 1 e Conte 2) e 3 gestioni manageriali (Riva, commissari di governo, Arcelor Mittal). I manager hanno sempre disobbedito alla legge, ai giudici e alla Costituzione.

I governi, fino al 2018, han permesso loro di farlo impunemente, sulla pelle dei morti e dei malati. Ora che finalmente la musica è cambiata, si scatena la canea: non contro chi se ne fotteva allegramente del diritto alla vita e alla salute, ma contro chi ha smesso di fottersene.

Ps. Un mese fa, il 1° ottobre, si è aperto al Tribunale di Taranto il processo a sette dirigenti Ilva imputati di omicidio colposo per la morte di Alessandro. Fuori dall’aula, i suoi amici hanno riassunto in uno striscione di sei parole gli ultimi sette anni di storia dell’Ilva:

“Giustizia per Morricella, morto per decreto”.

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mercoledì 6 novembre 2019

Ristruttura con i soldi della municipalizzata.

 © ANSA

In manette dirigente società, indagati farmacista e imprenditore.

Il direttore generale di una società municipalizzata del Comune di Castellanza (Varese), Paolo Ramolini, è stato arrestato dai carabinieri con l'accusa di truffa aggravata ai danni di ente pubblico e peculato, in esecuzione di ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari emessa dal Gip di Busto Arsizio (Varese).Tra le accuse, quella di aver caricato sui costi aziendali i lavori di ristrutturazione di casa di sua figlia. Indagati per concorso in peculato anche una farmacista di Castellanza (Varese) e un imprenditore di Legnano (Milano).Alla direzione della 'Csp' di Castellanza (Varese), il direttore generale arrestato stamane dai carabinieri, secondo le indagini, oltre a caricare 13 mila euro di costi per il restauro della casa della figlia alla società, avrebbe anche fatturato 50 ore lavorative mai svolte alla titolare di una farmacia del medesimo comune. La donna è ora indagata per truffa aggravata in concorso. Indagato in concorso per peculato anche un imprenditore 61enne, titolare di una ditta di infissi di Legnano, il quale avrebbe emesso alcune fatture per lavori di manutenzione relativi ad immobili di proprietà della 'Csp', quando invece sarebbero serviti a installare i serramenti nuovi in casa della figlia del dirigente.L'indagine è partita lo scorso aprile dalla denuncia di una dipendente della municipalizzata, che si occupa dei servizi pubblici locali, tra cui servizi farmaceutici e cimiteriali, gestione e manutenzione di centri sportivi, del patrimonio immobiliare e delle mense scolastiche.

Cosa sappiamo dell’esplosione della cascina in provincia di Alessandria.


(Ufficio Stampa Vigili del Fuoco/LaPresse)

Nella notte fra lunedì e martedì un’esplosione in una cascina disabitata a Quargnento, in provincia di Alessandria, ha causato la morte di tre vigili del fuoco e il ferimento di altri due vigili del fuoco e di un carabiniere. L’esplosione principale è avvenuta verso l’1.30, quando i vigili del fuoco erano arrivati sul posto per effettuare un sopralluogo dopo che una prima esplosione era avvenuta circa un’ora prima, sempre nella stessa cascina. La seconda esplosione ha fatto crollare l’edificio, le cui macerie hanno sotterrato i tre vigili del fuoco.

Nei sopralluoghi successivi al crollo sono state trovate in un edificio adiacente alla cascina due bombole di gas inesplose, collegate con dei fili elettrici a un timer. Secondo il procuratore capo di Alessandria, Enrico Cieri, questa circostanza farebbe pensare che il crollo della cascina sia stato causato dall’esplosione di natura dolosa di alcune bombole di gas. In attesa dei risultati dei rilievi del Reparto investigazioni scientifiche (RIS) dei carabinieri, la procura ha aperto un’indagine contro ignoti per omicidio plurimo e disastro. Al momento non ci sono indagati, ma i giornali di oggi scrivono che le ipotesi degli investigatori si starebbero concentrando proprio sul proprietario della cascina, Giovanni Vincenti detto Gianni, e sul suo passato.

