giovedì 26 novembre 2020

Caso Gregoretti, la Corte dei Conti indaga per un eventuale danno erariale. - Saul Caia

 

I magistrati contabili vogliono appurare se l'azione di Salvini o del Viminale abbia creato una perdita economica allo Stato italiano, costringendo le navi e i loro equipaggi a restare ancorato per giorni al porto.

Si arricchisce di nuovi atti il fascicolo d’indagine della Corte dei Conti di Roma sul caso “Bruno Gregoretti”, il pattugliatore della Guardia Costiera che, nel luglio 2019 con a bordo 135 migranti, venne stoppato alcuni giorni dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini prima dello sbarco. I magistrati contabili stanno acquisendo i documenti del procedimento penale del Tribunale dei ministri di Catania, dove il leader del Carroccio è accusato di sequestro di persona aggravato.

Il caso Gregoretti. La nave aveva salvato 135 migranti nel corso di un’operazione di soccorso a largo del Mediterraneo, intervenendo dopo la segnalazione d’allarme lanciata del peschereccio italiano “Accursio Giarratano” e di uno tunisino. Il pattugliatore poi si era diretto al porto di Catania, dove aveva atteso alla fonda per alcuni giorni. All’inizio il Viminale aveva consentito lo sbarco di sedici minori non accompagnati, per poi far spostare la Gregoretti nel porto di Augusta.

L’ipotesi d’accusa del sostituto procuratore Massimiliano Minerva (della Corte dei Conti) è di danno erariale, ovvero se l’azione di Salvini o del Viminale abbia creato un danno economico allo Stato italiano, costringendo la nave e il suo equipaggio a restare ancorato per giorni al porto. La Gregoretti era un’imbarcazione adibita al controllo e intervento sul settore pesca, che non avrebbe potuto accogliere un numero così elevato di naufraghi.

La Guardia di Finanza sta analizzando e setacciando tutti i costi sostenuti in quei giorni dal pattugliatore della Capitaneria di porto, per valutare se le spese sostenute, tra personale in missione e carburante, siano in linea con l’operazione.

Il caso Diciotti. Sul tavolo del pm Minerva c’è anche il fascicolo sulla “Ubaldo Diciotti”, l’altra nave della Guardia costiera che, dopo aver soccorso 190 naufraghi, era rimasta ormeggiata per cinque giorni alla banchina del porto di Catania nell’agosto 2018. Anche in quel caso, era stato Salvini a firmare il divieto di sbarco. Come per la vicenda Gregoretti, il leader sovranista era finito sotto indagine del Tribunale dei ministri etneo, con l’accusa di sequestro di persona, ma fu salvato dall’intervento di 237 senatori che votarono contro l’autorizzazione a procedere nei sui confronti.

A differenza della precedente vicenda, la Diciotti aveva tra i suoi incarichi anche quello di pattugliare il mare, avendo uno scafo più ampio che avrebbe potuto accogliere i naufraghi. Il magistrato contabile però desidera accertare se ci sia stato un danno erariale, visto l’insistenza con cui la nave restò ancorata alla banchina di Catania, impedendo anche al personale della guardia costiera di poter scendere. Altro elemento chiave nell’indagine contabile potrebbe essere l’entrata in vigore del decreto sicurezza, voluto fortemente da Salvini, e che accentrava i poteri sull’allora ministro dell’Interno. All’epoca del caso della Diciotti il decreto non era stato ancora emanato, mentre per la Gregoretti c’era già il “sicurezza bis”.

Il prossimo 1 dicembre sarà chiamato a testimoniare il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, davanti al giudice dell’udienza preliminare di Catania che dovrà decidere l’esito del procedimento su Salvini, al Tribunale dei ministri etneo. Per l’occasione come teste, all’aula bunker del carcere di Bicocca, sarà presente anche il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese.

Il prossimo 4 dicembre toccherà al ministro degli esteri Luigi Di Maio, che all’epoca era viceministro, e all’ambasciatore Maurizio Massari. Infine il 12 dicembre saranno sentiti gli ex ministri dei Trasporti, Danilo Toninelli, e della Difesa, Elisabetta Trenta.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/26/gregoretti-e-diciotti-la-corte-dei-conti-indaga-per-un-eventuale-danno-erariale/6016530/

Giulio Regeni, il buco di sei giorni nella ricostruzione di Renzi. - Wanda Marra e Gianni Rosini

 

Italia-Egitto. L’ex premier: “Io informato del caso solo il 31 gennaio 2016”. Fonti della Farnesina: “Chigi sapeva dal 25, giorno della scomparsa di Giulio”.

