martedì 5 aprile 2022

Cui prodest?

 

Non voglio prendere le difese del russo Putino, ma avremmo dovuto adottare gli stessi metodi che stiamo adottando contro la Russia anche contro gli USA, non credete?
La verità è che sia gli uni che gli altri vorrebbero dominare il globo terrestre ognuno a suo modo e noi non dovremmo prendere le difese di nessuno dei due per correttezza mentale!

Vogliono farsi la guerra? Che se la facciano tra di loro sullo stretto di Bering, senza scomodare il resto del mondo e consiglierei, altresì, lor signori di andarci di persona a fare la guerra, potremmo avere anche la fortuna di vedere Putino, Bidet e Zelensky combattersi strenuamente con la speranza che la paura di morire li induca a riflettere su ciò che la guerra comporta in negativo!

Non esistono positività in una guerra, ma solo paura, morte, dispendio spropositato ed inutile di denaro pubblico che potrebbe essere impiegato per migliorare la vita sociale...

cetta.

lunedì 4 aprile 2022

Altro che “eroi” in camice: ecco i 66 mila esodati-Covid. - Natascia Ronchetti

 

IL 30 GIUGNO - Scadono i contratti: zero assunzioni.

In teoria dovrebbero essere quasi tutti stabilizzati. Solo in teoria, però. Perché in concreto si scontrano contro un muro: quello dei vincoli di bilancio. Per ora i quasi 54 mila operatori sanitari reclutati con contratti flessibili per far fronte alla pandemia hanno una sola certezza. Quella che il 30 giugno scadrà la proroga dei loro contratti. Sono medici (20.064), infermieri (23.233), operatori sociosanitari e altri professionisti come i tecnici di laboratorio o di radiologia (22.732). Totale: oltre 66 mila, ma solo 54 mila candidati all’assunzione a tempo indeterminato (vanno esclusi infatti gli specializzandi e il personale in quiescenza). La legge di Bilancio ha aperto uno spiraglio concedendo la possibilità di assumere coloro che alla fine di giugno hanno maturato almeno 18 mesi di servizio, di cui sei nel corso dell’emergenza. Ad avere i requisiti fissati dalla legge sarebbero in 43 mila.

Ma le incognite sono tante anche per questi ultimi. E per molti motivi. Perché fatta la legge dovranno poi essere le aziende sanitarie a procedere con le assunzioni cercando di far comunque quadrare i conti. E non c’è nulla di scontato, anzi. Poi perché non tutte le Regioni sono nelle stesse condizioni. Sette – Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Molise, Puglia e Sicilia – sono sottoposte a piani di rientro per risanare il disavanzo finanziario. Due, Calabria e Molise, sono commissariate. Un bluff? “Non c’è nessun automatismo, la legge si limita a offrire questa possibilità”, dice Carlo Palermo, segretario nazionale di Anaao, uno dei più rappresentativi sindacati dei medici ospedalieri. Il fatto è che oltre due anni fa, quando è scoppiata la pandemia, il Servizio sanitario nazionale era già stremato dai tagli – 46 mila posti in dieci anni – imposti dalla spending review. Mancavano allora, tra ospedali e territorio, 63 mila infermieri. E mancavano, nelle varie specialità, oltre 10 mila medici. Di questi ultimi, secondo una proiezione realizzata da Fiaso con il supporto di Sda Bocconi (Fiaso è l’associazione a cui fanno capo l’85% delle aziende sanitarie e ospedaliere italiane), andranno in pensione entro il 2024 in oltre 35 mila. Gli infermieri in uscita saranno invece 58.339. Le stabilizzazioni non risolverebbero affatto il problema perché continuerebbero a mancare all’appello in 18.353, tra camici bianchi e infermieri: una voragine. Ma almeno tamponerebbero qualche falla qua e là. Quanto basta per tentare almeno in parte di affrontare un’altra emergenza, quella del recupero delle lunghe liste d’attesa accumulate a causa della pandemia. “Tra visite specialistiche, interventi chirurgiche e ed esami diagnostici saltati, è un problema che ci trascineremo per molto tempo – prosegue Palermo –. Sempre sperando che non arrivi una nuova pandemia. Con il risultato di uno spostamento sempre più massiccio verso la sanità privata. Il pubblico è sempre più proiettato verso le terapie per gli acuti e il privato continua ad assorbire medici”.