La Stampa scrive che Vincenti, che ha 55 anni, aveva comprato la cascina e alcuni terreni circostanti 23 anni fa. Su quei terreni aveva aperto un maneggio, chiamato Rivabell, che gestiva con il figlio Stefano; la cascina ne era diventata la club house. Le attività del maneggio, però, col tempo cominciarono ad andare male, scrive il giornale, e i rapporti con il figlio si incrinarono: così Vincenti vendette il centro ippico, che oggi si chiama Duende, e nel 2016 mise in vendita anche la cascina, al prezzo di 750mila euro. Da allora però la casa non aveva trovato acquirenti; Vincenti si era trasferito a vivere ad Alessandria, lasciando la cascina disabita.

I giornali raccontano anche che Vincenti aveva avuto diversi problemi economici, e cause legate a truffe e lavori non pagati. Repubblica scrive che Vincenti era stato oggetto di molte cause «per truffe nel commercio dei cavalli» e che nel 2003 «un primo rogo doloso aveva bruciato un fienile». Inoltre, aggiunge il giornale, «dopo un pestaggio mai chiarito, era pure finito in ospedale». Un vicino di casa ha raccontato al Corriere della Sera che due imbianchini avevano anche fatto causa a Vincenti per un mancato pagamento. Il figlio di Vincenti, intervistato dalla Stampa, ha detto che in passato il padre non aveva mai ricevuto minacce, e sempre la Stampa riporta il commento di una persona che abita vicino alla cascina crollata, Giuseppe Dell’Erba, che ha detto di aver telefonato a Vincenti dopo l’esplosione, e che quest’ultimo gli avrebbe risposto: «Mi hanno fatto un dispetto». Vincenti è stato interrogato dai carabinieri, ma al momento non risulta indagato.


https://www.ilpost.it/2019/11/06/quargnento-alessandria-esplosione-cascina/

Fincantieri, 34 indagati tra dirigenti e imprese in subappalto: sfruttamento della manodopera e corruzione le accuse. . Giuseppe Pietrobelli


Fincantieri, 34 indagati tra dirigenti e imprese in subappalto: sfruttamento della manodopera e corruzione le accuse
Perquisizioni della Finanza su ordine della procura di Venezia. Dodici dirigenti sotto inchiesta: avrebbero ricevuto mazzette in cambio di vantaggi a imprese bengalesi che lavoravano nei cantieri navali. A farne le spese i lavoratori, la cui retribuzione, formalmente corretta, scendeva fino a 4 euro l'ora. L'azienda: "Noi estranei e pronti a collaborare".
La paga oraria dei lavoratori bengalesi impegnati a Porto Marghera arrivava a 4 euro all’ora. Mentre una dozzina di dirigenti della Fincantieri veneziana avrebbe incassato tangenti – sotto forma di denaro o di altra utilità – pagate dalle imprese asiatiche per ottenere incrementi di fatturati e un trattamento di favore nella gestione delle maestranze. Sembra uscito dal docufilm Il pianeta in mare del regista Andrea Segre, ambientato proprio tra i lavoratori extracomunitari degli stabilimenti mestrini, il blitz messo del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza di Venezia su delega del procuratore Bruno Cherchi. Perquisizioni e notifiche sono avvenute non solo in Veneto, ma anche in Friuli Venezia Giulia, Liguria, Marche, Campania, Puglia e Sicilia. In totale, una ottantina di verifiche nelle sedi di imprese bengalesi, nelle case dei lavoratori e nelle abitazioni dei dirigenti Fincantieri. Le ipotesi di reato sono varie: sfruttamento della manodopera, corruzione tra privati, dichiarazione fraudolenta ed emissione di fatture false. In totale le imprese coinvolte sono 19, tutte operanti nel settore della cantieristica navale, in quanto subaffidatarie di lavori per conto di Fincantieri. Contemporaneamente, su decisione del gip, è finito agli arresti domiciliari un cittadino bengalese, indagato per sfruttamento di manodopera, a cui sono stati anche sequestrati 200mila euro. In totale gli indagati sono 34, compresi i 12 dirigenti sospettati di corruzione.
L’inchiesta è nata nell’estate 2018 da alcune querele presentate da lavoratori cingalesi e albanesi. Dichiaravano di essere sfruttati e spiegavano che in busta paga veniva inserita una paga formalmente corretta. In realtà quello che percepivano era molto inferiore, una media di 5-6 euro all’ora, in alcuni casi anche 4, per un duro lavoro nella costruzione e nell’allestimento delle navi. E non avevano diritto a ferie o pagamento di straordinari. Il sistema è quello della “paga globale”, con riferimenti solo figurativi in linea con i compensi previsti dai contratti di lavoro.Se non accettavano quelle condizioni, il contratto veniva strappato e restavano senza lavoro.
Sconcertante il capitolo riguardante i dirigenti, così come è stato ricostruito dalla Finanza. Avrebbero ricevuto mazzette per favorire le imprese bengalesi e in alcuni casi anche per autorizzare un monte-ore superiore a quanto previsto, sulla base di dichiarazioni false riguardanti la necessità di completamento dei lavori, di non conformità dei lavori eseguiti o di modifiche in corso d’opera. “Per ultimare i lavori nelle ristrette tempistiche inizialmente concordate – spiega il procuratore Bruno Cherchi – le società sub-affidatarie avrebbero impiegato un maggior numero di dipendenti che sono stati retribuiti mediante il sistema della ‘paga globale’, conseguendo così un maggior compenso, parte del quale sarebbe stato retrocesso ai dirigenti di Fincantieri”.
La società ha diffuso un comunicato in cui rivendica “la propria estraneità rispetto ai fatti cui le indagini si riferiscono” e informa che il Gruppo “sta assicurando piena collaborazione agli inquirenti e auspica che verrà dimostrata la completa estraneità dei propri dipendenti”. In ogni caso, “laddove invece le accuse venissero confermate”, ha annunciato che “adotterà immediati provvedimenti nei confronti di dipendenti che si fossero resi responsabili di condotte illecite”.