Ricostruendo i drammatici giorni della scomparsa di Giulio Regeni, l’ex ambasciatore italiano al Cairo, Maurizio Massari, lo dice chiaramente: “Di tutte queste azioni (parla di fatti avvenuti tra il 25 e il 27 gennaio 2016, ndr) dello stato della situazione, ho tenuto costantemente informate le nostre autorità a Roma, in particolare la Farnesina e la Presidenza del Consiglio”. Eppure Matteo Renzi – che mentre scoppia il caso è premier – martedì durante la sua audizione alla Commissione d’inchiesta Regeni ha sostenuto di non aver saputo nulla fino al 31 gennaio di quell’anno. Sei giorni nei quali Massari si attivava, parlava con ministri egiziani e andava pure a depositare una denuncia. “Se avessimo saputo prima del 31 gennaio, avremmo potuto agire prima sicuramente”, ha detto Renzi.

Un’affermazione talmente abnorme che la Farnesina ha diramato una nota per smentirlo, sia pure in maniera implicita: “La Farnesina precisa che le Istituzioni governative italiane e i nostri servizi di sicurezza furono informati sin dalle prime ore successive alla scomparsa di Giulio il 25 gennaio 2016. Il ministero degli Esteri ricorda inoltre che tutti i passi svolti con le più alte Autorità egiziane sono stati ampiamente documentati e resi noti alle Istituzioni competenti a Roma dall’Ambasciatore Massari nelle sue funzioni di Ambasciatore d’Italia al Cairo”. La domanda quindi è: possibile che con tutti i funzionari informati, tra Farnesina e Palazzo Chigi, oltre ai servizi segreti, nessuno abbia detto nulla a Renzi (come lui peraltro sostiene)?

Fonti vicine al dossier, sentite dal Fatto, spiegano che già il 25 gennaio, quando viene a sapere della scomparsa di Regeni, Massari attiva i canali d’informazione interni alla sede diplomatica. Nello specifico, il “responsabile dell’intelligence (Aise) e del ministero dell’Interno presenti in ambasciata”. Ma informa direttamente anche la Farnesina e la Presidenza del Consiglio. Magari non direttamente il premier, ma di certo il suo consigliere diplomatico, Armando Varricchio (oggi ambasciatore negli Usa).

Cosa sia avvenuto in quei giorni lo ha ricostruito Massari in Commissione: viene informato il 25 gennaio della scomparsa di Regeni “con una telefonata alle 23.21 del professor Gennaro Gervasio, professore di economia presso l’Università britannica del Cairo, con il quale Giulio aveva appuntamento quella sera stessa”. Il giorno dopo, il 26, Massari interessa ufficialmente della questione, tramite una nota formale, il ministero degli esteri egiziano e pure il ministro di Stato egiziano per la produzione militare Mohamed El-Assar. Nella notte tra il 26 e il 27 proprio su disposizione di Massari un funzionario dell’ambasciata si reca presso il commissariato di polizia di Dokki per sporgere formale querela. Il 27 vengono informati i genitori di Regeni che arriveranno al Cairo tre giorni dopo. Nel frattempo le autorità interpellate da Massari escludono che Regeni fosse stato fermato o arrestato e ribadiscono di non avere alcuna notizia. Tutti passaggi sui quali l’allora Ambasciatore al Cairo sostiene di aver informato costantemente Farnesina e Presidenza del Consiglio.

Gentiloni invece viene informato il 26: “Io fui informato dalle strutture della Farnesina il 26 gennaio”, dice l’allora ministro degli Esteri in commissione Regeni il 3 settembre scorso. E solo il 2 febbraio Massari viene ricevuto dal ministro dell’Inter Ghaffar. E forse è troppo tardi: l’esame autoptico ha dimostrato le torture subite da Regeni ma anche il fatto che il giovane probabilmente fosse morto il primo febbraio.