Con la legge di Bilancio il governo ha aumentato la dotazione del fondo sanitario nazionale. Due miliardi all’anno per tre anni, si passa dai 124 miliardi per il 2022 ai 128 per il 2024. Soldi che dovrebbero servire – anche ma non solo – a stabilizzare i precari. Risorse che secondo Fiaso potrebbero essere del tutto insufficienti. Proprio come sono insufficienti, secondo le Regioni, gli stanziamenti a loro favore per coprire i maggiori oneri sostenuti a causa della pandemia. Come sappiamo hanno chiesto due miliardi ma finora ne hanno ottenuto uno. “Abbiamo un’opportunità – spiega il presidente di Fiaso, Giovanni Migliore – che deve fare i conti con un grosso limite legato al tetto di spesa per problemi di finanza pubblica”.
Tradotto: la responsabilità è tutta politica, alla fine dei conti la palla è nelle mani delle Regioni e del governo. C’è chi sta cercando di spostare il ragionamento sui vincoli dal tetto di spesa allo standard di personale da fissare per raggiungere un determinato obiettivo di salute. “Si tratta di definire per ogni servizio sanitario da erogare il numero delle risorse umane necessarie – osserva Migliore –. Ma è chiaro che se non ci si sottrae alla logica del tetto di spesa, la stabilizzazione potrebbe anche essere difficile o impossibile”. Per capire: Federsanità, l’associazione legata all’Anci, finora non ha negato le sue perplessità sulle stabilizzazioni.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/04/03/altro-che-eroi-in-camice-ecco-i-66-mila-esodati-covid/6546679/?utm_content=marcotravaglio&utm_medium=social&utm_campaign=Echobox2021&utm_source=Facebook&fbclid=IwAR2XwJZhoPY-_XKhh2UWyYvUVagWAjUKHlFUHHWlQn3ojpWMtdaeUBjkRww#Echobox=1648980466

domenica 3 aprile 2022

Tre gocce di solidarietà tra il silenzio. - Antonio Padellaro

 

“Ma tu ospiteresti una famiglia di ucraini a casa tua?”.

Frase ascoltata in un bar.

Sera fa, nella chiesa romana di piazza dei Giochi Delfici, il presidente del Consiglio italiano per i Rifugiati, Roberto Zaccaria, ha riunito politici, giornalisti e personaggi dello spettacolo per parlare di Ucraina. Penso di non fare torto alle tante cose giuste che sono state dette sulle spaventose conseguenze umanitarie di questa guerra se cito in particolare Valeria Carlini, la portavoce del Cir che ha raccontato alcuni degli interventi di questo progetto fatto di solidarietà e generosità. Ecco, mi sono detto, queste sono le persone che fanno ciò che a noi piace pensare di voler fare, ma poi non facciamo mai. È la rete che comprende, non solo idealmente, i volontari che a Trieste curano i piedi sanguinanti dei profughi giunti dopo viaggi estenuanti e fornisce loro le scarpe per andare avanti. Poi, c’è la Fondazione Dario Fo e Franca Rame che insieme alla Fondazione Il Fatto Quotidiano (sostegno a donne vittime di violenze, a giovani che non possono permettersi gli studi e a categorie sociali particolarmente indigenti) condividono il progetto per prelevare al confine con la Romania, accogliere e assistere in strutture adeguate le famiglie in fuga dal conflitto. Sono tre esempi, tre modelli, tre gocce in quel vasto mare della solidarietà di cui si parla poco, o quasi per nulla, ma non fa niente perché la chiacchiera inutile rappresenta esattamente il codice opposto a quel rimboccarsi le maniche e agire per salvare la vita del prossimo, in un ospedale da campo o in un campo profughi, missioni di cui Gino Strada è stato lo straordinario eroe. Fateci caso a quanto sta diventando poco opportuno, quasi sconveniente, citare in un discorso pubblico la catastrofe umanitaria che la guerra, questa guerra, sta provocando. Se fosse possibile leggere nel pensiero di alcuni ospiti televisivi vedremmo sicuramente dei fumetti dove sta scritto: ecco il solito pacifista che per farsi bello fa il gioco di Putin. Perfino riportare le dure parole del Papa riguardo ai governanti “pazzi” che investono montagne di soldi sugli armamenti, mentre il mondo che va a rotoli suscita nel migliore dei casi silenzi imbarazzati (in questo caso il fumetto direbbe: ecco il solito né-né che vilmente si nasconde dietro la veste bianca di Francesco). Sì, perché parlare delle persone in fuga dalle loro case – avete presente quegli esseri viventi che affogano nello strazio il loro passaggio su questa terra? – non sta bene (molto meglio bullizzare il prossimo che non la pensa come te). Di ciò di cui non si può parlare è meglio tacere, diceva quel grande filosofo. Io ho quel che ho donato, diceva quel grande poeta (e a proposito della domanda al bar di cui sopra, la risposta è stata: non ci penso nemmeno).

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/04/03/tre-gocce-di-solidarieta-tra-il-silenzio/6546621/?fbclid=IwAR2BAJ0JYobX3lCivLJRx_YygNsjNdpA8jyI6NzH_8D0FF8hPW8MrD9RxtA

Gas: dalla crisi ucraina emerge l'isola felice di Spagna e Portogallo.