martedì 5 novembre 2019

Arcelor/Mittal lascia Ilva. 5 Stelle capro espiatorio. - Roberta Labonia



Strano Paese l’Italia. Tutti pensano di poter fare il cavolo che gli pare. Il Paese del Bengodi fu per i Riva, i precedenti titolari dell’Ilva di Taranto, l’Italia. Prima di venire arrestati per disastro ambientale ed altre amenità, fecero in tempo a provocare la morte di oltre 11mila tarantini per tumori da diossina e patologie neurologiche. Ora la nuova proprietà, la franco indiana ArcelorMittal, subentrata dopo un periodo di commissariamento dell’azienda, pretende di portare avanti il piano di risanamento ambientale sottoscritto con lo Stato Italiano, protetta da uno scudo penale che la metta al riparo da ogni bega giudiziaria per tutta la sua durata. E gioca sporco. Neanche il tempo, giusto il 2 novembre scorso, che Mattarella promulgasse la legge di conversione del DL Imprese che ne ha sancito l’annullamento (lo scudo era stato reintrodotto, pur con delle limitazioni, agli sgoccioli del governo giallo verde), che sul tavolo del Mise Patuanelli, l’attuale Ministro 5 Stelle, si è ritrovato una nota di recesso, indirizzata dall’ArcelorMittal ai Commissari, dal contratto d’affitto d’azienda. Un ricatto bello e buono perché sono in gioco quasi 11mila posti di lavoro.

Si ripropone in tutta la sua tragicità l’eterno conflitto mai risolto dai diversi Governi italiani, quello di dover scegliere fra la salute dei suoi cittadini tarantini e il loro lavoro. Come non fossero due diritti, entrambi, garantiti dalla nostra carta costituzionale. Eppure questi signori, questi francoindiani, che hanno il loro quartier generale nel paradiso fiscale del Lussemburgo, oggi pretendono di avere indietro la “licenza di uccidere” altrimenti se ne vanno. Una clausola inesistente in ogni angolo d’Europa e che, ne sono sicura, prima o poi la nostra Consulta dichiarerà incostituzionale.