Tutto questo senza che Renzi fosse informato neanche dal suo ministro degli Esteri? Nessuno dei personaggi direttamente coinvolti all’epoca dei fatti vuole o può tornare su quei giorni. Dallo stesso Gentiloni in giù. Ma c’è un altro passaggio dell’audizione in cui l’ex premier è quanto meno confuso: “Dicemmo alla Guidi (allora ministro dello Sviluppo economico, ndr) il 31 gennaio: ‘Vai da Al Sisi’”. In realtà la missione in Egitto della titolare del Mise era prevista da tempo. Durante l’audizione, più volte il presidente della Commissione, Erasmo Palazzotto, mostra insofferenza. “Renzi è venuto a fare un comizio, ha confuso le date, non si era preparato”, commenta poi. Possibile che sia stata solo una gaffe? O forse la gaffe è stata funzionale a cercare di scaricare le responsabilità?

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/26/regeni-il-buco-di-sei-giorni-nella-ricostruzione-di-renzi/6017015/

Quando uno stupro diventa stupro dell’informazione. - Selvaggia Lucarelli

 

Un giorno bisognerà chiedere a Massimo Giletti cosa gli è successo a un certo punto della vita. Come ci si possa autoproclamare paladino della legalità un giorno sì e l’altro pure, e dieci minuti dopo affrontare un caso delicato come quello di Alberto Genovese e lo stupro ai danni di una 18enne, con la superficialità pericolosa e imbarazzante cui si è assistito domenica a Non è l’arena. Dico solo che si occupava del caso anche Barbara D’Urso e al confronto pareva la Cnn. Basterebbe già solo descrivere il parterre degli ospiti esperti/moralizzatori: Nunzia De Girolamo, che ha sulla testa una richiesta di condanna a 8 anni per associazione a delinquere. Fabrizio Corona, ai domiciliari con più condanne che tatuaggi, e Hoara Borselli, il cui valore aggiunto è probabilmente quello di essere incensurata. Il perché Fabrizio Corona avrebbe qualcosa da raccontare sulle feste di Genovese è mistero fitto, visto che non solo non ci è mai stato, ma neppure frequenta feste milanesi da un bel po’, visto che nel 2013 è stato arrestato e da quel momento è entrato e uscito dal carcere avendo, al massimo, permessi per lavorare. Massimo Giletti si avvale di Corona come di una sorta di autore/consulente del programma. Corona gli propone storie e ospiti, e magari ci scappa anche la sua presenza in studio. È andata così con Mirko Scarcella, ci ha provato con una vittima di tentato femminicidio che ha gentilmente declinato l’invito, è andata così con la storia di Genovese. Sarebbe lo stesso Corona ad aver strappato Daniele Leali, l’amico di Genovese, alla concorrenza (la D’Urso) e ad averlo portato su La7. E da qui la promozione a moralizzatore: la volta scorsa accusava Briatore di parlare di economia e di non pagare le tasse, lui che teneva i soldi nel controsoffitto per pagarle con calma. Questa volta accusa questo mondo corrotto dei party pieni di droga, lui che in passato è uscito dal carcere per curare la sua tossicodipendenza (su cui aleggiano alcuni misteri). Attendiamo che Giletti lo inviti a darci lezioni anche nella giornata dedicata alla guida con prudenza.

Fin qui si potrebbe anche sorvolare, se non fosse che il siparietto è stato non solo sconcertante, ma anche volgarmente accusatorio nei confronti di persone perbene. Mentre tutti, conduttore compreso, continuavano a ribadire che l’amico di Genovese coraggiosamente in collegamento da Bali “non è neppure indagato”, Fabrizio Corona si permetteva di fare più volte il nome di Carlo Cracco accusandolo di “connivenza”. Non solo, aggiungeva che “la posizione di Carlo Cracco, del buttafuori e di Leali è la stessa”. Notare che Leali aveva invitato le ragazze alla festa incriminata e da molte è stato accusato di essere colui che girava con i vassoi della droga, il bodyguard piantonava la stanza dello stupro e Cracco era andato tre ore per offrire (pagato) un servizio di catering con moglie e collaboratori a un’unica festa di Genovese. Non la festa dello stupro, per giunta. Stessa posizione, identica. Ed era esilarante sentire Giletti che “Nomini ancora Cracco? Io mi dissocio!”, come se non fosse evidente che si dissocia da chi invita perché dica esattamente le cose da cui si dissocia. Tra parentesi, Carlo Cracco si è rivolto al suo legale e la puntata è stranamente sparita dal sito di La7 (ne sono rimasti alcuni estratti, in cui non appare Fabrizio Corona)