 

C'è un'isola felice in Europa, nel caos provocato nel mercato energetico mondiale dalle conseguenza dell'invasione russa dell'Ucraina. Si tratta di Spagna e Portogallo che, con una dipendenza relativamente bassa dal gas naturale russo, vedono premiata la lungimiranza mostrata negli anni scorsi, quando si sono dimostrati leader nelle rinnovabili grazie all'energia solare, eolica e idraulica. E ora Spagna e Portogallo sono ora pronti a raccogliere i frutti degli investimenti a lungo termine nel gas naturale liquefatto (il GNL).

Spagna e Portogallo stanno sopportando la crisi del gas causata dal conflitto ucraino.

I numeri parlano da soli: la Spagna ha attualmente sei impianti per il trattamento del GNL, tra cui - a Barcellona - il più grande d'Europa; il Portogallo uno. Sommando le capacità di trattamento del GNL dei due Paesi, Spagna e Portogallo rappresentano un terzo della capacità di trattamento dell'intera Europa. I terminal portuali trasformano i carichi delle navi gasiere con il GNL a temperature bassissime in quello che poi arriva nelle case e nelle aziende.

I due Paesi riceveranno più importazioni di gas
, insieme al resto d'Europa, dopo che gli Stati Uniti hanno annunciato la scorsa settimana che avrebbero aiutato i loro alleati a ridurre la loro dipendenza dalla Russia.
L'aumento delle esportazioni di GNL dagli Stati Uniti all'Europa sarà di 15 miliardi di metri cubi, con spedizioni ancora più grandi in futuro.
La Spagna sembrava essere in una posizione vulnerabile lo scorso anno dopo che l'Algeria - nell'ambito di una pluriennale controversia con il Paese vicino - ha chiuso un gasdotto che attraversa il Marocco .
Nella corsa alla ricerca di alternative, i leader dell'Unione europea vogliono accelerare gli obiettivi a medio e lungo termine per passare ulteriormente alle energie rinnovabili, trovando nel frattempo fonti alternative di gas naturale. La Russia ha mantenuto il flusso, ma in passato ha anche chiuso i rubinetti durante le beghe con Ucraina e Bielorussia.

La crisi ha anche dimostrato che l'UE, pur essendo un mercato comune per 27 nazioni, presenta importanti strozzature interne nel suo sistema di distribuzione dell'energia.
Ci sono scarsi collegamenti energetici tra Spagna e Portogallo e il resto d'Europa. Questo è alla base di un cambiamento senza precedenti nella politica dell'UE quando, la scorsa settimana, ai Paesi iberici è stato permesso di proporre i propri meccanismi di controllo dei prezzi per far fronte all'aumento dei costi energetici in tutto il continente.

In linea teorica il GNL in arrivo e trattato in Spagna potrebbe essere inviato ai vicini più bisognosi più a est, ma ci sono evidenti difficoltà. Perché Spagna e Francia condividono due piccoli gasdotti in grado di trasportare l'equivalente di sette carichi di navi di GNL ogni mese, mentre la Spagna ha ricevuto 27 carichi nei suoi terminali a marzo, oltre al gas naturale pompato attraverso un gasdotto algerino.

A Madrid e Bruxelles si parla di rilanciare un piano per costruire un gasdotto più grande per il gas e l'energia a idrogeno verde per attraversare i Pirenei, ma, anche se ciò dovesse ottenere finanziamenti, ci vorrebbero diversi anni per iniziare a funzionare. E ci sarebbe ancora bisogno di più lavoro in Francia per aiutare a portare il gas dove è veramente necessario. Gli esperti concordano, tuttavia, che se l'Europa vuole l'autonomia energetica, deve rafforzare le sue connessioni.


sabato 2 aprile 2022

Via gli imballaggi in plastica per la frutta, tasse su confezioni monouso, vuoto a rendere: così si muovono i paesi Ue. E l’Italia resta a guardare. - Luisa Gaita

 

CARRELLI DI PLASTICA, LA NOSTRA CAMPAGNA CON GREENPEACE - L'adozione maldestra della direttiva Ue per l’Italia è l’ennesima occasione mancata, dopo la lunga serie di rinvii della plastic tax e, in generale, l’adozione di norme sbilanciate verso la sostituzione degli articoli monouso con articoli (sempre monouso) fatti di materiali alternativi. Per non parlare del tema del riuso. Ecco una panoramica su ciò che fanno gli altri Paesi Ue e su ciò che non ha fatto Roma.

Come si sta preparando il nostro Paese agli effetti sul fronte energetico della guerra in Ucraina? Nessuno ha ancora pensato a una cosa semplice: eliminare gli sprechi. Questa campagna de Ilfattoquotidiano.it e Greenpeace punta a dimostrare l’inutilità dell’enorme consumo quotidiano di plastica in Italia. E quindi dei suoi (sempre più alti) costi di produzione. Oltre a quelli ambientali.