Può anche darsi, come ventila il Ministro dello Sviluppo Economico Patuanelli, che questa mossa in realtà nasconda altri obiettivi dei manager aziendali: spararla grossa per poi, magari, ottenere il via libera ad un corposo taglio dei livelli occupazionali e/o dei livelli di produzione, il che tradirebbe l’inefficienza dell’attuale board a capo dell’ex Ilva, incapace di tenere fede agli impegni assunti con il Governo italiano neanche 18 mesi fa. Motivo in più oggi, per recriminare sul fatto che il precedente Governo, nella persona dell’allora ministro Calenda (ministro volutamente minuscolo), non avesse voluto prendere in considerazione l’altra cordata di imprenditori, con a capo Cassa Depositi e Prestiti, interessata a rilevare L’Ilva di Taranto. Una scelta che avrebbe garantito la presenza dello Stato a presidio degli interessi di tutta la comunità tarantina. Trovo infatti intollerabile che uno Stato sovrano possa ritrovarsi nelle condizioni di essere ricattato da un soggetto privato. C’è qualcosa di profondamente marcio in un sistema che consente si possano generare certi paradossi, come è stato quello di Autostrade del resto. Aziende di natura strategica come è L’ex Ilva di Taranto, l’acciaieria più grande d’Europa, per l’Italia, non possono sottostare alla sola logica del profitto, non possono e non devono poter dettare legge, ripeto, ad uno Stato sovrano.

Questi sono, lo dico a posteriori, gli effetti nefasti, le distorsioni, che ha portato con sé un’economia ispirata al liberismo puro, dove l’unico motore ad agire è quello del capitale e della sua remunerazione e in nome delle cui logiche sono stati calpestati i diritti e le tutele di intere generazioni di lavoratori, di intere comunità, come, in questo caso, quella tarantina. E ciò che più mi disgusta in queste ore, è il sentir levarsi le voci indignate di più parti sociali del Paese che, anziché parlare con un unica voce di biasimo a questi capitani di ventura senza scrupoli, dando manforte all’operato del Governo, si schierano dalla loro parte e  attaccano il Governo, reo evidentemente ai loro occhi, di avere ristabilito la supremazia della legge, davanti alla quale ogni soggetto deve essere uguale.

Ho assistito al levarsi di scudi unanime contro il Governo di Confindustria, il che non mi sorprende, fra cani non si mordono, ma anche dei Sindacati, quelli che, per definizione, dovrebbero in primis tutelare la salute e il lavoro dei loro iscritti. Hanno fatto la loro scelta mandando il loro ultimatum al Governo: mantenere i posti di lavoro a tutti i costi, ridiamo lo scudo ad Arcelor e fanculo alle tutele ambientali. Ed infine, ma anche questo non mi sorprende, ho ascoltato tutta una corte di nani e ballerine dire la loro. Uno come Calenda, quello che da pavido ministro aveva firmato per lo Stato un contratto capestro a tutto vantaggio di Arcelor Mittal, spargere fango su Luigi Di Maio (che quel contratto l’aveva fatto modificare in extremis a tutela dei lavoratori) e, addirittura, ricevere il plauso di uno scribacchino servo di Berlusconi come Sallusti e della Gruber, quella di casa al Bilderberg. Poteva un ex bibitaro come Di Maio, essere all’altezza del suo ruolo? Le colpe sono tutte le sue, hanno sentenziato trionfi della loro boria. Cose che voi umani…

Ho ascoltato Renzi (quello che lo scudo penale l’aveva introdotto nel 2015, quando era primo ministro), oggi attaccare il suo stesso governo per averlo tolto, dimenticandosi che solo pochi giorni prima l’annullamento dello scudo l’aveva votato anche lui.

Ho letto nelle facce di Salvini e Meloni la malcelata contentezza di vedere una tegola così grossa cadere sul Conte II. Tifano, questi personaggi, perché su Ilva il Governo finalmente cada per mettersi loro ai posti di comando e poi, magari, continuare ad avallare altre schifezze come il TAV o come il Mose, che fu l’orgia dei tangentari.

Ho ascoltato mezze calzette tipo la Gelmini, la Bernini, dire le loro scempie banalità per guadagnarsi il loro pezzetto di scena, perché non se le caga più nessuno.