Ma non è solo questo il problema. L’amico di Genovese, convinto forse che andare in tv faccia bene alla sua immagine, dice una serie di cose sconcertanti, da “C’erano 30 persone, ma poche ragazze molto giovani, sotto i 20 anni solo 5 o 6 (il 20%)”. O: “Noi ritiravamo i telefoni agli ospiti perché così la gente socializzava” (come no, il proprietario di casa ci teneva così tanto a socializzare che si chiudeva in camera e riappariva la mattina dopo). O: “Se c’era la cocaina? È in tutte le feste, avete scoperto acqua calda”. E lì, mentre il conduttore ribadiva di avere rispetto per questo individuo “perché ci ha messo la faccia”, era tutto un “Come dice Corona”, “Come ha detto Corona”. Insomma, Corona maître à penser. E nel frattempo si univa al parterre l’avvocato della ragazza stuprata, tale Saverio Macrì, il quale desta qualche perplessità. Giovanissimo (ha 32 anni), iscritto all’Ordine degli avvocati dal 2019, un passato da calciatore e, come lo stesso Leali, nel giro dei locali e della notte: è infatti proprietario col padre (dentista dei vip) e altri soci di locali tra Milano e Formentera. Ovviamente, nessuno ci ha fatto caso. Tutti troppo coinvolti dall’edificante racconto su “Cracco il connivente” perché ha portato due tartine a una festa. Insomma, un modo di trattare una vicenda di stupro che è stata uno stupro all’informazione.

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I partigiani dello skilift per la libertà. - Antonio Padellaro

 

Bisogna dare atto alla destra dattilografa e televisiva di avere sempre contrastato la dittatura sanitaria imposta, con la scusa della pandemia, dal bieco governo Conte. Lo scriviamo con qualche apprensione, ma senza sarcasmo, perché ritrovare oggi in quei dibattiti e su quei giornali le stesse considerazioni sul Natale abolito che ascoltavamo e leggevamo cinque mesi fa sul Ferragosto scippato (indimenticabile il balletto della Santanchè per la riapertura delle discoteche) dimostra se non altro una granitica coerenza nella scelta del nemico, costi quel che costi. Costoro, infatti, non potendo negare il virus e le sue tragiche conseguenze, accusano chi ne percepirebbe fraudolentemente i dividendi politici decretando una serie infinita di limitazioni, divieti, segregazioni, condite da abbondante terrorismo psicologico.

Insomma, un terrificante gulag collettivo, espressione di un’odiosa cultura sinistrorsa, edificato dall’avvocato-premier con la fattiva complicità di alcuni utili idioti della virologia. Per cui, sospettiamo, se le stesse misure anticontagio fossero state imposte da un governo a loro affine, probabilmente questi combattenti per la libertà si trasformerebbero nei più fanatici agit-prop della mascherina e del lockdown. Oggi, però, i partigiani dello skilift hanno finalmente il loro manifesto ideologico, apparso su La Verità, con il titolo: “Chi osa desiderare lo svago è un peccatore”. Ancora più evocativo di torture e Santa Inquisizione il sommario: “Il governo non si limita a negare le vacanze, bensì punta il dito: bramare (sic) un abbraccio o una cena con i propri familiari è da egoisti e da irresponsabili”. Segue adeguato pezzo che spaziando da Savonarola a Susan Sontag affronta e sviluppa la pregna tematica della “malattia come colpa”. Un’altrettanta vivace protesta sale dalle pagine di Libero che denuncia: “Il Belgio ordina i raid contro il Natale in casa”. Leggiamo che il Paese considerato più noioso al mondo, autorizzando le “pattuglie di agenti a fare irruzioni nei luoghi dove si festeggia”, si segnala come un luna park della repressione e del raccapriccio. Denuncia infatti lo scioccato estensore che “solo in Corea del Nord e in qualche territorio governato da fondamentalisti islamici, finora, si finiva dietro le sbarre per aver celebrato la Natività”. Devo confessare che pur non bramando particolarmente abbracci e cenoni, un certo spirito libertino tende ad allontanarmi dai predicozzi iettatori delle fate turchine. Per cui, dovendo scegliere, m’imbarcherei volentieri con Lucignolo per un bianco Paese dei Balocchi, attrezzato per gli sport invernali. Sapendo che, purtroppo, ci toccherebbe prima una sosta nel villaggio degli Acchiappacitrulli.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/26/i-partigiani-dello-skilift-per-la-liberta/6017025/

Il Cazzaro in fuga. - Marco Travaglio

 