Da gennaio 2022 in Francia è vietato l’utilizzo di involucri di plastica per la vendita di circa 30 tipi di frutta e verdura. Una norma dall’effetto tangibile sul carrello della spesa, sulla pattumiera a casa e sulle montagne di imballaggi che non è detto arrivino mai alla differenziata e al riciclo. In Spagna si va nella stessa direzione e il Senato ha appena approvato il progetto di legge sui rifiuti e i suoli contaminati, che recepisce nell’ordinamento nazionale la Direttiva sul monouso. Lo fa in ritardo, ma pone particolare attenzione alla riduzione degli imballaggi, oltre che al riutilizzo dei contenitori per alimenti e bevande e alla promozione dell’uso dell’acqua potabile. Anche Austria e Germania continuano a scommettere sul riutilizzo, con la prima che è diventata il primo paese europeo ad attuare obiettivi vincolanti. Alcuni Stati mettono in campo azioni incisive focalizzando meglio di altri il problema legato alla plastica, ossia la sua produzione fuori controllo. C’è chi lo fa approfittando del recepimento della direttiva sulla plastica monouso (la SUP, Single Use Plastic), c’è chi prova a superarla e c’è chi non riesce neppure a seguire la strada tracciata dalla norma europea che, comunque, presenta già i suoi limiti. Perché la SUP vieta alcuni prodotti monouso, ma non interviene in modo efficace su imballaggi e altre tipologie di plastiche usa e getta. In assenza di un quadro normativo globale di riferimento, quindi, ogni Paese fa da sé. L’Italia non riesce a stare al passo e arranca un po’ su tutto: dal recepimento della SUP alla mancanza di norme che puntino al riutilizzo tanto raccomandato dall’Unione europea, ma a cui si preferisce la sostituzione di articoli in plastica con alternative sempre monouso.

Lo scivolone sulla direttiva Sup, che alcuni Paesi superano – Nonostante ci siano ancora cinque Paesi europei che non hanno ancora recepito la direttiva del 2019 (Lussemburgo, Slovenia, Cipro, Polonia ed Estonia), questo resta un terreno scivoloso per l’Italia. Roma rischia la procedura d’infrazione dopo l’entrata in vigore (il 14 gennaio 2022, con oltre sei mesi di ritardo) del decreto legislativo che recepisce la SUP. In modo non corretto a sentire la Commissione Ue, che ha bocciato le deroghe al divieto di vendere, tra le altre cose, posate, piatti, cannucce, bastoncini cotonati e agitatori per bevande. La norma italiana, infatti, esclude dal divieto i prodotti dotati di rivestimento in plastica con un peso inferiore al 10% dell’intero prodotto e, per quelli destinati a entrare in contatto con gli alimenti, consente di ricorrere ad alternative in plastica biodegradabile e compostabile. In direzione opposta l’Irlanda, che nella sua strategia nazionale si impegna a estendere il divieto di vendita degli articoli indicati nella direttiva anche ad altri prodotti, come salviette umidificate, articoli da bagno in plastica monouso per hotel e utilizzati per il confezionamento di zucchero e condimenti. La Germania, che si era già mossa nel 2019 con la legge sugli imballaggi (VerpackG) modificata nel 2021, ha introdotto nel proprio ordinamento i divieti imposti dalla SUP e ha lavorato a ulteriori misure per ridurre il consumo di imballaggi in plastica monouso.

Le altre occasioni mancate in Italia – Per l’Italia è l’ennesima occasione mancata, dopo la lunga serie di rinvii della plastic tax e, in generale, l’adozione di norme sbilanciate verso la sostituzione degli articoli monouso in plastica tradizionale con articoli (sempre monouso) fatti di materiali alternativi, come la plastica compostabile. Sul fronte del riuso, asse portante dell’imminente revisione della direttiva comunitaria sul packaging, nel 2019 è stata introdotta la possibilità, per i consumatori, di utilizzare i propri contenitori riutilizzabili per l’acquisto di prodotti alimentari. Una pratica tuttora poco diffusa, anche per effetto della pandemia che avrebbe richiesto, invece, la predisposizione di prassi igienico-sanitarie nei settori coinvolti. Solo a settembre 2021, inoltre, è stato disposto il decreto attuativo del ‘bonus antiplastica’, il contributo a fondo perduto di 5mila euro che dovrebbe aiutare ad aprire nuovi negozi per la vendita esclusiva di prodotti sfusi o ad attrezzare spazi ad hoc anche all’interno dei supermercati, dedicati alla vendita di prodotti alimentari e detergenti sfusi o alla spina. Erano stati stanziati 40 milioni di euro (per il 2020 e il 2021), in attesa del decreto del Ministero della Transizione Ecologica, d’intesa con il Ministro dello Sviluppo Economico che avrebbe dovuto definire, entro il 15 dicembre 2019, le modalità per l’ottenimento del contributo. Mentre l’attesa bloccava l’accesso ai fondi, si è continuato però a spendere risorse per i compattatori, gli impianti ‘mangiaplastica’ che tra qualche anno, secondo le indicazioni del Parlamento (e dell’Ue), non dovrebbero servire più. Altri Paesi, invece, hanno utilizzato proprio il recepimento della direttiva SUP per andare oltre, come raccontato già ad aprile 2021 da uno studio redatto per conto di Greenpeace Italia dall’ingegnere Paolo Azzurro, consulente tecnico in materia di rifiuti ed economia circolare, che ha esaminato le azioni intraprese dall’Italia e dagli altri Paesi.