Ognuno di questi soggetti ha i suoi buoni motivi personali o di bottega per remare contro questo Governo e, da bravi amici del giaguaro, sostengono le pretese di soggetti che pretendono di dettare legge in casa nostra. E in tutto questo vociare confuso sto qui, seduta, a chiedermi a chi interessa veramente del destino di Taranto e dei tarantini. Forse ai 5 Stelle? Credo di sì, ma temo di non sbagliare se dico che saranno proprio loro a pagarne lo scotto più alto.

https://infosannio.wordpress.com/2019/11/05/arcelor-mittal-lascia-ilva-5-stelle-capro-espiatorio/

Senza filtro - Marco Travaglio - IFQ - 5 NOVEMBRE 2019



Il boss latitante Matteo Messina Denaro, per lui, è “il primo ministro”. Invece i giudici Falcone e Borsellino sono morti in “un incidente sul lavoro” e dedicare loro l’aeroporto di Palermo è rimestare “sempre la stessa merda”. La reazione più comoda alle allucinanti intercettazioni alla base dell’arresto per mafia di Antonello Nicosia, dirigente radicale e portaborse della deputata Pina Occhionero (appena passata da LeU a Italia Viva), è quella di prendersela con lui. Ma l’indirizzo è sbagliato: questo bel soggettino ha già scontato una condanna definitiva a 10 anni e 6 mesi per associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga e ora è indagato per associazione mafiosa, avendo usato visite e ispezioni nelle carceri accanto alla Occhionero per fare il postino dei messaggi tra i boss in cella (anche al 41-bis) e quelli fuori. Se è vero, come dicono gl’inquirenti, che è un mafioso doc, non c’è nulla di scandaloso se considera Messina Denaro il suo premier e Falcone e Borsellino due rompicoglioni che se la sono cercata.
I mafiosi fanno il loro mestiere e lui lo faceva benissimo: sedeva nel Comitato nazionale dei Radicali italiani (i fedelissimi di Emma Bonino e Riccardo Magi usciti dal Partito radicale pannelliano di Rita Bernardini); teneva in una rubrica tv contro le “torture” inflitte ai poveri mafiosi; e si era infiltrato nelle istituzioni grazie a una parlamentare voltagabbana, che usava come un taxi per entrare e uscire dalle patrie galere e confabulare coi boss: la Occhionero, eletta nel partito più di sinistra e approdata in 18 mesi al renzismo, dopo aver persino progettato di passare a FI (anche lei fatica a distinguerla da Iv) e dopo aver rotto con Nicosia. Chi non fa il suo mestiere, almeno quello che si richiede in un Paese decente, sono i partiti senza filtro. Anzitutto LeU: possibile che quello fondato dall’ex procuratore antimafia Grasso non si sia accorto che la sua deputata si portava dietro come assistente parlamentare un pregiudicato per traffico di droga? La risposta è sì: è possibile. Perché la bella abitudine di chiedere il casellario giudiziale e l’esistenza di indagini a carico ai candidati e ai collaboratori ce l’hanno solo i famigerati 5Stelle. Gli altri no, per scansare i sospetti di “giustizialismo”. Ora vedremo se Renzi la metterà alla porta o se la terrà stretta. Dovrebbe bastargli il dialogo fra la cosiddetta onorevole e Nicosia, che la informa di aver scritto a un mafioso detenuto un messaggio su “un blocchetto di carta intestata della Camera”, per evitare che gli inquirenti lo controllino. E lei, anzichè denunciarlo e cacciarlo, gli dice “bravo!” e gli domanda se la carta intestata “gli è piaciuta”.