Nel Paese dei Senzamemoria, giornaloni e giornalini continuano a spacciare la fiaba del centrodestra che diserta l’Antimafia e chiede le dimissioni del presidente Nicola Morra per le inesistenti offese a Jole Santelli. E nessuno ricorda il vero motivo della guerra di Salvini&C. a Morra. La frase sulla defunta presidente della Calabria viene usata come pretesto (questo sì oltraggioso) per nascondere ben altro: il 5Stelle ha il grave torto di aver convocato Salvini in Antimafia ormai due anni fa, nel dicembre 2018, appena la commissione si insediò. All’epoca era per un’audizione di routine sulle strategie antimafia dell’allora ministro dell’Interno, ovviamente inesistenti (per fortuna se ne occupò il suo collega Bonafede). Poi la Lega, a furia di riciclare il peggio della vecchia politica, finì invischiata in vari scandali di criminalità organizzata. E Morra riconvocò più volte il Cazzaro Verde, non più come ministro, ma come capopartito. Lui il 12 giugno 2019 dichiarò: “Certo che andrò in commissione Antimafia”. Lo stanno ancora aspettando. Quel giorno era stato arrestato a Palermo Francesco Paolo Arata, ex deputato FI, consulente di Salvini che l’aveva candidato a direttore dell’Arera (l’autorità di controllo sull’energia), nonché padre di Federico, consulente di Giorgetti a Palazzo Chigi e organizzatore del viaggio di Salvini negli Usa: l’accusa era di corruzione in concorso col compare Vito Nicastri (pregiudicato per tangenti e indagato – e poi condannato in primo grado – per mafia come amico di Messina Denaro), mentre un’inchiesta della Procura di Roma gli contestava una tangente al sottosegretario Siri, poi cacciato da Conte.

Di questo Morra lo chiamava a rispondere, ma anche delle rivelazioni del pentito Agostino Riccardo sull’appoggio elettorale dato alla lista Noi per Salvini dal clan rom dei Di Silvio a Latina per le Comunali del 2016. Tra i politici non indagati ma citati nell’inchiesta per l’appoggio del clan Di Silvio c’erano Francesco Zicchieri, vice-capogruppo leghista alla Camera, e Matteo Adinolfi, eletto a Terracina, poi promosso coordinatore provinciale della Lega e ora eurodeputato. Figurarsi l’imbarazzo di Salvini a rispondere in Antimafia del sostegno degli odiati “zingari” ai suoi fedelissimi; a giustificare la scelta di un consulente come Arata per il programma energetico della Lega; e anche a spiegare perché non costituì parte civile il Viminale al processo Montante (l’ex presidente di Confindustria Sicilia poi condannato a 14 anni in primo grado). Infatti scappa dall’Antimafia da due anni: mai messo piede. E ora vuol farci credere che ce l’ha con Morra per una frase sulla Santelli. Come si dice dalle sue parti: ma va a ciapa’ i ratt.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/26/il-cazzaro-in-fuga/6016998/

Surbo, reddito da povero ma con Porsche e locali: sequestrati beni a pregiudicato.

 

L'uomo coinvolto era già stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per associazione a delinquere finalizzata al traffico degli stupefacenti.

Questa mattina i militari del G.I.C.O. del Nucleo di Polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza del Comando Provinciale di Lecce, coordinati dalla Direzione Distrettuale Antimafia del capoluogo salentino, stanno dando esecuzione ad un provvedimento di sequestro di prevenzione nei confronti di una persona appartenente ad una famiglia mafiosa egemone in alcuni comuni salentini. I controlli si sono concentrati su un gruppo familiare di Surbo (Le), per verificare se gli investimenti ed il tenore di vita, compresa la gestione di un bar, di un circolo ricreativo, nonché le autovetture (tra cui una fiammante Porsche Macan), l’abitazione ed i conti correnti personali, fossero coerenti con il reddito mensile di poche centinaia di euro dichiarato. All’esito dell’attività dei finanzieri è stata applicata la misura della sorveglianza speciale con l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza e il sequestro finalizzato alla confisca di tutti i beni mobili ed immobili il cui valore non ha trovato giustificazione nei redditi dichiarati dall'uomo e dai familiari conviventi. Il coinvolto era già stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per associazione a delinquere finalizzata al traffico degli stupefacenti, e recentemente denunciato. Sequestrata anche un'abitazione a Surbo. 

https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/lecce/1263259/gestisce-locali-e-ha-anche-una-porsche-ma-il-reddito-dichiarato-e-di-poche-centinaia-di-euro-sequestro-nel-leccese.html

mercoledì 25 novembre 2020

La sterzata della Francia sulla tutela del clima: “Arriva il reato di ecocidio”. - Luana De Micco

 

La proposta di due ministri. Nell'ordinamento entreranno due tipi di contestazioni: la prima è un “reato generale di inquinamento” per danni gravi all'ambiente, la seconda è un “reato per la messa in pericolo grave dell'ambiente”. Previste multe fino a 4,5 milioni e anche la reclusione.