In Francia niente plastica per frutta e verdura  Va oltre certamente Parigi. Il 30 gennaio 2020 il Parlamento francese ha approvato il testo del progetto di legge sui rifiuti e l’economia circolare, la Legge Antispreco, a cui ha fatto seguito un decreto ad hoc su riduzione, riutilizzo e riciclaggio. E se finora il 37% dei prodotti ortofrutticoli è stato venduto con l’imballaggio, il governo Macron stima di risparmiare circa un miliardo di imballaggi all’anno con il divieto, scattato a gennaio 2022, di utilizzare involucri di plastica per la vendita di circa 30 tipi di frutta e verdura (su confezioni che pesano meno di un chilo e mezzo). Nella lista, mele, pere, arance, clementine, kiwi, mandarini, limoni, pompelmi, prugne, meloni, ananas, mango, frutto della passione, cachi, ma anche porri, zucchine, melanzane, peperoni, cetrioli, patate e carote, pomodori tondi, cipolle e rape, cavoli, cavolfiori, zucca, pastinaca, ravanello, topinambur, ortaggi a radice. Sono previste esenzioni per la frutta tagliata e trasformata e soglie di tolleranza fino al 2026 per i prodotti più delicati.

Le tre ‘R’ di Parigi – Ma Parigi ha anche fissato un target nazionale per l’eliminazione degli imballaggi in plastica monouso entro il 2040, stanziando 40 milioni di euro per investimenti sul riutilizzo per il 2021-2022 come parte del suo fondo per l’economia circolare. Il governo si è posto obiettivi di riduzione, riutilizzo e riciclo per periodi consecutivi di 5 anni. Per il riutilizzo di tutte le tipologie di imballaggi immessi sul mercato il target è del 5% entro il 2023 e del 10% entro il 2027. Sul fronte riduzione si punta al -20% già per il 2025. E se dal 2020 tutti gli esercizi dove si somministrano alimenti e bevande non possono mettere a disposizione tazze, bicchieri e piatti usa e getta in plastica per il consumo sul posto, dal 2023 questo divieto sarà esteso a tutte le opzioni monouso (non solo a quelle in plastica), con l’obbligo di impiegare quelle riutilizzabili. Misure specifiche, invece, per le bottiglie in PET (polietilene tereftalato) per liquidi alimentari: per arrivare a dimezzare entro il 2030 il numero di bottiglie in plastica monouso per bevande immesse sul mercato (con target di riciclo del 77% entro il 2025 e del 90% entro il 2029) da gennaio 2022 gli edifici pubblici devono avere almeno una fonte di acqua potabile collegata alla rete accessibile al pubblico e anche le attività di ristorazione e i locali di somministrazione di bevande devono dare ai consumatori la possibilità di richiedere acqua potabile gratuita.

La Spagna segue l’esempio – In Spagna ha fatto molto discutere anche la misura contenuta nella bozza del Regio Decreto spagnolo sugli imballaggi e sui rifiuti con la previsione che, dal 2023, nelle attività commerciali al dettaglio (indipendentemente dalla loro dimensione) frutta e verdura confezionate in lotti di peso inferiore a un chilo e mezzo non siano più vendute in imballaggi di plastica. Il compito di stilare la lista di prodotti a rischio deterioramento (esclusi, quindi, dal divieto) all’Agenzia spagnola per la sicurezza alimentare e la nutrizione. Il progetto di legge appena approvato dal Senato prevede che, entro il 1° gennaio 2023, i rivenditori di generi alimentari la cui superficie sia pari o superiore a 400 metri quadrati destineranno almeno il 20% della propria superficie di vendita all’offerta di prodotti presentati senza imballaggio primario, compresa la vendita sfusa o attraverso imballaggi riutilizzabili. Tutti gli esercizi alimentari che vendono prodotti freschi e bevande, nonché cibi cotti, dovranno accettare l’uso di contenitori riutilizzabili, che potranno essere rifiutati dal commerciante se sono sporchi o non idonei. Viene, inoltre, introdotta una tassa speciale sui contenitori di plastica non riutilizzabili (con aliquota a 0,45 euro al chilogrammo).