Però, in un comunicato tragicomico, la Occhionero spiega di aver ingaggiato Nicosia “in virtù del suo curriculum”, ma di avere rotto dopo “solo quattro mesi” perché “si spacciava per docente universitario e studioso dei diritti dei detenuti” e non era vero. Non certo perché fosse un ex detenuto per traffico di droga e la accompagnasse nei pellegrinaggi carcerari. Così lui – scrivono i pm – “sfruttando il baluardo dell’appartenenza politica, ha portato avanti l’ambizioso progetto di alleggerire il 41-bis o favorire la chiusura di istituti penitenziari giudicati inidonei a garantire un trattamento dignitoso ai reclusi”. Quanto ai radicali, per loro i precedenti penali han sempre fatto curriculum: non solo accettano, ma sollecitano l’iscrizione di detenuti, preferibilmente boss e terroristi al 41-bis. Tengono i congressi nei migliori penitenziari. Regalano pulpiti a sanguinari come Fioravanti e Mambro o a pregiudicati per mafia come Dell’Utri e Contrada. E, se qualcuno chiede che almeno paghino queste campagne invereconde coi loro soldi anziché con i nostri succhiati da Radio Radicale, è un attentato alla libertà di stampa.
Ieri Marco Lillo ha chiamato la Bonino per sapere se intenda espellere dal Comitato nazionale il prode Nicosia e altri due illustri membri, Alessio Di Carlo che ascoltava i suoi insulti a Falcone e Borsellino senza fare un plissé, e Michele Capano, avvocato di boss a lui legato. Ma la madre della patria ha risposto che i radicali non espellono nessuno. Appunto. Lungi da noi sostenere che chi – i radicali, pezzi di sinistra e di destra – è contro il 41-bis, l’ergastolo, i pentiti e le altre armi anti-mafia è complice delle cosche. Ma spesso, dietro il “garantismo” all’italiana, si celano collusioni. Chi si presenta alle elezioni con lo stesso programma di Cosa Nostra, ’ndrangheta e camorra, sa benissimo che riceverà i loro voti e i loro infiltrati. E, se vorrà evitarli, dovrà mettere all’ingresso delle sedi robusti buttafuori per selezionare attentamente i nuovi arrivi. Nel 1987, dopo 40 anni di appoggio incondizionato alla Dc, Cosa Nostra decise di punirla per non aver fermato il maxiprocesso istruito dal pool di Falcone, Borsellino &C. Infatti Totò Riina ordinò ai suoi di votare radicali e socialisti, che avevano appena promosso lo sciagurato referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Poi, dal ’94, Cosa Nostra sostenne FI, avendo in comune il fondatore Dell’Utri e il programma sulla giustizia. Nel 2013 Pannella raccolse le firme (compresa quella del neopregiudicato B.) per abolire – fra l’altro – l’ergastolo, rendere ancor più intimidatoria la responsabilità civile delle toghe e limitare vieppiù la custodia cautelare: Giuseppe Graviano, in carcere, esultò per l’ideona e per la firma di B. Oggi, crollata FI, i clan si guardano intorno a caccia di chi lanci segnali d’apertura alle loro esigenze. Per esempio, chi plaude (o tace) alle scandalose sentenze anti-ergastolo ostativo della Cedu e della Consulta. Posizione legittima, ci mancherebbe, purché chi la tiene apra gli occhi sui voti e gli infiltrati mafiosi in arrivo. Non sollecitarli o rifiutarli (a parole) non basta: bisognerebbe proprio non meritarli.