La Francia si prepara ad introdurre nel suo codice penale il concetto di “ecocidio”: inquinare e compiere azioni gravi contro l’ambiente diventeranno dunque reati. L’annuncio è arrivato sulle pagine del settimanale della domenica, Le Journal du Dimanche (JDD), che ha pubblicato un’intervista a due dei ministri, della Giustizia e dell’Ecologia, Éric Dupont-Moretti e Barbara Pompili (nella foto). Parigi fa dunque un passo avanti per rispondere ai problemi legati al cambiamento climatico e anche alle attese della Convenzione cittadina sul clima, un’assembla di 150 francesi dai 16 agli 80 anni, estratti a sorte, che era stata riunita nel 2019 sulla scia del successo delle marce dei giovani per il clima del movimento Fridays For Future promosso da Greta Thunberg. In nove mesi di dibattiti, la Convezione aveva partorito più di 150 proposte di misure, anche molto concrete, da mettere sul tavolo di Emmanuel Macron per rendere più verde la società francese con un obiettivo ben preciso: ridurre le emissioni di gas serra del 40% entro il 2023. Il 29 giugno scorso il presidente francese aveva ricevuto all’Eliseo i 150 cittadini assicurando loro che avrebbe ripreso la maggior parte delle loro proposte (146 in tutto) per portare avanti la “transizione ecologica e solidale” del paese. Una delle misure più forti dunque la creazione di un reato di ecocidio che molto presto dovrebbe diventare realtà. Di reati di fatto, hanno spiegato i due ministri al JDD, ne saranno istituiti due. Il primo è un “reato generale di inquinamento” per danni gravi all’ambiente “che sarà sanzionato con pene dai tre ai dieci anni di reclusione – hanno spiegato Dupont-Moretti e Pompili – in funzione che si sia in presenza di un’infrazione per imprudenza, di una violazione deliberata di un obbligo o di un’infrazione intenzionale”. Le multe andranno dai 375.000 ai 4,5 milioni di euro. Il secondo è un “reato per la messa in pericolo grave dell’ambiente” che “intende penalizzare chi mette in pericolo in modo deliberato l’ambiente violando le norme in vigore”. La pene prevista è di un anno di reclusione e 100.000 euro di multa.

Il reato riguarderà per esempio quelle fabbriche che “scaricano dei prodotti che non hanno un’incidenza concreta immediata sull’ambiente, ma di cui si teme che possano mettere in pericolo l’ambiente, i pesci e gli ecosistemi”. I due nuovi reati saranno iscritti nella legge sin dalla prossima settimana. “Oggi c’è chi sceglie di inquinare perché gli costa meno che pulire. Le cose cambieranno”, ha aggiunto Éric Dupont-Moretti. Molto enfaticamente Barbara Pompili, intervenuta anche alla radio FranceInfo, ha detto: “Il braccio della legge si abbatterà finalmente su tutti i banditi dell’ambiente, tutti quelli che gli recano danno o senza farlo apposta, o perché lo hanno voluto o perché hanno fatto una scelta intenzionale”.

Diverse associazioni, come France Nature Environnement, hanno visto nell’annuncio dei ministri un progresso nella politica ambientale del paese. Altre invece hanno fatto notare che il governo ha rivisto al ribasso, soprattutto sul piano delle sanzioni, le ambizioni del progetto inizialmente proposto dalla Convezione cittadina per il clima che, per esempio, puntava a multe molto più salate, fino a colpire il 20% del fatturato globale delle aziende colte in fallo. Il militante ecologista Cyril Dion ha lanciato a sua volta una petizione online per ricordare a Macron gli impegni presi a giugno con i francesi, raccogliendo in alcuni giorni più di 260.000 firme. Dion ricorda un sondaggio dell’istituto Harris per il quale nove francesi su dieci ritengono che sia “urgente” intervenire in favore del clima.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/24/la-sterzata-della-francia-sulla-tutela-del-clima-arriva-il-reato-di-ecocidio/6014398/