Dall’Austria alla Germania: gli altri Paesi che scommettono sul riuso – In Portogallo, a partire dal 2030, il 30% del packaging dovrà essere riutilizzabile. A novembre 2021, però, è stata l’Austria il primo paese europeo ad attuare obiettivi di riutilizzo vincolanti e applicabili, imponendo nella legge sulla gestione dei rifiuti una quota di riutilizzo delle bevande del 25% entro il 2025. I supermercati sono obbligati a fornire almeno il 15% di birra e acqua (il 10% per bevande analcoliche, succhi e latte) in imballaggi riutilizzabili. In Germania, invece, un recente emendamento alla legge sugli imballaggi prevede, dal 2023, l’obbligo per ristoranti, bistrot e caffè (con alcune esenzioni) di mettere a disposizione dei consumatori alimenti e bevande anche in contenitori riutilizzabili, sia per il consumo sul posto che da asporto. Questi contenitori verranno consegnati ai clienti a fronte di un deposito cauzionale (DRS, Deposit Return Systems), che li spinga alla restituzione. Da quest’anno, inoltre, il sistema di deposito su cauzione tedesco sarà esteso progressivamente a tutte le bottiglie per bevande in plastica monouso, a prescindere dal tipo di bevanda contenuta.

Il vuoto a rendere – D’altronde per gli esperti il cosiddetto ‘vuoto a rendere’ è l’unico strumento che potrà consentire ai Paesi europei di raggiungere gli ambiziosi obiettivi europei imposti dal pacchetto Economia circolare e, in particolare, proprio dalla direttiva SUP, che impone un tasso di raccolta del 90% per le bottiglie di plastica per bevande entro il 2029 (con un obiettivo di raccolta intermedio del 77% entro il 2025) e un minimo del 25% di plastica riciclata nelle bottiglie in PET dal 2025 (30% dal 2030 in tutte le bottiglie in plastica per bevande). In Italia il deposito su cauzione per imballaggi di bevande di plastica, vetro e alluminio, è stato introdotto con il decreto Semplificazioni, ma non è mai entrato in funzione. A novembre 2021, l’associazione Comuni Virtuosi, insieme ad altre 15 ong, tra cui anche Greenpeace, ha lanciato un appello – e nelle scorse settimane una campagna di sensibilizzazione – ricordando che in Europa sono attualmente attivi dieci sistemi, tra cui quello tedesco che conta 83 milioni di consumatori. I vari sistemi sono stati introdotti prima in Svezia, Islanda, Finlandia, Norvegia, Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Estonia, Croazia, Lituania. Altri tredici paesi ne hanno annunciato l’introduzione nei prossimi quattro anni: Malta, Lettonia, Portogallo, Romania, Irlanda, Slovacchia, Scozia e Turchia nel 2022, Grecia e Ungheria nel 2023, Regno Unito nel 2024, Austria e Cipro nel 2025. Anche in Spagna c’è un’importante novità. Sempre il decreto appena approvato in Senato stabilisce degli obiettivi di raccolta differenziata per le bottiglie monouso in plastica per bevande (con capacità fino a tre litri): il primo step è il 70% di quelle introdotte sul mercato entro il 2023, per arrivare gradualmente all’85% nel 2027 e al 90% entro il 2029. Ma nel caso in cui gli obiettivi fissati nel 2023 o nel 2027 non siano raggiunti a livello nazionale, entro due anni sarà attuato su tutto il territorio un sistema di deposito su cauzione obbligatorio per garantire il rispetto degli obiettivi al 2025 e 2029 introdotti proprio dalla Direttiva SUP. Cosa manca in Italia? Si attende un decreto attuativo che sembra presentare alcune “complessità tecniche e organizzative”. Stando alla risposta a un’interrogazione parlamentare del M5S, servirebbe una “modifica normativa” da emanare entro giugno 2022.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/04/02/via-gli-imballaggi-in-plastica-per-la-frutta-tasse-su-confezioni-monouso-vuoto-a-rendere-cosi-si-muovono-i-paesi-ue-e-litalia-resta-a-guardare/6503260/

Il paradosso italiano: rinnovabili bloccate per il 90% e produzione di gas in caduta. - Jacopo Giliberto

 

I PUNTI CHIAVE

Mentre mezz’Europa studia come organizzare il razionamento dell’energia, mentre mezz’Europa sta riempiendo a tutta forza di metano gli stoccaggi di gas, ecco che cosa accade in Italia. Meglio: ecco che cosa non accade in Italia.

Giacimenti abbandonati.