Berlusconi e la mafia, per Forza Italia è vietato citare le sentenze in tv. Tutti contro Di Matteo che parla di Dell’Utri e i boss: “Mitomane”.

Berlusconi e la mafia, per Forza Italia è vietato citare le sentenze in tv. Tutti contro Di Matteo che parla di Dell’Utri e i boss: “Mitomane”

Il membro del Csm ed ex pm della trattativa Stato-mafia ricorda il patto del Cavaliere con le famiglie mafiose durato almeno fino al 1992, di cui parla la sentenza di condanna del suo braccio destro. E il partito di Arcore perde la testa: "Fa schifo", "Delirio", "Propaganda vergognosa".
Ricordare in tv le sentenze sulla trattativa tra Marcello Dell’Utri e la mafia? Per Forza Italia è vietato. Il partito che solo qualche giorno fa gridava alla limitazione della libertà d’espressione per la nascita della commissione Segre contro l’antisemitismo, oggi si scaglia contro il magistrato Nino Di Matteo. La colpa? Aver ricordato in diretta televisiva su Rai3 il patto tra le famiglie mafiose e Silvio Berlusconi, durato almeno fino al 1992 e al centro di una sentenza definitiva della Cassazione che ha condannato il braccio destro del Cavaliere e fondatore Fi per concorso esterno in associazione mafiosa. Tanto è bastato per far perdere la testa ai parlamentari berlusconiani che, pur di difendere il leader, hanno diffuso ai giornalisti note allarmate su presunte violazioni commesse dal magistrato solo per aver ricordato la verità dei fatti. “Contro l’ex Cavaliere un vaniloquio da mitomane“, ha detto il deputato Fi e membro della Vigilanza Rai Andrea Ruggieri. “Vergognosa propaganda senza contraddittorio”, ha rilanciato il senatore Fi Maurizio Gasparri. Per la senatrice azzurra Alessandra Gallone, che evidentemente dimentica processi e sentenze, siamo di fronte “ad accuse infondate” e a una “delle più brutte pagine” della Rai. Per il portavoce dei gruppi parlamentari Giorgio Mulè siamo addirittura “all’anarchia informativa“.
Di Matteo su Rai3: “L’Italia ha un deficit di memoria sui fatti”. E ricorda le sentenze sul patto tra “le famiglie mafiose e Berlusconi”A scatenare le polemiche di Forza Italia sono state le frasi del magistrato, ora membro del Csm ed ex pm del processo sulla trattativa Stato-mafia, sulle stragi di mafia del ’92-94 (Capaci, Via d’Amelio, Georgofili, Via Palestro, le bombe a Roma e il fallito attentato all’Olimpico). “Deve essere approfondita”, ha detto intervistato da Lucia Annunziata a “In mezz’ora in più” su Rai3, “la possibilità che ci sia la responsabilità di ambienti e persone che non sono mafiosi. Il Paese deve avere la volontà di approfondire. Perché sulle stragi si sa molto, ma non si sa tutto. Questo Paese sconta un deficit di conoscenza e memoria su certi fatti”. Di Matteo, sollecitato dalla Annunziata, ha replicato a chi (come Matteo Renzi e Matteo Salviniha detto che le indagini della procura di Firenze a Silvio Berlusconi per le stragi ’92/’93 e l’attentato a Maurizio Costanzo sono “accuse senza uno straccio di prove”: “Voglio riferirmi solo a sentenze definitive: la condanna del senatore Dell’Utri per associazione mafiosa. In quella sentenza viene sancito un fatto”, che “venne stipulato un patto tra le famiglie mafiose con Silvio Berlusconi. Dell’Utri è stato condannato come intermediario di quel fatto almeno fino al 1992. C’è una sentenza di primo grado che dice che Dell’Utri l’intermediario lo ha svolto anche nel 1994 quando Berlusconi era premier e continuava a versare centinaia di milioni a Cosa Nostra”.
“Questo elemento”, ha proseguito Di Matteo quindi riferendosi alle dichiarazioni di fine settembre di Salvini e Renzi, “viene continuamente ignorato” dalla “gran parte dell’opinione pubblica e anche da una parte della politica. Quando si parla di ‘accuse senza straccio di prova’, c’è una base di sentenze che viene dimenticata. Le indagini sono doverose”. Secondo l’ex pm antimafia, “è un po’ calata l’attenzione sulla necessità di approfondire tutte le piste investigative secondo le quali insieme a Cosa Nostra altri abbiano responsabilità. Quelle del 1993 sono stragi anomale, che non sono state fatte per mera vendetta. La storia di Cosa Nostra ci insegna che loro hanno cambiato strategia a seconda dei momenti. Sono sempre pronti a riorganizzarsi”. Cinque anni fa – è stato ricordato durante l’intervista – è stato sventato il piano della mafia di far saltare per aria Di Matteo con 200 chili di tritolo.