I giacimenti in mezzo all’Alto Adriatico, fra i 30-40 miliardi di metri cubi, che non si riuscirebbe a estrarre oltre una velocità tecnica di qualche miliardo di metri cubi per una quindicina d’anni, non vengono sfruttati per timore che facciano sprofondare Venezia. Intanto, un metro di là dal confine immaginario in mezzo all’Adriatico, la Croazia ha appena perforato un nuovo pozzo con piattaforma, 150mila metri cubi di gas al giorno, 55 milioni di metri cubi l’anno, totale del giacimento 200 milioni di metri cubi. Entusiasmo a Zagabria per questo importante contributo all’indipendenza energetica.

Ancora notizie dal mare Adriatico. Il giacimento Giulia al largo di Rimini ha già la piattaforma posata, il pozzo perforato, 550 milioni di metri cubi di metano da estrarre (il doppio di quello appena avviato dai croati), ma è fermo e tappato perché è più vicino di 12 miglia dalla riva e quindi per legge è stato congelato l’allacciamento della condotta fino a terra. Le norme dal 2016 fino all’attuale Pitesai dicono che quel giacimento non va toccato.

Più import, meno gas nazionale.

Il ministero della Transizione ecologica ha appena pubblicato il bilancio del metano in Italia per il mese di febbraio: dai giacimenti nazionali sono stati estratti appena 260 milioni di metri cubi di gas, -24,8% rispetto al febbraio 2021. In gennaio erano 279 milioni. I consumi totali italiani di febbraio sono stati 7,59 miliardi di metri cubi, l’import è in aumento del 16,8%, soprattutto dall’Algeria; la Russia è scesa in seconda posizione. (Le anticipazioni dicono che in marzo l’import russo sia in aumento e torni in prima posizione).

Stanno riempiendo a manetta gli stoccaggi di metano i seguenti Paesi: Austria, Cechia, Croazia, Francia, Germania, Lettonia, Olanda, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia, Ungheria. Segno meno per le scorte italiane.

Fonti rinnovabili bloccate.

Secondo il censimento dell’Anie Rinnovabili, per raggiungere gli obiettivi minimalisti del piano nazionale l’Italia dovrebbe costruire impianti solari, eolici, idroelettrici, geotermici e così via per 4.700 megawatt l’anno. Nel 2021 sono stati costruiti impianti nuovi pari a 1.300 megawatt, meno di un terzo, mentre degli impianti che erano già attivi sono usciti dal servizio 21 megawatt, spenti perché troppo vecchi. Totale: ci sono centrali rinnovabili complessive per 57.676 megawatt su un obiettivo al 2030 di 95.210 megawatt, periodo ipotetico dell’irrealtà.

Il nuovo rapporto Regions del centro studi Elemens con Public Affairs Advisors dice che più del 90% degli impianti eolici e solari presentati nel 2021 non ha superato lo stadio cartaceo.

I numeri dell’eolico: è ancora allo stadio di autorizzazione il 57,5% dei progetti proposti nel 2018, il 79,3% dei progetti presentati nel 2019, il 90% dei progetti presentati nel 2020 e del 99,9% dei progetti del 2021.

I numeri del fotovoltaico: è ancora in sala d’attesa per l’autorizzazione il 79,5% dei 14mila megawatt richiesti nel 2020 e il 92,4% dei progetti presentati nel 2021.

Chi blocca le rinnovabili.

La ricerca Regions di Elemens ha analizzato 209 progetti di impianti eolici sotto esame alla commissione di valutazione di impatto ambientale al ministero della Transizione ecologica. Dei 209 progetti, il ministero della Cultura ha espresso 41 pareri negativi e solo 6 positivi; silenzio totale per altri 162 progetti. Le Regioni hanno mandato alla commissione Via del ministero 46 pareri negativi e appena un parere positivo; mutismo per gli altri 162 progetti. Tempo medio di anticamera: 5,4 anni.

La maggior parte dei progetti si concentra in Puglia e Sicilia. Le Regioni più solerti nell’esaminare i progetti sono Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Liguria, Sicilia e Veneto. Le più indolenti? Umbria, Basilicata e, in fondo, le Marche.

Segnali positivi.

L’associazione Gruppo impianti solari Gis informa che il Consiglio di Stato ha respinto un ricorso del ministero della Cultura: sbloccati due impianti solari a Montalto di Castro (Viterbo) per 235 megawatt.

La Regione Lombardia ha approvato le compensazioni per le comunità che ospitano stoccaggi sotterranei di gas.

La Provincia di Brescia ha sbloccato il progetto dell’A2A per produrre biometano dai rifiuti in un impianto a Bedizzole.

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Reddito Universale e salute mentale. - Matthew Smith














La povertà, la disuguaglianza e  l’isolamento sociale  possono portare a problemi di salute mentale, ansia e depressione. Il reddito universale può aiutare ad alleviare questi problemi.