Forza Italia contro Di Matteo: “Sproloquio di un mitomane”. Ma il magistrato ha solo ricordato le sentenze.
Il primo a parlare è stato il deputato di Forza Italia e membro dello commissione di Vigilanza Rai Andrea Ruggieri: “Ringrazio Lucia Annunziata per averci mostrato oggi come un magistrato possa squalificare, col suo delirio da aspirante politico, un’intero ordine come la magistratura”. E ancora: “Oggi su Rai Tre è andato in onda un vaniloquio da mitomane, protagonista il dott. Nino Di Matteo, sedicente magistrato, di sicuro membro del Csm con l’ossessione per Silvio Berlusconi, che cita a casaccio dati giudiziari e si duole -a che titolo, non si sa- della presunta superficialità degli italiani”. Per Ruggieri Di Matteo avrebbe ricordato le sentenze solo “per protagonismo politico“: “Non solo inventano processi ridicoli e squalificanti, ma pretendano pure che diventino, per tutti gli italiani, unico elemento di discriminazione politica verso chi, evidentemente, qualificano loro avversario politico”. Proprio Di Matteo, nel corso dell’intervista, ha ricordato di non aver mai ricevuto incarichi politici a tutela della sua autonomia e indipendenza.
Non fa più bella figura il senatore Fi Maurizio Gasparri che addirittura si lamenta di un presunto mancato contraddittorio, quando si parla di sentenze passate in giudicato: “Vergognosa propaganda contro Berlusconi su Rai3 dalla Annunziata”, ha detto. Con “Di Matteo, ospitato per rinnovare accuse e polemiche senza alcun fondamento”. E anzi ha cambiato discorso tirando in ballo la vicenda Scarantino: “Non gli è stata fatta una domanda sul suo ruolo nelle indagini riguardanti Scarantino, del quale anche lui si occupò. Agli immemori ricordiamo che Scarantino fu condannato per la strage di via d’Amelio, in cui furono uccisi Borsellino e la sua scorta. Ma poi Scarantino si rivelò estraneo a quella vicenda. Anche Di Matteo svolse un ruolo investigativo. E ricordiamo che su questa vicenda ci sono delle indagini in corso a carico di alcuni magistrati, mentre Di Matteo ha trovato posto al Csm”. E ancora: “C’è molto da chiarire nelle vicende siciliane. E su Di Matteo ci sarebbe molto da dire. Ma in Rai queste domande non gliele fanno mentre gli si lascia spazio per fare le sue affermazioni senza un contraddittorio”.
Disconosce addirittura le sentenze il portavoce dei gruppi azzurri di Camera e Senato Giorgio Mulé: “Oramai in Rai siamo all’anarchia informativa: oggi pomeriggio è stato il turno di Rai Tre di incaricarsi di lordare impunemente Silvio Berlusconi. Accostare il presidente Berlusconi e Forza Italia addirittura alle stragi di Cosa Nostra degli anni Novanta merita solo un’espressione: fa schifo. Perché significa bestemmiare la storia e l’impegno di Berlusconi, dei governi a sua guida e di Forza Italia per fare in modo di arrestare i boss e far pagare ai mafiosi in carcere ogni loro responsabilità. Un impegno straordinario che oggi non ha trovato spazio in Rai, neanche sotto forma di dubbio, durante l’inginocchiamento davanti al magistrato intervistato”.
In difesa dell’ex Cavaliere interviene anche il senatore Fi Renato Schifani, anche lui gridando a presunte “imparzialità”: “Quando la Rai la smetterà di consentire accuse senza contraddittorio nei confronti di Berlusconi per ricondurre l’informazione a principi di imparzialità e rispetto della verità?”.
Stesso ritornello per Alessandra Gallone, vicepresidente dei senatori Fi e membro della Vigilanza Rai, “oggi su Rai Tre è andata in onda una delle più brutte pagine di becera propaganda anti berlusconiana che francamente speravamo di esserci lasciati alle spalle”. E anche lei, dimenticando le sentenze, reinterpreta la storia a modo suo: “E invece, in spregio alla storia e alla verità, nel programma In Mezz’ora ancora spazio esclusivo per rinnovare accuse assolutamente infondate contro Berlusconi, usando il servizio pubblico come un pulpito. Siamo veramente stufi di questo uso spregiudicato dell’azienda pubblica radiotelevisiva, in cui si concedono spazi senza contraddittorio per fini politici come se la Rai fosse una cosa propria e non la tv pubblica. È tempo che la Commissione parlamentare di Vigilanza affronti la brutta deriva antidemocratica che si sta registrando”.