Durante gli anni dopo la seconda guerra mondiale negli Stati Uniti sono stati portati avanti quattro progetti di ricerca sulla psichiatria sociale e su come prevenire la malattia mentale. Il primo, Robert Faris e H. Warren Dunham’s  Mental Disorder in Urban Areas è  stato uno studio di Chicago che ha scoperto come le persone con diagnosi di  schizofrenia  tendessero a provenire dalle aree povere e caotiche della città.

Il secondo è stato il Social Class and Mental Illness di Frederick Redlich e August Hollingshead, incentrato su classi e disuguaglianze a New Haven, nel Connecticut. Il terzo studio è stato lo Stirling County Study, che si è concentrato su una contea della Nuova Scozia, in Canada, ed è stato condotto da Alexander Leighton. Questo studio ha scoperto che l’isolamento sociale potrebbe innescare problemi di salute mentale, tra cui  ansia  e  depressione .

Lo studio finale è stato  il Mental Health in the Metropolis di Leo Srole e Marvin Opler, un progetto focalizzato su Manhattan, che ha scoperto che l’isolamento sociale crea problemi e disordini di salute mentale, all’interno di una città frenetica. Lo studio ha anche enfatizzato il ruolo della povertà e stabilito un legame tra cattiva salute fisica e mentale.

Nel complesso, questi studi hanno rilevato che la povertà, la disuguaglianza e l’isolamento sociale sono tutti fattori di una cattiva salute mentale. Sebbene alcuni tentativi siano stati fatti per affrontare questi problemi durante gli anni ’60, negli anni ’70 gran parte dell’interesse per la psichiatria sociale è diminuito.

Oggi ci sono rinnovate preoccupazioni per l’aumento dei tassi di malattia mentale, ma poche persone parlano di ciò che è necessario per prevenirla. Quando penso alle soluzioni che potrebbero affrontare la povertà, la disuguaglianza e l’isolamento sociale e che sono strettamente legate alla salute mentale, penso sempre più che il reddito di base universale possa essere una possibile soluzione. 

Sono anche sempre più convinto che uno dei fattori che dobbiamo considerare per valutare se il reddito universale possa funzionare sia determinare i suoi effetti sulla salute mentale. Quando i test pilota sul reddito universale sono stati condotti in Canada, Finlandia o altrove, le persone coinvolte hanno riferito che la propria salute mentale è migliorata.

Ma perché è così? Ebbene, il reddito universale aiuta ad affrontare i tre fattori sociali implicati nella malattia mentale. In primo luogo, riduce la povertà e, inoltre, elimina l’ansia associata ai cambiamenti del sistema del welfare. Le persone semplicemente ottengono il loro reddito senza fare domande.

In secondo luogo, riduce la disuguaglianza in parte perché è dato a tutti, indipendentemente dal loro reddito, ma anche, e soprattutto, offre alle persone l’opportunità di salire la scala sociale accedendo all’istruzione, avviando un’attività in proprio, impegnandosi in attività creative o artistiche. Fornisce un cuscinetto economico in modo che le persone possano apportare cambiamenti positivi nella loro vita. Erode la disperazione e la depressione associate al vivere sui gradini più bassi della scala sociale.

Infine, fornisce alle persone mezzi economici per impegnarsi di più nelle loro comunità. Se le persone trovano che il volontariato sia significativo o desiderano dedicare del tempo alla cura dei membri della famiglia, il reddito universale consente loro di farlo. Offre un’opportunità di crescita sociale ed emotiva, piuttosto che una semplice crescita economica.

Se il sistema di welfare non fosse così tanto impegnato nel determinare chi merita i benefici e nel vagliare coloro che sono ritenuti spettanti o meno, le persone che lavorano nel sistema sarebbero in grado di dedicare il loro tempo ad aiutare effettivamente chi sta male. Libererebbe un’enorme quantità di risorse umane per affrontare problemi più difficili, come dipendenze, abusi e altri problemi di salute mentale. Il reddito universale sarebbe anche un enorme vantaggio per coloro che attualmente soffrono di malattie mentali e lottano per sbarcare il lunario mentre cercano di stare meglio. Il reddito universale non impedirebbe tutte le malattie mentali o risolverebbe tutti i nostri problemi sociali, ma darebbe un enorme carico al sistema in modo che sia più facile affrontare i problemi più difficili da sradicare.

Proprio come i professionisti della salute mentale, gli attivisti, i pazienti e gli enti di beneficenza devono essere più audaci nello spingere i cambiamenti sociali necessari per prevenire la malattia mentale; i sostenitori del reddito di base universale devono iniziare a includere le valutazioni della salute mentale nei loro progetti pilota. Soprattutto, dobbiamo iniziare a parlare e provare nuove politiche sociali progressiste che possano aiutare a ridurre l’enorme costo della malattia mentale per la società.

Articolo originale apparso su Psychology Today

https://beppegrillo.it/reddito-universale-e-salute-mentale/